Jakob Lenz | Bruno Taddia |
Oberlin | Matías Moncada |
Kaufmann | Leonardo Cortellazzi |
Sei Voci | Livia Rado Luisa Bertoli Elena Caccamo Eleonora De Prez Marco Gazzini Jong Eon Sung |
Due Voci bianche | Noemi Arcelli Olga Rigamonti |
Direttore | Marco Angius |
Mise en espace | Cesare Scarton |
Impinato scenico e Luci | Andrea Tocchio |
Motion graphics | Flaviano Pizzardi |
Maestro dell'Ensemble vocale dell'Accademia Teatro alla Scala |
Marco De Gaspari |
Ensemble da camera "Giorgio Bernasconi" dell'Accademia Teatro alla Scala |
Jakob Lenz, “opera da camera n. 2” di Wolfgang Rihm, raggiunse la scena ad Amburgo nel 1979 e da allora ha avuto centinaia d’allestimenti che permettono di considerarla un titolo del grande repertorio, almeno nei Paesi dove il teatro d’opera ha vitalità propria. In Italia arrivò nel 1988, al Teatro Comunale d’Alessandria; nel ‘99 fu eseguita al Maggio Fiorentino. Un fortunato allestimento di Henning Brockhaus per il Teatro “Lauro Rossi” di Macerata fu ripresentato nel 2012 a Lugo e a Bologna con la direzione di Marco Angius, che quest’anno è stato invitato dal Festival pucciniano di Torre del Lago per dirigere, il 20 luglio scorso, un’esecuzione dell’opera di Rihm nell’Auditorium Enrico Caruso, sottostante al teatro all’aperto.
L’eponimo del lavoro è figura storica di letterato e poeta, grande ammiratore di Shakespeare e tra gl’iniziatori del movimento che sarà detto Sturm und Drang. Nato nel 1751 nell’attuale Lettonia, ebbe vita attiva molto breve; fu amico di Goethe e ruppe in malo modo con lui. Dettò alcuni drammi drasticamente critici della società del suo tempo. Sull’ultimo e più maturo di essi, Die Soldaten, Bernd Alois Zimmermann compose, poco dopo la metà del secolo scorso, un’opera con lo stesso titolo. A 27 anni Lenz sprofondò nel gorgo della schizofrenia. Nel giugno del 1792 il suo corpo, tristemente sopravvissuto all’ingegno, fu trovato esanime in una strada di Mosca.
Circa mezzo secolo dopo queste vicende Georg Büchner, un altro scrittore tedesco destinato a vita molto breve ma anche a fornire con il suo incompiuto Woyzeck l’ipotesto d’un sommo capolavoro del teatro d’opera, serrò in poche, folgoranti pagine, l’esplodere della crisi psichiatrica di Lenz tra gennaio e febbraio 1778, dall'arrivo nell’ignota casa d’un parroco amico d’un suo amico al doloroso allontanamento forzato, con episodi via via più sconcertanti e irriducibili al “senso comune”. Diffusa è la convinzione che la vicenda abbia contribuito a interessare Büchner al tragico caso del soldato Franz Woyzeck.
