Scipione | Giuseppe Valentino Buzza |
Costanza | Francesca Boncompagni |
Fortuna | Bernanda Bobro |
Publio | Emanuele D'Aguanno |
Emilio | Luca Cervoni |
Licenza | Rui Hoshina |
Direttore | Federico Maria Sardelli |
Regia | Elena Barbalich (Tutor) |
Scene e costumi | Scuola di scenografia e costume dell'Accademia di Belle Arti di Venezia |
Scene | Francesco Cocco |
Costumi | Davide Tonolli |
Maestro del coro | Claudio Marino Moretti |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Basso continuo | Luca De Marchi, maestro al cembalo Alessandro Zanardi, violoncello |
Il rilevante successo milanese di Mitridate re di Ponto nella serata d’apertura del Carnevale 1770-71 non fruttò al quindicenne Wolfgang solo le commissioni per la “serenata drammatica” (ed epitalamica) Ascanio in Alba e per l’opera Lucio Silla, destinate ancora al capoluogo lombardo, e per il grande oratorio La Betulia liberata, destinato a Padova; ma anche l’incarico principale per le celebrazioni in onore del principe-vescovo di Salisburgo, Sigismund von Schrattenbach, generoso protettore dei Mozart. I festeggiamenti previsti, secondo l’opinione più comune, per l’inizio del cinquantesimo anno di sacerdozio del prelato, sarebbero dovuti culminare il 10 gennaio 1772 con l’esecuzione della serenata drammatica (ed encomiastica) Il Sogno di Scipione, a cui Mozart aveva forse già lavorato prima di ripartire di nuovo per Milano nell’agosto precedente. Ma il buon mecenate morì anzitempo, e di feste a Salisburgo si riparlò solo qualche mese dopo, a cavallo tra aprile e maggio, per l’intronazione del nuovo principe-vescovo, quel Hieronymus von Colloredo che avrà con Wolfgang rapporti via via più difficili, sino al famoso congedo brusqué del 1781. Il manoscritto rivela l’aggiornamento del nome del festeggiato, ma permangono dubbi sulla data esatta di composizione del Sogno. La carta dell’autografo sarebbe tipica della primavera-estate 1771, ma la data apposta da Mozart sulla copertina della rilegatura è “1772”. E non si sa neppure se allora il lavoro sia stato eseguito tutto, o solo in parte, poiché l’unica fonte che ne tramanda notizia, il diario del consigliere di corte Joachim von Schiedenhofen, è avara di dettagli. L’arietta encomiastica di Licenza, “Ah perché cercar degg’io”, fu riscritta in un secondo tempo, e i fogli della nuova stesura legati insieme a tutto il resto. Per farla breve, di esecuzioni complete dell’opera si ha certezza solo a partire da fine gennaio 1979, quando essa fu riesumata alla Mozartwoche salisburghese.
Il cambio del nome del festeggiato non era comunque il primo subito dal libretto, uscito dalla penna di Metastasio ormai più di trentacinque anni avanti, in onore e consolazione dell’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa; né sarà l’ultimo, perché nella tornata veneziana di cui parliamo, al nome dell’uno e dell’altro principe è stato spiritosamente sostituito quello del sovrintendente e direttore artistico della Fenice (“Ma Scipio esalta il labbro, e di Fortunato il core”). Sembra che l’idea di celebrare il maggior valore della Costanza nelle avversità rispetto all’ingannevole mutevolezza della Fortuna fosse stata suggerita dalla consorte stessa dell’imperatore, che di recente aveva perso l’intero Mezzogiorno d’Italia, faticosamente “ereditato” solo vent’anni prima dai suoi cugini spagnoli. Come la maggior parte dei lavori del “poeta cesàreo”, il Sogno era già stato musicato molte volte, anche se una sola da un compositore di grande rilievo, Johann Adolf Hasse. Forse Wolfgang ne aveva conosciuto il testo leggendo i lussuosi volumi di Metastasio donatigli dal conte Firmian, governatore di Milano, durante il suo primo viaggio in Italia, ma è probabile che la scelta di esso per gli scopi celebrativi che abbiamo detto non sia stata sua, ma della corte salisburghese. L’autore dei versi sottotitola il Sogno “azione teatrale in un atto”: questo non implica né esclude una realizzazione scenica dell’opera, anche se la completa assenza d’intreccio narrativo e il carattere sentenzioso del testo sembrano destinarlo elettivamente a un’esecuzione oratoriale.
