La fabbrica illuminata per voce femminile e nastro magnetico musica di Luigi Nono |
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Soprano | Sarah Maria Sun |
Regia del suono | Alvise Vidolin |
Video designer | Studio Vertov di Luca Scarzella (Milano) |
Foto | Lisetta Carmi @ Martini & Ronchetti, courtesy archivio Lisetta CArmi |
Erwartung monodramma in un atto e quattro scene, op. 17 musica di Arnold Schönberg |
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La donna | Heidi Melton |
Concertatore e direttore | Jérémie Rhorer |
Orchestra del Teatro La Fenice | |
Regia | Daniele Abbado |
Scene e light designer | Angelo Linzalata |
Costumi | Giada Masi |
Movimenti coreografici | Riccardo Micheletti |
Lo spettacolo che, molto opportunamente, il Teatro La Fenice di Venezia ha dedicato a Luigi Nono e Arnold Schönberg rispettivamente nel centenario e nel centocinquantenario della loro nascita, ha unito e portato a un vibrante successo di pubblico due titoli tra i piú noti e frequentati dei rispettivi autori.
La fabbrica illuminata è l’unico pannello compiuto di una progettata azione scenica in sei parti, Diario italiano, che Luigi Nono e il “librettista” Giuliano Scabia intendevano dedicare a situazioni tipiche del nostro Paese all’inizio degli anni Sessanta: come l’alluvione del Polesine nel 1951 era stata, pochi anni prima, uno dei “referenti” per Intolleranza 1960, cuore del nuovo spettacolo sarebbe stata l’immane tragedia del Vajont (9 ottobre 1963), quando il crollo non imprevisto d’una parte della montagna soprastante provocò la tracimazione d’un bacino idroelettrico e la distruzione d’alcuni centri abitati, con un totale di quasi duemila vittime. Fu presto chiaro che il polittico non avrebbe trovato un teatro italiano disposto a rappresentarlo e il progetto si ridusse a una sorta di “cantata scenica” per voce femminile e nastro magnetico a quattro piste, con la quale il musicista veneziano, politicamente molto impegnato ed esposto, intese denunziare la condizione operaia nell’acciaieria di stato Italsider di Cornigliano, alla periferia occidentale di Genova.
Committente della Fabbrica illuminata fu la RAI; ma prima dell’esecuzione, prevista a Genova per il Premio Italia 1964, furono richiesti “addolcimenti” al testo che gli autori non accettarono; quindi il pezzo fu ascoltato per la prima volta proprio a Venezia nell’ambito della Biennale musica di quell’anno, in un concerto diretto il 15 settembre da Bruno Maderna, che lo fece precedere da composizioni per strumento solista di Andrej Volkonskij (Musica stricta, per pianoforte) e Luciano Berio (Sequenza II, per arpa), per concludere con il Pierrot lunaire.
Il materiale sonoro preregistrato e diffuso in questi giorni, come già nel 1964, nella sala della Fenice da quattro radiatori consiste in rielaborazioni realizzate con tecniche “elettroacustiche”, come si diceva a quei tempi, dallo studio di Fonologia musicale della RAI di Milano, fondato nel 1955 da Maderna e Berio con il tecnico Marino Zuccheri, futuro “mito” del settore: rielaborazioni di rumori d’impianto e richiami d’operai registrati nella fabbrica di Cornigliano, di frasi musicali cantate dal Coro Rai di Milano, allora diretto da Giulio Bertola, e d’altre frasi “improvvisate su canovaccio” dal mezzosoprano Carla Henius, già coprotagonista della prima esecuzione di Intolleranaza 1960 e imminente prima interprete della Fabbrica illuminata. Non si tratta, quindi, di rielaborazioni elettroniche di suoni prodotti al momento “dal vivo” –la tecnica detta live electronics sarà adottata da Luigi Nono solo a partire dal 1979– ma di “oggetti sonori” definiti e fissati dal compositore, anche se la loro “manutenzione” nel tempo richiese e richiede interventi successivi. La loro diffusione nello spazio dell’ascolto comporta all’atto dell’esecuzione una “regia del suono”, affidata in quest’occasione ad Alvise Vidolin, tecnico insigne e figura storica della musica cosiddetta “elettronica” di cui è stato anche docente al Conservatorio veneziano per ben trentaquattro anni, dal 1975 al 2009. Magistrali il controllo dinamico e l'equilibrio realizzato con la voce solista.