Colpisce anche la corrispondenza dei ruoli vocali tra il Wozzeck di Berg e il Lenz di Rihm: baritono il tormentato protagonista, basso e tenore i “normali” Oberlin e Kaufmann, mancati salvatori che richiamano, anche se per contrasto, il Dottore e il Capitano. Sei Voci (quattro femminili, due bassi-baritoni), trattate in modo quasi madrigalistico, e due (o quattro) Voci bianche rifrangono la disperata coscienza di Lenz. Non meno berghiana appare la concisione dei “dodici quadri con un epilogo” in cui è divisa l’opera; interludi più o meno brevi ne collegano alcuni; altri sfociano direttamente nel successivo. Rihm richiede undici esecutori in orchestra: due per gli oboi e il corno inglese, uno per il clarinetto e il clarinetto basso, uno per il fagotto e il controfagotto, uno per le percussioni; s’aggiungono una tromba, un trombone, un clavicembalo a tratti amplificato e tre violoncelli. Come già indica l’assenza di flauti, viole e violini, il timbro strumentale ha una tinta scura e brunita. L’autore ha dichiarato che “opera da camera non vuol dire opera piccola: la relazione con l’opera è molto più simile a quella tra musica da camera e sinfonia”: un genere di spettacolo, quindi, che consente una più acuta messa a fuoco e più intense provocazioni. Saggiamente, il libretto di Michael Fröhling non cade nella tentazione di convertire in una sequenza d’eventi le situazioni psicologiche delineate da Büchner. L’ordinamento temporale delle scene, anche se indubbio e chiaro, non prevale mai sulla decensus averni mentale del protagonista. Durante la musicazione, Rihm aggiunse parole e frasi tratte dal “racconto”.
All’inizio dell’opera, il protagonista raggiunge l’articolazione della parola in una pausa stupefatta che fa seguito al grido “tenuto a lungo” con il quale si presenta. I successivi quadri offrono situazioni già presenti nell’ipotesto, ma l’epilogo ne diverge lasciando supporre la morte del protagonista, laddove il “racconto” (forse incompiuto) chiude fedele ai tempi della vicenda reale: “Il mattino seguente con un cupo tempo piovoso giunse a Strasburgo. Sembrava del tutto ragionevole, parlava con la gente: faceva tutto come lo facevano gli altri, ma in lui c’era un vuoto terrificante, non sentiva più nessun’angoscia, nessun desiderio; il suo esserci era per lui un peso necessario. – – Così visse.”
Per la descrizione dei quadri in cui è divisa l'opera mi permetto di rimandare alla mia recensione del recente spettacolo allo Stadttheater di Klagenfurt, che contiene anche un breve inquadramento storico dell'autore.
Tra i compositori del ‘900, Rihm dichiara più cari a sé Gustav Mahler, esplicito referente del più ampio degl’interludi; Luigi Nono, da cui mi sembra derivare la convergenza tra volontà espressiva e personalità del linguaggio; Luigi Dallapiccola, attraverso il quale riesce evidente l’aggancio alla gloriosa vicenda melodrammatica della “parola scenica” e della fantasia nella commistione di forme e sintassi. Wagneriana potrebbe poi dirsi la volontà di presentare in limine il materiale “fondante” della struttura musicale: in questo caso, la sovrapposizione di trìtono e di quinta giusta nel “discordo” Sol bemolle-Fa-Si con il quale i tre violoncelli aprono sommessamente l’opera. Ma il risultato suona agli antipodi dell’eclettismo ed è irriducibile ai suoi antecedenti.
E Marco Angius lascia che i tre violoncelli aprano l'esecuzione mentre il posto del direttore è ancora vuoto; solo quando il tessuto sonoro “primordiale” s’infiamma ed evolve verso strutture complesse s’alza dalla platea e si porta davanti al leggio.
L’Auditorium Enrico Caruso è una sala rettangolare di circa trecento posti a sedere, con un palco rialzato lungo uno dei lati maggiori. Ne incornicia il boccascena un elegante profilo in legno risalente allo spettacolo inaugurale, un Trittico nell’agosto del 2014. Sul palco, accessibile dai due lati, sono disposti gli undici strumentisti dell’Ensemble da camera “Giorgio Bernasconi” dell’Accademia Teatro alla Scala, con i violoncelli (Sofia Bellettini, Beatrice Arizza e Tazio Brunetta) in posizione centrale e prominente. Sul fondo a sinistra, le sei voci del “coro” (Ensemble vocale dall’Accademia Teatro alla Scala, maestro Marco De Gaspari); ai lati, sul davanti, tre leggii dai quali i solisti canteranno gran parte dell’opera. Sulla sinistra, al livello della platea, il clavicembalo.
