Direttore | Enrico Calesso |
Oboe | François Leleux |
Programma | |
Richard Strauss | Concerto in re maggiore per oboe e piccola orchestra |
Anton Bruckner | Sinfonia N.7 in mi maggiore |
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste | |
François Leleux, protagonista nella prima parte del quinto appuntamento della stagione sinfonica triestina, è uno di quegli Artisti in possesso di una peculiarità salvifica: suona con gioia e trasmette sentimenti positivi a chi ascolta. Tutto il resto – ed è tanto, tantissimo – viene dopo.
Il Concerto in re maggiore per oboe e piccola orchestra è una delle ultime composizioni di Richard Strauss, che scrisse nel 1945 questa bellissima pagina musicale su amichevole commissione dell’oboista dell’Orchestra di Filadelfia, John de Lancy.
Strutturato in tre movimenti, il brano è permeato da una tinta solare, luminosa, che Leleux ha accentuato con un’interpretazione in cui – di là del virtuosismo stellare – il linguaggio del corpo è stato un valore aggiunto complementare alle note e alle acrobazie musicali.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in serata di grazia, ha steso un morbidissimo tappeto sonoro sul quale il solista ha cesellato arabeschi cromatici raffinatissimi.
Anche nell’Andante del secondo movimento – dove qua e là spunta qualche ripiegamento malinconico di pura matrice straussiana - la sensazione è sempre stata di un’affettuosa leggerezza di pretto stampo mozartiano.
Trionfo, meritatissimo, per Leleux che ha concesso due bis al pubblico che non voleva saperne di lasciarlo andare in camerino.
La Settima di Bruckner è uno dei monumenti del sinfonismo tardoromantico e spesso – troppo spesso – l’ascolto è viziato da un pregiudizio duro a morire che con la musica vera e propria ha poco con cui spartire e cioè l’avversione di certa critica togata per Wagner e tutto quello che, anche lontanamente, ne può evocare il ricordo.
Cominciò Eduard Hanslick, che nei confronti della musica di Wagner e Bruckner ebbe comportamenti da teppista del calamaio – definì innaturale, rigonfia, malaticcia e putrescente la Settima – e in molti lo seguirono. Notoriamente, quando si tratta di parlare male di qualcuno o qualcosa, gli epigoni non mancano.
Per fortuna, a duecento anni dalla nascita di Bruckner, ci sono direttori come Enrico Calesso che riportano nella sua sede naturale la complessa partitura, che è sì ridondante, eccessiva, opulenta e spesso muscolare, ma è anche innervata da una tensione emotiva nobilissima.
Ed è in queste situazioni che si distingue il grande interprete, quando riesce a smussare con un’esecuzione cameristica, delicata, una pagina musicale di codeste dimensioni architettoniche.
Intendiamoci, sempre di Bruckner si tratta e perciò la grandiosità e la magniloquenza restano la cifra distintiva della sinfonia. Ma certi pianissimi impalpabili, le dinamiche sfumate e sempre controllate, le agogiche rilassate e allo stesso tempo incalzanti hanno fatto sì che il densissimo brano scivolasse via senza alcuna pesantezza.
Un lavoro di snellimento che non avrebbe potuto essere effettuato senza la spettacolare Orchestra del Verdi: il suono avvolgente degli archi, in particolare viole e violoncelli, il nitore dei legni – i preziosi contributi delle prime parti di flauto, oboe, clarinetto vanno sottolineati - la precisione dei corni e il vigore degli ottoni e delle percussioni sono stati i tasselli di un puzzle che si è rivelato in tutta la sua bellezza.
Serata da ricordare, in cui il pubblico ha giustamente tributato un trionfo a Calesso e alla compagine triestina.
La recensione si riferisce al concerto del 23 novembre 2024.
Paolo Bullo