Tenore | Julian Prégardien |
Fortepiano | András Schiff |
Programma | |
Franz Schubert |
Sonata per pianoforte in sol maggiore D 894 |
Franz Schubert |
Die schöne Müllerin D 795 |
Ci sono concerti che insegnano, anche agli ascoltatori più smaliziati, quale possa essere la distanza tra quello che credono di sapere e la realtà oltre la teoria. L’evento che al Festival di Salisburgo si presentava come un concerto da tutto esaurito con l’esecuzione dell’iconico ciclo schubertiano “Die schöne Müllerin” D 795, si è rivelato una lezione sull’essenza del “piano” e la generale, insospettabilmente limitata capacità di percepirne l’intensità. Protagonisti dell’appassionante “dimostrazione” sono stati il pianista András Schiff e il tenore Julian Prégardien.
Tutto è partito dalla fondamentale scelta di uno strumento: il fortepiano viennese firmato da Franz Brodmann e risalente al 1828, anno della morte di Schubert. Non una copia, ma uno splendido originale, con la peculiare patina della sua sonorità che alle orecchie moderne risulta ovattata.
Irriducibile come di consueto alla logica dei programmi predefiniti, Schiff inizia il concerto con due fuori programma (mettendo subito in chiaro: “questi erano i bis!”). La scelta di aprire con due pezzi brevi, l’Allegretto in do minore risalente al 1827 e la Melodia ungherese, non è un’estrosa deviazione ma il modo per condurre gli spettatori in una dimensione diversa. Dopo i primi minuti necessari ad abituare l’orecchio al suono di uno strumento che presto raggiungerà due secoli di esistenza, Schiff invita il pubblico a immaginare cosa avrebbe detto Schubert ascoltando l’esecuzione su un moderno Steinway: probabilmente avrebbe esclamato: “perché così forte?!”
L’interrogativo sul mondo sonoro dal quale derivano i compositori è la base dalla quale è partita la grande impresa delle esecuzioni storicamente informate, ma ha certamente ancora bisogno di essere posto quando parliamo di musica romantica. Schiff spiega che, nonostante momenti di intensa drammaticità e sonorità dense, la gran parte della magia della musica di Schubert si sviluppa nelle sfumature dei piani. Quindi preme sul pedale moderatore che porta il gioco dei piani su un livello ancora superiore e ripropone alcune note, facendo comprendere quanto alcune sfumature siano impossibili da riprodurre su un pianoforte moderno.
Attraverso l’esecuzione dell’ampia Sonata per pianoforte in sol maggiore D 894 il pubblico è spontaneamente invitato a un tipo di ascolto non solo più raccolto, ma diverso, dove i forti e i piani, se misurati con criteri moderni, sembrano realizzarsi in un’intenzione che prevale sulla percezione.
Così è emerso il primo spunto di riflessione, ovvero la distanza nei parametri di base tra secoli separati non soltanto dallo sviluppo tecnico degli strumenti, ma soprattutto dall’ambiente sonoro nel quale la musica nasce e gli ascoltatori ne fruiscono. Un ambiente che ai tempi di Schubert aveva certamente un livello di inquinamento acustico non paragonabile a quello attuale e dove non c’era la necessità di “alzare la voce”.
Su questa caratteristica si è modellata anche l’interpretazione dell’iconico ciclo di Lieder, dove il tenore Julian Prégardien non ha mai sentito la necessità di fare sfoggio della voce, ma piuttosto di dare senso e vita a ogni parola dei versi di Wilhelm Müller. Lo si è capito prima ancora di iniziare, quando il cantante è entrato in scena in maniche di camicia e gilet (scelta già presentata in passato, ma che ha simboleggiato da subito un tipo di approccio al contenuto), mentre Schiff ha scelto una camicia di colore verde (perché, come ripete il testo, “Mein Schatz hat’s grün so gern”), entrambi segni della volontà di entrare nella sequenza di brani come fosse teatro.