Lenz, lo straordinario Bruno Taddia, entra dinoccolato e oscillante dalla destra, con espressione stravolta. Serpeggia tra gli strumenti e si porta al suo leggio, a sinistra del direttore Angius. La locandina dello spettacolo non ne definisce la forma, se oratoriale, scenica o semiscenica, ma semplicemente ne assegna la mise en espace. Il termine, intenzionalmente distinto da mise en scène, mi sembra descrivere molto propriamente il lavoro di Cesare Scarton, che muove i personaggi con mano abilissima, sfruttando al meglio l’esiguo spazio disponibile per realizzare anche visivamente le situazioni d’incontro e scontro tra loro e dimostrando anche la sua grande dimestichezza con una pratica poco frequentata in Italia, qual è il melologo. Il termine mise en espace, a rigore, non spiega di chi sia il merito della straordinaria mimica facciale e gestuale del personaggio di Lenz: credo di non fare torto a nessuno dividendolo tra Scarton e lo stesso Taddia. La violenza e la tensione dei passi più “forti” del testo non sfuggono al controllo del regista e dell’attore e la rappresentazione dell’eccesso non perde mai di vista il fine catartico del teatro (aggiungo che in una limpida e concreta pagina contenuta nel programma di sala, Scarton definisce “semiscenica” la sua visualizzazione dell’opera di Rihm).
Durante l’esecuzione, scorrono sulle tre pareti e sul soffitto dello spazio scenico immagini di motion graphics dovute a Flaviano Pizzardi, che ispirandosi in parte alle acqueforti di Dürer (citato dallo stesso Scarton) ricrea un ambiente germanico in cui il medioevo convive con acquisizioni rinascimentali e barocche. Fondono il tutto le luci d’Andrea Tocchio, dosate con intenzioni che direi ritrattistiche sui volti dei personaggi; a lui si deve anche l’impianto scenico, che consiste in riquadrature delle pareti laterali e del soffitto, lasciando invece indiviso lo sfondo. Da tutto questo nasce una realizzazione visiva di prim’ordine, tale da non far sentire la mancanza d’una messinscena propriamente detta nemmeno a chi ha avuto la fortuna d’assistere a spettacoli d’alta qualità come quelli di Brockhaus e di Springer-Stingl-Breitenecker, visto e lodato pochi mesi fa a Klagenfurt.
Ma, a mio parere, il teatro d’opera, una volta superata l’era remota delle meravigliose macchine barocche, ha vissuto e vive in modo quasi esclusivo grazie alla sua realizzazione musicale. Ed è in primo luogo questa che la sera del 20 luglio a Torre del Lago s’è impressa in modo indelebile nella memoria. Già dieci anni fa a Bologna Marco Angius m’aveva colpito sia per la sicurezza del passo narrativo, sia per l’eccellenza della concertazione. E il tempo è amico degli artisti coscienziosi ed entusiasti che sanno avvalersene: a Torre del Lago ho avuto l’impressione d’uno scavo interpretativo del tutto nuovo. In particolare, ho trovato straordinaria la capacità di aprire gli squarci lirici come sbocco inevitabile di situazioni sonore magmatiche. Dagli undici giovani strumentisti che sonavano con lui e che alla fine l’hanno ringraziato con evidente entusiasmo (i tre violoncellisti già menzionati, Federico Allegro all’oboe, Laura Burguillo Sánchez al secondo oboe e corno inglese, Irene Marracini al clarinetto e clarinetto basso, Jorge Galán Corral al fagotto e controfagotto, Giuseppe Rizzo alla tromba, Erik Pignotti al trombone basso, Rosario Bonfiglio alle percussioni e Dahyun Kang al clavicembalo amplificato), Angius ha saputo ottenere prestazioni da solisti e un’equilibratissima coesione d’insieme.
Di non minore rilevo la prestazione del "coro", preparato dal maestro De Gaspari con perfetta sensibilità timbrica e attenzione ai rapporti dinamici: i soprani Livia Rado e Luisa Bertoli, i mezzosoprani Elena Caccamo ed Eleonora De Prez, i bassi Marco Gazzini e Jong Eon Sung; accanto a loro le due voci bianche Noemi Arcelli e Olga Rigamonti.
