Tati | |
Compositore | Kyle Brenn |
Librettista | Lex Brown |
Maysoon | Viviana Goodwin |
Connie | Anneliese Klenetsky |
Osvaldo | Sergio Martínez |
Cry, wolf | |
Compositrice | JL Marlor |
Librettista | Clare Fuyuko Bierman |
Austin | Jonathan Patton |
Zach | Nicholas Huff |
Ethan | Sahel Salam |
Mud Girl | |
Compositore | Omar Najmi |
Librettista | Christine Evans |
Maude | Winona Martin |
River | Kresley Figueroa |
Poly 1 | Tiffany Choe |
Poly 2 | Michelle Mariposa |
Direttore | George Manahan |
Regia | Chloe Treat |
Luci | A.J. Guban |
Mentore per il librettisti | Tracy K. Smith |
Mentore per i compositori | Gregory Spears |
Washington National Opera Orchestra |
Alla fine dell’Ottocento, i concorsi operistici ebbero un ruolo importante nello sviluppo delle opere del verismo italiano. Primi tra tutti quelli banditi da Sonzogno che hanno dato la possibilità a una nuova generazione di compositori di affrontare il genere. Quando poi Gatti Casazza diventò manager del Met agli inizi del Novecento, egli ne bandì di simili nella speranza di scoprire l’opera americana del futuro. Nel solco di questa tradizione, ogni anno, alla Washington National Opera si svolge l’American Opera Initiative, che bandisce un concorso per giovani compositori e librettisti. A differenza di quelli banditi da Sonzogno, però, qui si selezionano tre coppie di compositori/librettisti senza un progetto predefinito. Nel corso di un anno e con l’aiuto di alcuni mentori, ogni team creativo si mette al lavoro per la creazione di un’opera di non più di 20 minuti. In seguito a gennaio si rappresentano le nuove opere in forma scenica (seppur minimalista) al Terrace Theater del Kennedy Center di Washington. Quest’anno, inoltre, le opere verranno rappresentate in replica anche a New York, al Kaufman Music Center (a due passi dal Met).
Come ogni anno, anche in questa occasione gli interpreti erano i membri del Cafritz Young Artists Program, il programma per i giovani cantanti del teatro. L’orchestra, in forma molto ridotta, era invece quella stabile del Washington National Opera, con la direzione dell’esperto George Manahan, mentre la regia era affidata a Chloe Treat. Quest’ultima in particolare ha fatto egregiamente il suo lavoro, nonostante l’esiguità dei mezzi messi a sua disposizione: l’orchestra infatti occupava il fondo del palcoscenico, mentre l’azione era limitata quasi tutta alla zona centrale e sul proscenio, con minimi elementi scenografici.
Tra le proposte di quest’anno, due erano più sperimentali, entrambe ambientate in un futuro distopico piano di stranezze, come se, data carta bianca agli artisti, essi avessero fatto a gara per creare le opere più bizzarre e paradossali che potessero concepire. La terza invece era più radicata nel contemporaneo e raccontava il disagio giovanile maschile. In generale, rispetto all’anno scorso, sembra che in tutte e tre le opere l’aspetto giovanile (e giovanilistico) abbia dominato, raccontando le paure e i problemi della nuova generazione.
La prima opera, Tati, è firmata dal compositore Kyle Brenn e dalla librettista Lex Brown. L’opera avrebbe bisogno di un antefatto spiegato al pubblico, come in un libretto settecentesco: l’azione si svolge nel ventiduesimo secolo, nel ventre di una balena bioingegnerizzata, costruita da una scienziata, Connie, per ottenere l’elisir di eterna giovinezza. Dentro questa balena, insieme a Connie, ci sono un attivista in fuga dalla prigione, Osvaldo, e Maysoon, incinta di Osvaldo e prossima al parto. Dopo due anni di permanenza nel cetaceo, a causa dei due occupanti che si nutrono raschiando la sua carne, il cuore dello stesso dà segni di aritmia, rendendo la situazione ancor meno piacevole. Osvaldo vorrebbe uscire perché ha visto una nave attraverso un periscopio, ma viene trattenuto dalle due donne in varie discussioni, finché la balena decide di immergersi in profondità. In tutta questa pazzia, spiccava Viviana Goodwin come Maysoon, la cui voce vellutata, gli acuti morbidi e la buona espressività, la proiettano già in ruoli mozartiani più complessi. Insieme a lei, Sergio Martínez come Osvaldo era già maturo e sicuro in scena, mentre Anneliese Klenetsky, come Connie, ha dato prova di una voce squillante e dalle belle risonanze armoniche. Quest’operina, in definitiva, nel tentativo di essere originale ad ogni costo, forse si è dimenticata di raccontare qualcosa di sostanziale.
