Francesca da Rimini | Hasmik Papian | |||
Paolo il Bello | Carlo Barricelli | |||
Giovanni lo sciancato | Giorgio Surian | |||
Malatestino Dall'Occhio | Gianluca Sorrentino | |||
Samaritana | Louise Callinan | |||
Ostasio | Giovanni Guagliardo | |||
Ser Toldo Berardengo | Mario Bolognesi | |||
Smaragdi | Elena Traversi | |||
Adonella | Milena Joisipovic | |||
Altichiara | Annika Kaschenz | |||
Biancofiore | Carla Di Censo | |||
Garsenda | Erika Pagan | |||
Un giullare | Manrico Signorini | |||
Un balestriere | Alessandro De Angelis | |||
Un torrigiano | Andrea Vincenzo Bonsignore | |||
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Maestro concertatore e direttore | Fabrizio Maria Carminati | |||
Regia | Giancarlo Del Monaco | |||
Scene | Carlo Centolavigna | |||
Costumi | Maria Filippi | |||
Luci | Nino Napoletano | |||
Assistente alla regia | Elena Marzoni | |||
Maestro del Coro | Alessandro Zuppardo | |||
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Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste |
La Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai debuttò al Verdi di Trieste nel 1919, con il Compositore stesso sul podio. Fu un trionfo clamoroso e l’inizio di una liason piuttosto lunga con il teatro triestino, tanto che nei trent’anni successivi l’opera fu riproposta altre sette volte e sempre con cast di prestigio assoluto.
Poi, con un paio di eccezioni, peraltro anch’esse di grande valore artistico – basti ricordare i nomi delle protagoniste, Leyla Gencer e Raina Kabaiwanska –l’oblio. L’ultima volta di Francesca al Verdi, prima di questa sera, fu appunto nel 1980: un’intera generazione di triestini non aveva mai visto il lavoro del musicista trentino.
Un gran peccato perché l’opera è un vero e proprio gioiello in cui si riconoscono, filtrate attraverso l’identità creativa di Zandonai, i tratti caratterizzanti il gotha dei compositori coevi, in particolare Puccini ma soprattutto Strauss – nel primo atto è impossibile non pensare alla scena della presentazione della rosa nel Rosenkavalier – e anche il più lontano Wagner: Smaragdi è parente strettissima della Brangäne del Tristan und Isolde.
Con queste premesse, pensavo che il sold out al botteghino fosse garantito, ma mi sono sbagliato perché alla prima il teatro si è presentato desolatamente scarso di pubblico e, come se non bastasse , una parte significativa di spettatori se l’è svignata già alla fine del secondo atto oppure durante i due macchinosi cambi di scena negli atti successivi. Alla fine, ad applaudire stancamente la compagnia artistica c’erano pochi intimi.
Difficile per lo staff dirigenziale del Verdi, in queste condizioni ambientali e vista la contingenza economica, programmare le prossime stagioni senza uscire dal repertorio più classico.
L’allestimento di Giancarlo Del Monaco è molto intrigante e ben realizzato. La vicenda è spostata ai primi anni del Novecento e ambientata, con geniale intuizione, nel Vittoriale. Si respira quindi proprio quell’atmosfera decadente e insana, permeata di presagi di morte, che è paradigmatica dell’opera e del testo dannunziano da cui Tito Ricordi ha ricavato il libretto.
Le scene di Carlo Centavigna – magnifico il ricco primo atto di evidente estrazione pittorica e sorprendente il secondo, con la raggelante entrata di Gianciotto su di una sedie a rotelle - concorrono in modo essenziale alla riuscita dello spettacolo. Curatissimi anche gli interni che rappresentano la fatale camera di Francesca e la scabra e signorile sala da pranzo dello sciagurato dialogo tra Malatestino e lo Sciancato.
Sfarzosi e indovinati i costumi di Maria Filippi mentre l’impianto luci di Nino Napoletano contribuisce a potenziare l’atmosfera opprimente e claustrofobica della vicenda.
Inoltre, tutti gli artisti sul palco, Coro compreso, si muovono con compiuta efficacia scenica.
Mi sento di muovere un solo appunto al regista e riguarda, come accennato in apertura, i due intervalli e i cambi scena che tendono a frammentare troppo lo sviluppo drammaturgico dell’opera.
