Forse qualcuno si può sorprendere apprendendo che Giuseppe Mazzini si dedicò, oltre che alla politica, anche alla musica prediligendola fra le varie manifestazioni dell’arte che potevano contribuire grandemente all’educazione del popolo. Lo si evince dal piccolo trattato di estetica musicale che scrisse nel 1836, la Filosofia della Musica, dove esordì con queste parole:
“Chi scrive non sa di musica, se non quando gli insegna il cuore, o poco più; ma nato in Italia, ove la musica ha patria, e la natura è un concento, e l’armonia s’insinua nell’anima colla prima canzone che le madri cantano alla culla dei figli, egli sente il suo diritto, e scrive senza studio, come il core gli detta, quelle cose che a lui paiono vere e non avvertite finora…”
Già in questo scritto Mazzini auspica il sorgere di una nuova musica, non più salottiera e aristocratica, ma popolare, che sappia esprimere con un linguaggio fresco e immediato i più nobili sentimenti della nazione e dell'amor patrio; individua nel coro lo strumento più efficace per attingere ad una fusione ideale degli animi di migliaia di persone e spronarle ad un’azione comune. Proseguendo nella lettura si apprende anche che egli non era estraneo alla conoscenza del melodramma della sua epoca e che possedeva notevoli informazioni di carattere storico e tecnico.
Mazzini manifesta infatti una particolare predilezione per la musica di Gioacchino Rossini, che non esita a definire “un titano di potenza e d’audacia. Rossini è il Napoleone d’un’epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compito nella musica ciò che il romanticismo ha compito in letteratura. Ha sancito l’indipendenza musicale: negato il principio d’autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l’onnipotenza del genio”. Dopo poche pagine, però, egli deve costatare che il celebre compositore pesarese pecca di eccesso d’individualismo e, pur ribadendone la genialità, assegna alla sua musica caratteri statici, se non addirittura regressivi: “Oggi urge l’emancipazione dalla musica di Rossini e dall’epoca musicale che ei rappresenta” (Filosofia della Musica cit.,p. 32).
Passando in rassegna gli altri compositori italiani del suo tempo, ripone qualche speranza in Gaetano Donizetti, “l’unico il cui ingegno altamente progressivo rivelò tendenze rigeneratrici, l’unico ch’io mi sappia, sul quale possa in oggi riposare con un po’ di fiducia l’animo stanco e nauseato del volgo d’imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia!” (p. 55).
Neanche Vincenzo Bellini incarna il suo ideale, perché “pur superiore a tutti gli altri che sono imitatori d’imitatori, era ingegno di transizione, un anello tra la scuola italiana come oggi l’abbiamo e la scuola futura; una voce malinconica tra due mondi: un suono di ricordanza e di desiderio” (p. 56).
Passando poi in rassegna il panorama della musica francese, egli colloca al primo posto Meyerbeer, di cui ammira alcune opere, specialmente Roberto il diavolo e Gli Ugonotti; esamina poi i caratteri della musica germanica facendo il raffronto con quella italiana.
E come valutò Giuseppe Verdi? Massimo Mila scrive in L’Arte di Verdi (Torino 1980, p. 305) che quando Mazzini auspicava nelle pagine del saggio che il coro acquisisse maggiore importanza nel dramma musicale innalzandosi dalla sfera secondaria e passiva assegnatagli fino allora, “il pensiero corre inevitabilmente al coro del Nabucco e al coro dei Lombardi e troppo chiaro appare ormai chi fosse, nei disegni della Storia, quell’- ignoto numini - al quale Mazzini dedicò la sua Filosofia della Musica e del quale predica l’avvento. - Quel genio sorgerà - Quel genio fu Giuseppe Verdi” (pp. 295-296). Franco Abbiati ci offre invece altre interessanti indicazioni quando asserisce : “Una vera gloria era quella preconizzata dal filosofico Mazzini al giovane musicista italiano che forse in qualche angolo del nostro terreno, s’agita, sotto l’ispirazione, e ravvolge dentro di sé il segreto di un’epoca musicale” (“Giuseppe Verdi”, Ricordi, Milano 1959, vol. I, p. 62), ma Mazzini non aveva potuto ancora identificare l’Ignoto Numini con Verdi, perché il Maestro di Busseto nel 1836 aveva appena ventitré anni. “Mazzini sognava e invocava tanta gloria nel 1836, lamentandosi per allora che l’arte italiana mancasse - del battesimo di una missione -, auspicando l’avvento di una musica educatrice, di una musica per il popolo, di una musica europea che compendiasse e insieme confondesse i basilari elementi generatori della melodia (l’uomo, l’azione, l’individualità) e dell’armonia (Dio, il pensiero, la società)”.