La voce dal vivo, in questo caso quella del soprano tedesco Sarah Maria Sun, una specialista del genere, dall’intonazione sicurissima e capace di dosare perfettamente l’intensità dell’invettiva, ha il compito di cantare non molte parole, dialogando con il sostrato offerto dalle quattro piste magnetiche nelle prime parti del lavoro, dichiaratamente di “denuncia” (quindici minuti e venti secondi, con una sezione affidata al solo nastro magnetico). Segue un “finale” di circa due minuti, in cui la “voce femminile” intona senz’accompagnamento alcuno quattro versi (non consecutivi) d’una poesia d’amore, Le piante del lago, scritta nel giugno 1946 ma lasciata inedita da Cesare Pavese. Dell’insieme di questa poesia diremmo che è in ambiguo equilibrio tra speranza e rassegnazione, anche se i versi scelti da Nono sembrano lasciare uno spiraglio all’ottimismo del cambiamento, peraltro scosso, a nostro parere, da una linea di canto dolente al punto d’averci richiamato alla memoria l’assolo di Katja, la partigiana russa prigioniera in Auschwitz nella Passeggera di Mieczysław Weinberg (non dubitiamo che l’accostamento, del tutto personale e immediato possa fare inorridire, se mai ci leggano, musicologi veri o sedicenti).
Se non andiamo errati, prima della Fabbrica illuminata nessuna composizione di Luigi Nono aveva ancora unito suoni preregistrati a suoni “dal vivo”; essa apre quindi una stagione compositiva, che, nel quindicennio successivo, produrrà molte delle sue opere piú note, per cosí dire emblematiche e stimolantissime per gli esecutori. L’occasione veneziana di cui scriviamo le ha restituito la componente visiva per opera di Daniele Abbado. I costumi, firmati da Giada Masi, contrapponevano l’abito da sera della cantante solista all’abbigliamento “concentrazionario” dei figuranti, mossi con sobria efficacia da Riccardo Micheletti. Il décor scenico ha potuto utilizzare come sfondo materiali fotografici molto significativi realizzati nel periodo della composizione da Lisetta Carmi all’interno dello stabilimento genovese e dal cielo sopra di essa, ora rielaborati dallo Studio Vertov di Milano. Il proscenio è stato organizzato con grande coerenza da Angelo Linzalata, al quale si deve anche l’illuminazione cupa, ricreatrice dell’atmosfera polverosa e malsana riferibile all’ambiente dell’acciaieria e dei suoi immediati dintorni arrossati dall’inquinamento atmosferico (impressionante, per chi scrive, era vedere in quegli anni da Camogli, una ventina di chilometri in linea d’aria a levante, le colonne di polvere che s’alzavano dall’Italsider durante l’inversione dei “cowper”, i ricuperatori di calore al servizio degli altiforni: ma allora ci s’illudeva che un vicino giorno si sarebbero potuti munita tenere edita doctrina sapientum templa serena).
Un applauso compatto e prolungato del pubblico che riuniva, dopo lo sciopero interno che aveva cancellato la recita di venerdí 13, quello delle “prime” e quello della domenica pomeriggio, ha accolto l’esecuzione del severo pezzo, capace ancora, sessant’anni esatti dopo la sua prima esecuzione pubblica, di stimolare la fantasia di non pochi ascoltatori e coinvolgerli emotivamente. Anche se può apparire facile, per non dire comodo, considerare “molto datata” una composizione come questa, non andrebbe dimenticato che la frequenza dei casi di mortalità sul lavoro in Italia s’è ridotta, in piú di mezzo secolo, solo a circa il 25-30% della sconvolgente decina al giorno di metà anni Sessanta, nonostante la massiccia delocalizzazione in Paesi remoti di molte lavorazioni pericolose o nocive e le spese per la sicurezza (le cose andrebbero forse meglio se queste fossero viste come investimenti produttivi anziché come costi impropri). In teatro, quel che conta è comunque mostrare e coinvolgere: diremmo che la combinazione di testo ed esecuzione vi sia riuscita anche con questo titolo, in cui il messaggio umano, infatti, non prevarica mai i valori formali.