Tutti sanno che la liederistica richiede una particolare attenzione al testo e che ogni parola va valorizzata e sottolineata nella lettura data dal compositore. Molti cantanti credono di farlo scegliendo il colore adatto e articolando espressivamente il testo, ma Prégardien è salito senza compromessi su un gradino superiore: in primo luogo cogliendo l’essenza della “canzone” che in questo caso viene esaltata dalla naturalezza, poi mettendo realmente la voce al servizio della parola con una autentica immedesimazione nel personaggio.
L’idea di naturalezza è stata resa esplicita fin dalle prime note, in un fluire della voce leggero, narrativo, che si concede piccoli abbellimenti introdotti senza enfasi, come normale conseguenza di un canto modellato sull’espressione spontanea. È un soffio “Wohin”, dove Prégardien ruba qualche piccola appoggiatura, regalandola all’espressione di una voce luminosa e un fraseggio scorrevolissimo, mentre i fiati sono quasi impercettibili, come si trattasse di un parlato. Il cantante si immedesima senza compromessi nella speranza d’amore che scorre tra il mulino e il ruscello e il pubblico viene stimolato all’attesa di ogni Lied successivo, per scoprire l’idea alla base dell’interpretazione degli affetti, in una sequenza serrata di situazioni che assumono a ogni passo colori e sfumature emotive diverse.
Come afferma Schiff, Schubert va trovato nei pianissimi e Prégardien ne possiede una gamma molto ampia, con momenti che fanno trattenere il fiato al pubblico, come quando in “Der Neugierige” attacca con un filo di voce “O Bächlein meiner Liebe”, quasi a simulare l’emozione che chiude la gola. Il testo viene utilizzato con sottolineature espressive anche nelle possibilità onomatopeiche, come ad esempio riducendo a uno scintillio il “nicken un blicken” che visualizza gli occhi di lei come bagliori di stelle in “Tränenregen”. La ricchezza di dettagli espressivi non risulta mai artificiosa, ma fa vivere il racconto come naturale derivazione di un coinvolgimento emotivo molto credibile. A livello puramente tecnico una piccola debolezza riguarda l’estensione della voce che tende ad assottigliarsi negli estremi, ma la sensibilità dell’interpretazione regala in cambio molto di più di una tonante perfezione vocale.
Il dialogo con il fortepiano è avvolgente in “Morgengruss”, simbiotico lungo tutto il ciclo anche sul piano dei volumi. Non occorre adattare il suono dello strumento alla voce, il connubio perfetto esiste di base ed è proprio lo strumento, complice anche il tocco delicatissimo (e abituato alla meccanica di strumenti storici) di Schiff, che invita a non forzare la voce, facendo riflettere sulla natura originale di Lieder spesso ascoltati in versioni “robustamente” moderne.
Fino alla svolta segnata dall’arrivo del cacciatore che spegne le speranze d’amore del protagonista, la prima parte del ciclo vive di un’aspettativa timorosa, di timide richieste di attenzione, mentre la seconda innalza i toni dimessi della rassegnazione alla sublimazione finale dove la morte è fusione con la natura. Non sono Lieder scolpiti vocalmente nella pietra della dimensione eroica, ma dell’anelito giovanile e della sconfitta. Questa consapevolezza, rafforzata da una scelta filologica, ha modellato l’interpretazione e l’affinità del suono al contenuto.
Il vertice emotivo del ciclo viene raggiunto nel presagio che impregna le note di “Der Jäger”, dove la concitazione nel tempo e negli accenti emerge con toni di sincero sgomento, evidenziati ulteriormente dal cantante anche nel successivo “Eifersucht und Stolz” facendo emergere taglienti i risentiti appelli per interposta persona rivolti al ruscello: “hörst du”, “sag’ ihr”. Nella successiva straziante presa di coscienza in “Die liebe Farbe”, Prégardien interpreta magistralmente la volontà di Schubert di affidare il peso di una lacerante intensità alle ali di un impalpabile canto sospeso. Ovazioni finali del pubblico hanno accolto l’esperienza Illuminante di un concerto che ha segnato chiaramente la distanza tra esecuzione e interpretazione.
La recensione si riferisce alla serata del 17 agosto 2024
Rossana Paliaga