I rapporti con Giuseppe Verdi
Mazzini aveva conosciuto Verdi a Londra dove il compositore si era recato nel 1847 per rappresentare il 22 gennaio I Masnadieri, la sua prima opera scritta per i teatri stranieri. Lo si desume dalle sintetiche parole scritte da Mazzini alla madre Maria Drago il 22 giugno 1847: “Ho veduto Verdi il compositore”. L’incontro era avvenuto in casa Milner Gibson o forse in quella Macready. Stefano Ragni nel suo saggio “Giuseppe Mazzini e Giulia Grisi” (“Bollettino della Domus Mazziniana”, Pisa 1989, n. 1, p. 47) ci fornisce altri interessanti particolari:
“Si manifestò forse, già dal primo contatto, quella incompatibilità di personalità, che doveva anche in seguito rendere assai difficoltosi i rapporti tra i due grandi del Risorgimento. Anzi c’è da aggiungere che, da parte di Mazzini, si può cogliere una nota di malcelata diffidenza verso Verdi, per niente propenso a sbilanciarsi verso i programmi politici del grande esule: ad una notizia filtrata in Italia il genovese oppone le dovute precisazioni: “No; Verdi non compose alcuna cosa pel nostro Concerto”.
Massimo Mila riferisce che, tuttavia, “vediamo (Verdi, NdR.) nel 1848, aderire ad una preghiera di Mazzini e musicare l’Inno di Mameli, preoccupandosi d’essere, con la propria musica, - popolare e facile” (op. cit., p. 305).
Alla madre “Peppino (Verdi, NdR.), sapendo di farla lieta, aveva raccontato la vita di Londra, con la Regina che lo applaudiva e lo voleva a corte, con Mazzini che aveva desiderato conoscerlo e s’era fatto promettere un nuovo Inno di Mameli, da sostituire a quello già noto dei Fratelli d’Italia, e da aggiungere al recente del sommo Rossini, dedicato al Municipio e alla Guardia Civica di Bologna” (Abbiati, op. cit., vol. I, p. 749). Per fugare eventuali dubbi, occorre precisare che il famoso Fratelli d’Italia fu musicato dal genovese Michele Novaro e che l’inno composto da Verdi su parole di G. Mameli dal titolo “Suona la Tromba” parafrasava il celebre “Suoni la tromba” del finale del 2° atto dei Puritani; purtroppo il parto congiunto di Mameli e Verdi - come scrisse il musicologo Lorenzo Arruga, che nel 1995 trovò lo spartito verdiano fra le carte del Conservatorio di Milano, in seguito alla scoperta fatta dalla professoressa di lettere Maria Teresa Balestrieri - era orrendo. "La cosa più brutta di Verdi", precisava l'esperto, "che abbia mai letto o ascoltato". La notizia è confermata da Franco Abbiati (op. cit., vol. III, p. 53) che scrive:
“La pagina quarantottesca egli l’aveva donata a Mazzini lasciandolo arbitro di farne ciò che voleva: - Fatene l’uso che credete - gli aveva scritto e - possa quest’Inno, fra la musica del cannone, esser presto cantato nelle pianure lombarde…- Invece l’inno non aveva avuto fortuna”. Fu inviato da Mazzini, tramite lettera, il 18 ottobre 1848 ed edito da Paolo De Giorgi, poi dal Ricordi, fra i Cinque canti popolari (A. Oberdorfer, a c., Autobiografia dalle lettere di G. Verdi, Rizzoli, Milano).
Mazzini e il teatro d’opera
Il celebre triumviro Aurelio Saffi ci offre un’efficace inquadratura di un Mazzini immerso nel canto e nelle suggestioni musicali:
“Mazzini amava, sapendosi solo e non ascoltato - talora fra il giorno, più spesso a tarda notte - cantare sotto voce che, modulata dal canto, scendeva al core. Mi rammento l’impressione che mi faceva l’udirlo cantare di tal guisa in Roma, in qualche momento di ristoro dagli affari, nella sua camera privata al Palazzo della Consulta”. A proposito delle attitudini vocali del patriota genovese riporto una sua dichiarazione: “La mia voce è di tenore, credo; ma canto a modo mio qualunque cosa. I toni che amo sono tutti i minori” (Lettera alla madre, Londra, 11 ottobre 1842).