La seconda opera, Cry, wolf, era quella più classicamente concepita. Permeata dal racconto della mascolinità tossica e dai cosiddetti incel (cioè comunità online di giovani uomini “celibi involontari”), l’opera è scritta dalla librettista Clare Fuyuko Bierman e dalla compositrice JL Marlor. La trama è lineare: uno studente universitario fuori sede, Austin, viene convinto da un amico, Zach che solo un buon aspetto fisico dato dal DNA si può attrarre una ragazza. Il povero studente, non disponendo del giusto corredo genetico, sarà costretto al celibato. L’unica soluzione è diventare un lupo (a questo punto entrambi ululano). Ma in quei giorni il fratello minore di Austin, Ethan, viene in visita. Ethan cerca di mettere un po’ di buonsenso nel fratello e gli dice che per conquistare le ragazze basta uscire, andare a trovarle ed essere gentili e cortesi. Questo però non basta: Austin e Zach rimangono della propria opinione e convincono Ethan a unirsi agli ululati. Tutti e tre gli interpreti in scena mi sono sembrati maturi e pronti per affrontare parti più serie. Il protagonista in preda all’insicurezza maschile era il capace Jonathan Patton. Il cattivo maestro Zach era invece interpretato da Nicholas Huff, già in piena maturità interpretativa, mentre il fratello minore era Sahel Salam che è sempre più simpatico e vivace ogni volta che lo si vede in scena. Il libretto di questo lavoro, non particolarmente operistico, sembra più adatto a una scena teatrale, dato che tutto si svolge con un battibecco tra i personaggi e in definitiva in scena non succede nulla di significativo. Per la parte musicale, nonostante tutto, la compositrice ha dimostrato una evidente padronanza della drammaturgia musicale, che potrebbe svilupparsi ulteriormente in futuro.
La terza opera, Mud Girl, è stata scritta dal team più affermato dei tre e dal quale ci si dovrebbe aspettare di più. Il compositore, Omar Najmi, ha già fatto delle residenze al Lyric Opera di Chicago e ha già scritto un’opera per una piccola compagnia. La librettista, Christine Evans, ha invece una carriera pluridecennale nella scrittura teatrale, di romanzi, di saggi, e pure del libretto di un’opera rappresentata a Sydney. Il risultato della collaborazione ha creato l’opera più complessa sia drammaticamente che musicalmente. Rispetto alle altre due opere, qui il compositore ha usato con complessità gli impasti sonori dell’orchestra, mantenendo la tensione musicale per l’intera opera, mentre la librettista è riuscita a creare i momenti più emozionanti della serata. Nonostante questo, sembra che il duo creativo si sia preoccupato principalmente di creare novità e sperimentazioni, piuttosto che emozionare il pubblico. Il risultato raggiunge quello che, in una parola, si potrebbe definire una "strambata". Come il primo titolo, l’opera è ambientata in un futuro distopico, dove la plastica ha inquinato qualsiasi cosa. Una signora matura, Maude, vive ai margini di un fiume, impaurita dagli inquinanti di un tempo passato. Ad accompagnarla è una ragazza, River, che aveva salvato una neonata dai rifiuti del fiume. River non condivide la paura per la plastica della sua protettrice, tanto che dà forma a una creatura di fango e di detriti, Poly. Quest’ultima è una specie di automa interpretato da due cantanti che si muovono insieme, come gemelle siamesi. Fatto sta che a Maude questa Poly non piace, perché è fatta di detriti tossici, per cui la sottopone a un test: se Poly sarà capace di lavare i piatti al fiume, River potrà tenerla. Ma l’automa si scioglie a contatto con l’acqua e River rimane senza la sua creatura. Nel finale si capisce che Poly è ancora viva. A interpretare Maude era Winona Martin, dal bel timbro di voce brunito e dagli acuti grandi e convincenti, mentre River era Kresley Figueroa, che ha una voce argentina, con un bel legato e a suo agio nei salti di registro. Infine, le brave Tiffany Choe e Michelle Mariposa interpretavano ciascuna metà dell’automa, nelle parti di Poly 1 e Poly 2.
Nel piccolo Terrace Theater, tutte le opere sono state molto applaudite dal pubblico numeroso, accorso ad osannare gli autori e gli interpreti. L’American Opera Initiative ha quindi portato a termine anche quest’anno il suo compito dando la possibilità a nuovi artisti di potersi esprimere liberamente. Chissà se tra tutta questa innovazione e bizzarria si troverà il futuro dell’opera americana. Il risultato, per ora, sembra lontano dal gusto del pubblico americano che frequenta il teatro musicale.
La recensione si riferisce alla prima del 18 gennaio 2025.
Francesco Zanibellato