Per questo raro lavoro mozartiano e per il più frequentato Re pastore, la Fondazione Teatro La Fenice ha chiamato uno dei massimi studiosi e interpreti vivaldiani dei nostri giorni. Il maestro livornese Federico Maria Sardelli ha diretto entrambi gli spettacoli: il primo, di cui riferiamo, al Teatro Malibran; il secondo, pochi giorni dopo, nella sala maggiore di Campo San Fantin. E senza dubbio meritava un interprete di questo spicco la ricchezza strumentale della partitura del Sogno di Scipione, adeguata all’occasione celebrativa: insieme ad archi, timpani e continuo intervengono flauti, oboi, fagotti, corni e trombe (seppure non mai tutti insieme). Coadiuvato dall’Orchestra del Teatro La Fenice, molto attenta e flessibile, Sardelli ha ricreato in modo convincente e serrato la drammaturgia musicale del lavoro, che sfrutta la cosiddetta “teoria degli affetti”. A questo risultato hanno giovato sia l’abile snellimento dei recitativi secchi, sia la felice realizzazione di essi, a cui, insieme ai cantanti, hanno dato nerbo, continuità e colore il “maestro al cembalo” Luca De Marchi e il violoncellista Alessandro Zanardi. I tempi di Sardelli possono talvolta apparire stretti (come nell’Allegro moderato dell’ouverture), ma sono sempre in un rapporto organico e funzionale tra loro. I novanta minuti dello spettacolo scorrono rapidamente anche grazie (va sottolineato) alla limpida ed efficace struttura drammatica implicita nella sequenza di arie architettata da Metastasio, quasi anticipando, con sottili dislocazioni barocche, quella “forma ad arco” che avrà tanto successo nel Novecento.
Dopo l’ouverture bipartita, la cui sezione conclusiva, più lenta, si collega direttamente al primo recitativo secco, la partitura del Sogno comprende dodici “numeri” e un recitativo accompagnato. I cinque personaggi hanno due arie ciascuno, tranne Emilio, padre naturale dell’eroe eponimo, che ne ha una sola, ma nella posizione centrale dell’arco. S’aggiungono due cori, uno più articolato che porta la vicenda dalla terra ai cieli; l’altro, piuttosto breve e anonimo, che conclude l’opera dopo l’ultima arietta, affidata alla “persona retorica” di Licenza. Impeccabile la prestazione del Coro del Teatro la Fenice preparato e diretto come sempre da Claudio Marino Moretti.
Sardelli ha optato per la prima versione dell’arietta di Licenza, assai più semplice di quella che Mozart compose in séguito. Anche se la scelta è inobiettabile, essa ci ha lasciato una punta di rammarico perché la voce timbricamente gradevole e molto ben condotta del soprano giapponese Rui Hoshina, recente protagonista, con Sardelli, nientemeno che di un’Alcina händeliana, avrebbe a nostro parere meritato un’occasione più consistente di rifulgere. Le altre arie sono tutte di rilevante estensione (fino a duecentosette battute), quasi sempre arricchite da un’importante prologo e da un epilogo orchestrale; specie la seconda parte di esse è spesso arricchita, notano Wyzewa e de Saint Foix, di “ingénieuses trouvailles dans l’accompagnement”; la struttura delle riprese non è né convenzionale, né ripetitiva. In questo s’è voluto vedere un adeguamento di Mozart, appena rientrato dall’Italia, alla predilezione salisburghese per le arie piuttosto elaborate, che egli stesso porrà polemicamente in contrasto, scrivendo sette anni dopo da Parigi, con il gusto francese più sbrigativo e facile.
All’interprete di Scipione, il tenore catanese Giuseppe Valentino Buzza, è spettato l’onere e l’onore d’aprire e chiudere (salvo la Licenza e il coro finale) la sontuosa parata di pezzi che costituiscono la partitura. Diciamo sùbito che la parte dell’epònimo è piuttosto impegnativa per agilità e cadenze, ma anche per varietà d’espressione. Mozart, del resto, non risparmia serie difficoltà a nessuno dei cantanti. Buzza ci è sembrato privilegiare l’aspetto “eroico” del personaggio, con bella sicurezza d’emissione e d’intonazione. Come pratica comune oggi, anche il registro acuto è “di petto”, e questo può piacere o meno in musiche concepite per un’esecuzione diversa. Noi condividiamo l’opinione famosa di Rossini, ma sappiamo bene che esistono molte obiezioni pratiche al tentativo di ripristinare un altro modo di cantare, in cui il cambio d’emissione s’unisca all’innalzarsi del registro.