Attraverso l’Epistolario mazziniano si può inoltre ricostruire il gusto musicale dell’uomo politico italiano cogliendo aspetti interessanti delle sue opinioni riguardo al teatro d’opera, i cantanti e gli strumentisti attivi ai suoi giorni. Ogni volta in cui gli era possibile, infatti, Giuseppe Mazzini si recava a teatro per assistere ad uno spettacolo d’opera:
“Questa sera vado - gran cosa - a sentire la Semiramide; è una delle prime opere che ho sentito a Genova; e in virtù delle reminiscenze che mi desta, ho deciso di fare un miracolo e andare: unica volta che andrò al teatro pagando; giacché se andrò altre volte, andrò con i biglietti dati da’ miei amici cantanti. Una pazzia in un anno può farsi” (Lettera alla madre, Londra, 10 aprile 1847).
“O giovedì o sabato andremo all’Africana […] Ebbi insolitamente la restituzione di una parte di un credito fatto ad un operaio romano; e la somma aumentò. Se preferisco di spenderla in un palco all’Opera perché mai dovreste fare obbiezioni?”(Lettera inviata da Londra nel giugno 1864 ad Emilie Ashurst Venturi, una delle tre figlie dell’avvocato d’idee liberali Guglielmo Enrico Ashurst, che viveva a Londra).
Inoltre Mazzini si adoperò moltissimo al fine di indire concerti di beneficenza invitando cantanti celebri come il tenore Mario, il soprano Giulia Grisi, il baritono Tamburini, il basso Luigi Lablache, che collaborarono con serate di beneficenza a favore della Scuola per i piccoli Italiani che vivevano a Londra (la Scuola era stata aperta nel 1841 in Hatton Garden, a Londra, per i fanciulli italiani; in particolare vi andavano ad imparare a leggere e a scrivere i piccoli musicanti girovaghi e gli spazzacamino) e per il sostentamento del fondo nazionale. In seguito Mazzini, per raccogliere finanziamenti per la Scuola, poté contare anche sull’aiuto del famoso contralto Marietta Alboni. Infatti Mazzini scrive in una lettera inviata a G. Lamberti l’8 maggio 1847:
“L’11 di giugno probabilmente avremo il Concerto e mi tocca organizzarlo. Canteranno, emancipati com’or sono dalla tirannide dell’Opera vecchia, Mario, la Grisi, Salvi (1810- 1879, tenore bolognese)e l’Alboni etc. Perdio! V’insegno almeno, se volete impararla, l’arte di far tratto un po’ di denaro per le cose”.
Il concerto venne infine fissato per il 5 luglio, come si desume dalla lettera scritta alla madre da Londra il 7 giugno 1847:
“Vi canteranno Mario, la Grisi, Tamburini, Salvi, Marini, Rovere, l’Alboni, la Persiani, la Corbari, etc. Sto occupandomene in questo momento”.
Mazzini ed altri patrioti italiani ebbero sempre cordiale accoglienza in casa Mario sia a Londra, sia a Parigi. La conoscenza con il celebre tenore era avvenuta nel lontano 1829, come ci documenta la figlia Cecilia Pearse De Candia nel suo libro, Il romanzo di un celebre tenore. Ricordi di Mario, pubblicato nel 1913: “Mario lasciò l’Accademia Militare nel 1829 col grado di sottotenente dei Cacciatori delle Guardie e raggiunse il suo reggimento a Genova, dove s’incontrò per la prima volta con Giuseppe Mazzini e lo sfortunato Iacopo Ruffini”.
Mazzini nelle lettere inviate a Giuseppe Lamberti e ad altri, rivela che, grazie alla sua amicizia con Mario, trovò a Parigi una famiglia e spesso confida anche la sua sincera affezione per il celebre cantante e per la moglie - la nobile intelligente, bellissima Giulia -. Mario si prestò varie volte a spedire personalmente le lettere dell’Apostolo dell’Unità italiana per stornare l’attenta sorveglianza delle spie oppure incaricò un suo servitore, probabilmente Rosa, come si evince dalla corrispondenza di Mazzini a Lamberti:
“Ti ho mandate le lettere per mezzo del servitore di Mario, se vanno perdute o tu non le ricevi, vai nella Rue d’Astorg a ricercarle”.
E poi ancora:
“Ieri ti mandai per il servo di Mario delle lettere di Bixio (Alessandro, fratello di Nino; la madre di Mazzini era intima della madre dei due Bixio), Pelosi e Boni”.
In un’altra lettera da Londra, datata 23 maggio 1846, il patriota genovese scrive:
“Mario mi ha invitato a stare in casa sua. Non ti pare una cosa buona per me? Scrivi a Collino o informalo che in qualche modo che si presenti a Persiani, il marito della cantante, a Madrid e chiedigli quello che Mario lo ha incaricato di pagare a te”.
In un’altra occasione Mazzini allude al rapporto stampato di un’adunanza di cui voleva fossero diramate molte copie: - Una quinta a Mario perché egli è membro -.