Per la commemorazione di Arnold Schönberg come autore drammatico è stato scelto il suo primo opus teatrale compiuto, divenuto molto celebre per i piú svariati motivi: perché è, appunto, il primo; perché è stato letto come manifesto del "teatro musicale espressionista"; perché l’autore vi dimostra una straordinaria capacità d’orchestratore e una tecnica compositiva nuova, perlomeno per la tradizione austro-tedesca; perché rappresenta una tale sfida esecutiva per soprano, direttore e orchestra che il successo, ove si riesca a fare appena benino, è grande per tutti gl’interpreti. Celebre è diventato anche perché alla sua musica s’è potuta affibbiare l’etichetta di “sismografo dell’inconscio” (infatti, la vicenda drammatica è talmente banale e meccanica da consentire sia esecuzioni oratoriali, sia lo sfrenarsi di fantasie registiche), e perché richiede una sola voce e quindi non è quindi di realizzazione troppo costosa. Infine, non gli difetta la brevità, e questo è un pregio che, perlomeno qui in Italia, è proverbiale da ben prima del marzo 1896…
Dall’elencazione si sarà capito al volo che, nonostante la stragrande ammirazione e interesse che abbiamo per molte cose dello Schönberg d’ogni periodo, e sebbene ci sia capitato d’avere assistito a esecuzioni di Erwartung con interpreti “storici” sul podio e in palcoscenico, questo titolo non è compreso nei nostri “irrinunziabili”. Indubbia è, d’altra parte, la sagacia con la quale, orologio alla mano, è stato accoppiato in quest’occasione veneziana alla Fabbrica illuminata. Non meno brillante è stata la scelta degl’interpreti musicali. L’americana Heidi Melton, wagneriana doc, ha saputo cantare ininterrottamente per quasi mezz’ora con adeguata varietà dinamica ed espressiva, con inesauribile riserva di fiato ed efficace dizione tedesca. Da parte sua, Jérémie Rhorer ha dimostrato ancora una volta che l’ampiezza del repertorio rende un interprete sempre molto piú interessante della “specializzazione”: il podio è sottoposto a una tensione incredibile non solo per la necessità di conferire adeguato risalto ai calligrafici e spesso brevissimi incisi orchestrali della partitura, quasi completamente priva di ripetizioni se non nei rari episodi d’ostinato, ma anche per i pressoché continui cambi di tactus. Robert Craft ne contò ben cento e undici, ai quali vanno aggiunti una trentina d’accelerando e ritardando: per la durata del pezzo questo significa che in media si cambia passo musicale ogni dodici secondi. Nelle mani del direttore francese, uscito da solidissime scuole, l’Orchestra del Teatro La Fenice, ha dato una nuova dimostrazione d’ottima salute tecnica e capacità di concentrazione, senza nulla perdere del proprio tradizionale colore di suono, sempre ricco di chiaroscuri intensi e luminosi.
Il team di regia era lo stesso che avevamo molto apprezzato nella realizzazione del pezzo di Nono. Diremmo che qui abbia badato soprattutto a non strafare, a non appesantire il testo con allusioni psicanalitiche delle quali non ha di certo bisogno, limitandosi a una proliferazione di macrocadaveri che a noi ha ricordato quel che si racconta degl’infelici costretti a ricercare in un obitorio comunale un parente scomparso durante qualche strage di piazza. Nella mezz’ora scarsa dell’esecuzione tutto è stato risolto in musica e anche la seconda parte dello spettacolo ha destato il compatto entusiasmo del pubblico.
Di questo inedito “dittico” sono previste tre altre repliche sino a domenica 22 settembre. Quella di martedí 17 sarà trasmessa in diretta alle ore 19 da Radio Tre.
La recensione si riferisce alla recita del 15 settembre 2024.
Vittorio Mascherpa