Otello | Francesco Meli |
Jago | Luca Micheletti |
Cassio | Francesco Marsiglia |
Roderigo | Enrico Casari |
Lodovico | Francesco Milanese |
Montano | William Corrò |
Un araldo | Antonio Casagrande |
Desdemona | Karah Son |
Emilia | Anna Malavasi |
Direttore | Myung-Whun Chung |
Regia | Fabio Ceresa |
Scene | Massimo Checchetto |
Costumi | Claudia Pernigotti |
Light designer | Fabio Barettin |
Video designer | Sergio Metalli |
Movimenti coreografici | Mattia Agatiello |
Maestro del coro | Alfonso Caiani |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Piccoli Cantori Veneziani | |
Maestro del coro voci bianche | Diana D’Alessio ed Elena Rossi |
È stata un’inaugurazione di stagione tribolata quella del Teatro La Fenice, con la prima recita di Otello cancellata per lo sciopero indetto dai lavoratori a causa di divergenze con la dirigenza che purtroppo sembrano lontane dal trovare una via d’incontro, e il debutto di Francesco Meli nella parte rimandato di una manciata di giorni.
Quello di Meli, che ha l’intelligenza di cantare la parte con la propria voce, è chiaramente un Otello di ascendenza lirica, quindi non si accoda né alla tradizione dei tenori drammatici di pasta scura, né a quella delle trombe d’argento con un registro acuto sfavillante, ma risulta più a suo agio nei passaggi cantabili e centrali, in cui si chiede all’interprete di pennellare la frase, piuttosto che negli sfoghi in alto, che riescono cauti se non - come nel caso del do della “cortigiana” - difficoltosi.
Dunque sì, manca un po’ di “punta” nell’"Esultate" o nell’"Ora e per sempre addio", ma d’altro canto sono assai felici i momenti più introspettivi come “Dio, mi potevi scagliar” e il finale, ben cesellati nella dinamica e nel legato. Se la prova della resistenza vocale in una parte così pesante può dirsi superata con successo, si apprezza altresì la cifra personale nella caratterizzazione del personaggio nel suo lato più umano che guerriero, con l’ineluttabile condanna a un doloroso precipizio verso l’abisso.
Chi convince senza riserva alcuna è Luca Micheletti, che fa uno Jago splendidamente cantato, forte di un'omogeneità di emissione e di timbro che non si incrina neanche negli scomodissimi passaggi in acuto della scrittura, in cui molti baritoni finiscono per impiccarsi, e di un controllo del fiato da manuale che gli consente di filare in mezzavoce il mi “dolcissimo” del “Sogno”. La prova vocale maiuscola è tuttavia solo un aspetto di una presa di personaggio totale, in ogni inflessione e gesto e nel dominio della parola scenica.
La Desdemona di Karah Son è un mezzo mistero. La voce ha timbro peculiare e uno strano vibrato stretto cui ci si abitua a fatica, e tende a espandersi con grande volume solo in alcune note dell'ottava alta, che poi sono quelle su cui battono gli sfoghi drammatici della parte. Ciò premesso, è innegabile che il soprano sappia il fatto suo, come dimostrano un “Salce” e un’Ave Maria finemente cesellati nella dinamica, fin nei pianissimi ad alta quota, che si giovano dello splendido accompagnamento ordito da Myung-Whun Chung, il quale riaffronta l’opera a Venezia per la quarta volta negli ultimi undici anni.
Rispetto ai precedenti, tuttavia, il direttore in quest'occasione dà la sensazione di unire all’esuberanza bruciante dei passi più concitati, come l’uragano, il finale secondo o il concertato che chiude il terzo atto, dipanati con un virtuosismo tesissimo, una più intima ampiezza di respiro nei tempi lenti.
È proprio grazie alla sensibilità nello sbalzare i contrasti e alla capacità di rendere il dato descrittivo della musica che Chung riesce a dettare in prima persona lo sviluppo drammaturgico e psicologico dei personaggi, e quindi la regia stessa, intesa come ritmo teatrale della narrazione. Come si osserva ormai da molti anni, con il maestro coreano sul podio l’Orchestra della Fenice si esprime al massimo delle proprie potenzialità, sia per brillantezza d’amalgama, sia per duttilità in termini di dinamiche e di palette timbrica.
Per quanto riguarda la regia vera e propria invece, che porta la firma di Fabio Ceresa, il lato più interessante è proprio l'esplorazione dell'evoluzione caratteri maschili principali, soprattutto di quello di Otello - un Otello "bianco", scelta a quanto pare molto divisiva -, con il suo progressivo vacillare in balia dei tranelli di Jago e l’adombrarsi della sua lucidità fino a perdere il senno.
Per il resto lo spettacolo si inserisce nello scaffale della tradizione. La vicenda è esposta in modo chiaro e lineare, senza particolari guizzi, al netto di un gruppetto di danzatori che danno forma, in modo piuttosto didascalico, ai tarli demoniaci che vanno annidandosi nella mente del protagonista, a sua volta mimato da una sorta di doppio con le sembianze del Leon di Venezia. I rimandi alla città sono presenti anche nella scenografia di Massimo Checchetto, che si ispira alle decorazioni della Basilica di San Marco, evocata dal pannello fisso a tre archi che divide il palco in due porzioni, una anteriore e una posteriore rialzata, dai figuranti che ne citano l'iconografia e dai costumi di Claudia Pernigotti.
Tuttavia, per appagare l'occhio, un impianto così ambizioso avrebbe richiesto una realizzazione più dettagliata e doviziosa, soprattutto per quanto riguarda le videoproiezioni che scorrono sullo sfondo richiamando ora il cielo stellato, ora gli stessi mosaici bizantini.
Tornando al cast, sono alterne le parti di fianco. Francesco Marsiglia è un Cassio corretto ma ingessato, Enrico Casari un Roderigo più che convincente. Positive le prove di Anna Malavasi, Emilia, Francesco Milanese, Lodovico, e di William Corrò, Montano. È affidabile Antonio Casagrande negli interventi dell’araldo.
Serata decisamente da ricordare per compattezza e precisione per il Coro della Fenice di Alfonso Caiani così come è lodevole il contributo dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi.
Successo pieno per tutto il cast e protagonista giustamente festeggiato al suo debutto nella parte anche dal pubblico.
La recensione si riferisce alla recita di sabato 23 novembre 2024.
Paolo Locatelli