Si apprende inoltre che “una sera a casa di Mario si trovarono riuniti Mazzini, Cialdini e altri patrioti. Mazzini parlò con tale calore della causa che tanto gli stava a cuore che la Grisi, commossa sino alle lacrime, lasciò per un momento la sala e rientrò poco dopo con un vassoio pieno di tutti i suoi gioielli, i quali ella porse a Mazzini, dicendo: - Prendete, sono per la mia patria! -
Queste dichiarazioni, pubblicate nel 1913 da Cecilia Pearse De Candia, figlia del celebre tenore e di Giulia Grisi, si concludono con l’asserzione che “dalle continue allusioni a mio padre, che troviamo nelle lettere del gran patriota, risulta chiaro quanto Mario lavorasse attivamente ed incessantemente, sebbene ignorato dai più, alla gran causa dell’unità d’Italia”. Emerge l’immensa disponibilità e generosità di Giulia Grisi anche quando si prodigò per far ottenere a Mazzini l’agognata possibilità di essere ammesso all’Opera Italiana, come si evince dalla lettera che egli inviò alla madre il 7 giugno 1947:
“Ho ricevuto, e forse ve l’ho già detto, un biglietto d’ammissione perpetua all’Opera Italiana di Covent Garden: cioè che, saltandomi in testa posso entrare quando voglio gratis; ben inteso, che colle mie abitudini, ne approfitterò raramente; ma pure qualche volta ne profitterò”.
La Grisi continuerà anche in seguito ad aiutare G. Mazzini; dopo il suo trasferimento a Parigi nell’autunno 1847, l’esule poté infatti ritrovarsi con gli altri cospiratori nell’abitazione dell’artista, che divenne un autentico covo di cospiratori e in seguito ricevette da lei un’ingente somma per finanziare la spedizione italiana di una legione di esuli, la cosiddetta -Colonna Antonini -. “Mario aveva offerto 500 franchi, la Grisi altrettanto, il basso Lablache 100” (Lettera a Lamberti del 16 maggio 1848).
Pure dopo gli eventi della Repubblica Romana, nel 1850, quando Mazzini ritornò a Londra, poté contare sulla coppia Mario-Grisi, sia per i concerti a favore della Scuola, sia per l’ospitalità nel loro palco al Covent Garden. Ebbe così la possibilità di seguire due opere che gli erano care, Lucrezia Borgia, “una delle mie opere predilette” e Il Profeta di Meyerbeer, una rappresentazione nuova che egli definì “magnifica”, come si apprende dalle missive spedite alla madre rispettivamente il 10 maggio e il 1° luglio 1951. Stefano Ragni nello studio citato, cercando di fare un bilancio dei rapporti intercorsi tra Mazzini e la Grisi, conclude che “gli è sorto il sospetto che il genovese si fosse più volte accostato alla cantante per gli indubbi vantaggi economici che potevano venire alla sua causa” e l’ipotesi sembra fondata.
Veramente interessante appare pure il rapporto intercorso con il soprano Giuditta Pasta (Saronno 1797- Blevio 1865), che, per aver offerto la propria casa milanese al Comitato di assistenza del Governo Provvisorio, si era attirata le antipatie delle gerarchie asburgiche; costretta all’esilio, dovette infatti riparare a Lugano, dove le si radunarono attorno altri artisti, più o meno coinvolti nel fervore patriottico. Nel settembre 1848, allo scopo di raccogliere fondi per i profughi, la Pasta si prestò a cantare in un’Accademia presso il Teatro della Baldoria di Lugano.
“Fra gli spettatori si riconosce, seduto in ultima fila, un singolare appassionato d’opera al di là delle virtù patriottiche che l’hanno spinto ad assistere al bel concerto del giorno 5: è Giuseppe Mazzini. Anch’egli esule, si farà promotore di una sentita lettera di ringraziamento all’artista scrivendo: - Il Comitato di Mutuo Soccorso sente il dovere di attestarle la sua gratitudine per la gentile prestazione all’Accademia di beneficenza datasi in questo teatro a pro degli esuli poveri. La di lei opera, nel mentre fa più segnalato l’alto patriottismo di cui è animata, offrì al pubblico una nuova occasione d’apprezzare l’esimio merito che la distingue. Interprete il Comitato del voto dei fratelli beneficiati, le rinnova i sensi della sua riconoscenza -” (G. Appolonia, Duecento anni di opera a Lugano”, Locarno 1996, p. 35-36 e “Giuditta Pasta, gloria del bel canto”, Torino 2000).
Qualcuno insinuò allora che la voce della Pasta non fosse più intatta, ma che avesse saputo trasmettere ancora una volta il messaggio di quel “dolce italo cantar che nell’anima si sente”, teso a promuovere aneliti di rivolta oltre che di nostalgia.
Roberta Paganelli