La confidente ma tetragona Costanza e la capricciosa Fortuna hanno avuto rispettivamente le voci di Francesca Boncompagni e di Bernarda Bobro, una veterana della partitura, sin da quando cantò Licenza nell’esecuzione scenica salisburghese del 2006. Il pomeriggio di domenica 10 febbraio, la sua aria di sortita, “Lieve sono al par del vento”, è stata accolta dal primo applauso del pubblico veneziano. Lo stesso onore toccherà a Buzza e alla Boncompagni dopo i loro secondi pezzi, rispettivamente “Di’ che sei l’arbitra” e “Biancheggia in mar lo scoglio”, splendida “aria di paragone” in significativo contrasto con la precedente “Ciglio che al sol si gira”, musicata da Mozart in carattere nobilmente lirico e meditativo.
Tutti concentrati a metà della partitura i tre interventi dei due antenati di Scipione: Publio, vincitore di Annibale e padre del suo padre adottivo (quello solitamente detto “Scipione l’Africano”) ed Emilio, il padre naturale, da cui il patronimico di Emiliano che distingue il nostro Scipione, distruttore di Cartagine sulle cui rovine farà spargere il sale (detto anche “Africano minore”). Le due arie del primo sono state cantate da Emanuele D’Aguanno; l’unica, ma bellissima aria del secondo da Luca Cervoni. La loro interpretazione quasi onirica dei rispettivi personaggi, morti da un pezzo, sottratti ormai al dissidio delle cure mortali in “lucide eterne sedi” e incontrati in sogno da Scipione al bivio di decisive scelte esistenziali, ha costituito un opportuno contraltare al piglio eroico di quest’ultimo. Certe mezze voci di Cervoni hanno particolarmente soddisfatto il nostro gusto. Alla fine, un incontrastato successo ha festeggiato tutti e sei i cantanti, il maestro del coro e il direttore Sardelli, con ovvie punte di maggiore intensità per quest’ultimo, Buzza e le due signore Boncompagni e Bobro.
L’esecuzione ha avuto, come abbiamo detto, forma scenica. Il coinvolgimento della Scuola di scenografia e costume dell’Accademia di Belle Arti di Venezia in alcuni spettacoli “barocchi” al Malibran, è ormai una felice tradizione che si ripete ogni anno (e quindi spiega bene l’ennesima modifica del destinatario dell’encomio...). Due studenti, Daniele Cocco e Davide Tonolli, hanno vinto il concorso rispettivamente per le scene e i costumi: funzionali e capaci di creare sensazioni d’evanescenza le prime; abilmente differenziati i secondi, che hanno realizzato con eleganza il contrasto tra personaggi umani e figure mitologiche, fino all’assunzione finale di grigi panni quotidiani che disvelano la finzione narrativa. Allo spettacolo hanno preso parte, come comparse, anche un gruppo d’allievi dell’Accademia.
La definizione della moderna drammaturgia “visuale” d’un testo la cui drammaturgia originaria era destinata a risolversi completamente in musica, è stata coordinata da Elena Barbalich, che la spiega nel programma di sala identificando “il senso generale dello spettacolo” nel conciso statement: “l’uomo cambia, è intercambiabile, ma del potere abbiamo sempre bisogno”. Quel che come spettatore abbiamo più apprezzato è stato l’ottimo lavoro sulla gestualità di cantanti, coro e comparse. Ci ha inoltre còlto qualche ricordo di stilizzazioni alla Bob Wilson (Scipione che sguscia sotto una scrivania, come Barbablù sotto il tavolo di Judit un quarto di secolo fa a Salisburgo) e "tragicizzazioni" alla Calixto Bieito (il vecchio imperator che s’aggira, nella sua prima entrata, con un’urna di ceneri, come Altoum a Norimberga pochi anni fa); ma non intendiamo sostenere che queste impressioni personali siano legate a intenzioni registiche. Esplicitamente dichiarata è invece la citazione del Grande dittatore durante un’aria di Publio, crediamo la seconda.
Non abbiamo assistito alla “prima”, quindi non possiamo dire nulla sulle accoglienze del pubblico al team di regia, che però supponiamo essere state molto lusinghiere
La recensione si riferisce allo spettacolo del 10 febbraio 2019.
Vittorio Mascherpa