Bruno Taddia è stato un grande Lenz. Non meno che per le esemplari qualità d’attore di cui ho detto, convince a fondo per la varietà con la quale ha cantato, recitato e declamato la parte, rispettando minuziosamente la difficile linea delle altezze e i diversi tipi d'emissione richiesti da Rihm. Il cólto baritono pavese, allievo di Paolo Montarsolo (e di Giulio Franzetti per il violino), ha creato una figura in cui la schizofrenia sembra quasi nascere irrimediabilmente dal cogliere le contraddizioni implicite in ogni conoscenza approfondita della complessità umana.
Matías Moncada ha dato voce e figura al pastore Oberlin. Molto solido vocalmente, il basso cileno s’immedesima nella figura del pastore, centrandone idealmente il personaggio “pronto a soccorrere ma non a sacrificarsi del tutto”, immobile nelle proprie convinzioni ma impenetrabile nelle sue motivazioni.
Il tenore Leonardo Cortellazzi è stato un Kaufmann d’extralusso. La parte è la meno estesa delle tre, ma determinante nel precipitare la tragedia. L’artista, esente da ogni istrionismo, dispone d’un carisma scenico che attrae lo sguardo non appena compare sul palcoscenico (anche se mezzo infilato in un bidone dei rifiuti come l’ultima volta che l’avevo visto, nell’opera di Kurtág poco apprezzata a Milano e moltissimo ad Amsterdam). Questa commistione di riservatezza e irresistibile magnetismo è una caratteristica per la quale potrei scomodare solo un precedente molto illustre tra quanti ne ho visti in palcoscenico. Ma ancor di più contano, in Cortellazzi, una brillantezza di timbro non a torto definita “ieratica”, un impeccabile controllo dell’intonazione e una pregnanza di fraseggio che conquistano l'ascoltatore. Il Kaufmann di Rihm e Büchner ne esce come il perfetto contraltare di Oberlin: dove questi vince le proprie incertezze nell’immobilismo, l’altro comunica una sbalorditiva sicurezza: tutti i dubbi sono stati lasciati dietro le spalle. La realizzazione del suo personaggio m’ha ricordato una famosa immagine di Valerio Catullo: Lenz è indifeso e cade come il fiore all’estremità del prato appena lo tocca l’aratro che passa oltre.
Il breve spettacolo ha provocato nei suoi non molti spettatori un’emozione enorme, sfogata alla fine in un lungo e intenso applauso. Se posso esprimere, in questa sede, una convinzione personale, un festival dedicato a una somma e popolare figura della musica, come in questo caso Giacomo Puccini, dà maggior risalto al suo “oggetto” se alle esecuzioni, comunque prevalenti, delle sue opere affianca quelle di altri compositori, in ispecie contemporanei a lui o a noi. È stato questo il criterio che ha fatto grande la Mozartwoche di Salisburgo dal 1956 alla sciagurata decisione, pochi anni fa, di riservarla esclusivamente a Mozart; ed è questo il criterio che l’attuale direttore artistico del Festival pucciniano, Giorgio Battistelli, sta seguendo, con le serate, l’anno scorso, di Pierrot lunaire (contemporaneo di Puccini) e quest’anno di Jakob Lenz e Satyricon (due titoli che, peraltro, risalgono a circa mezzo secolo fa). Purtroppo, finora la risposta del pubblico appare insoddisfacente; per attrarne di più gioverebbero, forse, anche comunicati-stampa scritti in modo più corretto e quindi invitante.
Lodevoli, nel sobrio programma di sala a fianco dell'intervento di Cesare Scarton, la presentazione dell'opera firmata da Francesco Ermini Polacci e lo stralcio da un saggio di Marco Angius che spiega peculiarità e novità della musica come meglio non si potrebbe.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 20 luglio 2022.
Vittorio Mascherpa