Il direttore Fabrizio Maria Carminati (qui l'intervista che gli ho fatto qualche giorno fa), molto coinvolto sul podio, ha cercato soprattutto di equilibrare il rapporto tra buca e palcoscenico, evidentemente conscio che la compagnia di canto non sarebbe sopravvissuta a bordate di suono eccessive.
La partitura della Francesca vive però di forti contrasti dinamici e quindi la narrazione drammaturgica non ne ha risentito. In particolare ho apprezzato il primo atto, in cui il tappeto sonoro era forse un po’ flebile, ma comunque adatto a valorizzare le tante suggestioni - il miniaturismo di ampio respiro di certi incisi è davvero affascinante in quest’opera - della scrittura orchestrale. Ferrigna, scarna ed efficace la concertazione nella scena della battaglia e nell’impressionante finale.
Considerato che sia per l’ottima Orchestra del Verdi sia per il M° Carminati era un esordio, sono certo che nelle prossime recite il risultato complessivo sarà ancora migliore.
Paolo il Bello, alla prima, dopo numerose defezioni che avevano fatto temere il peggio, è stato impersonato da Carlo Barricelli che, pur amorevolmente guidato dal direttore, non ha potuto fare altro che limitare i danni. Il tenore ha palesato un’evidente insufficienza di volume, prima di tutto, per la parte. La circostanza l’ha costretto a un canto forzato che ha reso asettica la sua prestazione in un personaggio che dovrebbe fare dell’accento virile e amoroso, seduttivo, il centro dell’interpretazione. Gli va riconosciuta una discreta presenza scenica e una recitazione di buon gusto e anche l’attenuante di un probabile affaticamento per aver cantato molto nei giorni precedenti alla prima, tra prove d’assieme, antegenerale e generale.
Hasmik Papian è stata protagonista di una prestazione di buon livello. La voce è importante e sonora nei centri, di timbro non particolarmente affascinante, e seppure la salita agli acuti occasionalmente non è sembrata limpidissima, la sua Francesca si rivela convincente perché il soprano è molto attenta al fraseggio e all’accento tragico, circostanza che in quest’opera e con un testo simile è assolutamente fondamentale per rendere compiutamente il tormento del personaggio. Inoltre è una bella donna, e la grande presenza scenica e la recitazione sobria le hanno consentito di superare una certa freddezza interpretativa iniziale.
Spettacolare la prova di Giorgio Surian nei panni di Gianciotto, l’unico artista sul palco che è riuscito a sprigionare sensualità con la sua interpretazione. Memorabile l’entrata, col rimbrotto alle truppe che tanto ricorda un’altra sortita leggendaria, quella dell’Otello verdiano, ma il basso baritono fiumano è stato davvero eccellente anche nei concitati dialoghi con Malatestino e nella fulminea e drammatica scena finale. Inoltre la voce è incisiva, timbrata e sonora e la recitazione appropriata, in una parte che si presta facilmente a scivoloni nel cattivo gusto.
Non straordinaria dal punto di vista vocale la caratterizzazione di Gianluca Sorrentino nella parte di Malatestino, e anche sul versante della recitazione il tenore mi è sembrato forzare troppo il lato grandguignolesco, già abbastanza marcato, del personaggio.
Di buon livello la prestazione del resto del cast, in cui hanno spiccato l’autorevole Giovanni Gagliardo (Ostasio), la struggente Louise Callinan (Samaritana) e soprattutto l’accorata e commovente Carla Di Censo (Biancofiore) e la toccante Elena Traversi (Smaragdi).
Meritano la citazione però anche tutti gli altri: Manrico Signorini (Un giullare), Mario Bolognesi (Ser Toldo), Milena Josipovic (Adonella), Annika Kaschenz (Altichiara), Erika Pagan (Garsenda), Alessandro De Angelis (Un balestriere) e Andrea Vincenzo Bonsignore (Un torrigiano).
Molto bene il Coro, preparato da Alessandro Zuppardo.
Il pubblico, o quello che ne era rimasto, ha gradito lo spettacolo e ha applaudito, senza troppo vigore a dire il vero, tutta la compagnia artistica. Festeggiati in modo un po’ più caloroso Giorgio Surian, Hasmik Papian e il direttore Francesco Maria Carminati.
Segnalo che il tenore Marcello Giordani interpreterà Paolo il Bello nelle recite del 22, 27 e 30 aprile.
Paolo Bullo