Maria Stuarda | Marina Rebeka |
Roberta Mantegna | |
Elisabetta | Carmela Remigio |
Erika Beretti | |
Anna Kennedy | Valentina Varriale |
Roberto, conte di Leicester | Paolo Fanale |
Giorgio Talbot | Carlo Cigni |
Lord Guglielmo Cecil | Alessandro Luongo |
Regia | Andrea De Rosa |
Scene | Sergio Tramonti |
Costumi | Ursula Patzak |
Luci | Pasquale Mari |
Direttore d'orchestra | Paolo Arrivabeni |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro del Teatro dell'Opera di Roma |
Dopo un Trovatore così e così, il Teatro dell'Opera di Roma ritorna sul buon livello che sta caratterizzando anche questa stagione; mentre a Milano la regina Bolena fa acqua da tutte le parti, l'ex-Costanzi onora Gaetano Donizetti con un'ottima Maria Stuarda. Il pubblico ancora una volta premia la qualità, affollando il teatro in tutte le recite e plaudendo tutti a lungo e in modo convinto. La presente recensione è basata sulle recite di venerdì 24 marzo e martedì 4 aprile.
Andrea De Rosa mostra come si possa mettere in scena un'opera senza spendere chissà quali cifre, mantenendone lo spirito e valorizzandone la componente drammaturgica. De Rosa aveva già affrontato il dramma nel 2007, mettendo in scena al Teatro Stabile di Napoli la Maria Stuart di Friedrich Schiller, testo da cui partì il giovanissimo Giuseppe Bardari per stendere il libretto dell'opera donizettiana; chiamato poi nel 2010 dal San Carlo di Napoli (quindi già recensito da Operaclick), il regista scelse di riprendere il medesimo allestimento che, alla fine, è giunto a Roma.
Semplice e funzionale, di notevole impatto psicologico, l'impianto scenico di Sergio Tramonti la cui genesi (e rinascita, data la perdita di tutto il materiale usato nell'allestimento napoletano) è descritta narrativamente nel libretto di sala: una parete color sangue e ruggine si apre, con taglio orizzontale, a rivelare il coro in abiti scuri che assiste, quasi come una giuria, allo svolgersi iniziale dell'azione; unico elemento scenico è il trono al centro del palco che viene spinto con violenza e fatto cadere da Elisabetta, quando Roberto le confessa la “leggiadria” di Maria. La prigione è sintetizzata nelle mura con aculei che serrano Maria e le sue due compagne (una canora e una muta), ma al di là delle mura un'enorme tela retroilluminata e dipinta, in stile quasi impressionistico, in nero e sangue, rappresenta le sagome della foresta di Fotheringhay e getta un sentimento di ansia sul canto spensierato della prigioniera. Belli e funzionali anche i costumi moderatamente lussuosi di Ursula Patzak, tra i quali bisogna almeno ricordare l'abito bianco con guanti rosso sangue dal chiaro valore simbolico indossato nel finale da Maria, e le luci di Pasquale Mari, sulle quali si gioca molto del secondo atto: la scena è inizialmente quasi tutta nell'oscurità, con un candelabro a illuminare l'ansia della regina, indecisa se firmare o meno la condanna a morte a ridosso della buca orchestrale; dopo la firma, l'illuminazione si sposta sulla parte centrale del palco, dove si trova la camera di Maria con il letto e due candelabri; all'annuncio della condanna fa seguito il colloquio con Talbot il quale, da un vano nascosto, tira fuori due assi di legno che con una corda unisce, a formare una croce usata per consentire la confessione dei peccati; infine, con un coup de théâtre, viene illuminato il fondo dove prima si vede il ceppo del boia, poi le pareti, i cavi e gli acciai moderni, con bel valore simbolico che tuttavia non guasta l'effetto visivo e, anzi, contribuisce al generale effetto psicologico dello straniante finale.
In questo bell'allestimento, lo spettacolo è comunque fondato sulla recitazione. Buona notizia: De Rosa non si limita a enunciare una verità che tutti i registi enunciano, ossia che bisogna giocare insieme alla musica, non contro essa, ma riesce a metterla in pratica. I movimenti, gli sguardi e i gesti plateali sono tutti accordati a ciò che si sente dalla buca e questo non può che esaltare la riuscita complessiva. I personaggi ricevono anche parzialmente una luce nuova. Coloro che ne traggono maggior beneficio sono senza dubbio Leicester e Cecil; il primo arrembante seduttore della regina e, da come si muove con voluttà attorno al trono, senza dubbio caratterizzato da un atteggiamento volitivo nei confronti del potere terreno, oltre che dall'attrazione per la bella Maria; il secondo spesso in primo piano, a esercitare violenza mal repressa nei confronti di Leicester quasi come sfogo per l'impossibilità di colpire direttamente Maria, e in un perenne confronto con Talbot a rimarcare la propria superiorità come “braccio destro” di Elisabetta, che giunge all'apice quando gli posa davanti la croce, nella scena finale, simbolicamente incolpandolo (con lo sguardo) di religioso “tradimento”.
La parte musicale è all'altezza di quella scenica, se non migliore. Il direttore Paolo Arrivabeni propone una versione quasi completa (alcuni piccoli tagli, ad esempio nel duetto Maria-Talbot) e accompagna molto bene i cantanti, con brio ma senza mai spingere a tal punto da far scollare palco e buca, scegliendo pochi punti, giusti, per far cantare a voce un po' più spiegata l'orchestra, che si comporta in modo egregio. Bene anche il coro diretto da Roberto Gabbiani, soprattutto nel lungo finale secondo.
Nel rispetto della volontà originale del compositore e con sensatezza drammaturgica (si parla di due regine!), per le parti di Elisabetta e Maria sono stati scelti due soprani. Il primo cast ha schierato due primedonne di alto livello. Marina Rebeka aveva già trionfato a Roma nel 2014, come Anna nel Maometto II di Rossini, e le aspettative molto alte non sono andate deluse. La sua Maria, nonostante una dichiarata passione per il modello di Mariella Devia (con riferimento però solo alla “tecnica”), è più donna che regina, grazie anche al timbro sensuale e maturo che trova splendido sfogo nella confessione, ai versi «Amor mi fe' colpevole, / m'aprì l'abisso amor». La Rebeka si dimostra prima di tutto grande attrice e interprete, con un bel physique du rôle, non priva di potenza nell'ottava inferiore e notevole in quella superiore, con acuti e sovracuti pieni e risonanti; la dizione è molto buona e il fraseggio, tradizionale, ben svolto. Molto bene nella cavatina Oh nube che lieve con lunghi fiati e nella cabaletta Nella pace del mesto riposo, in cui mostra di dominare anche le agilità, si rende poi protagonista di una grande scena finale con valanga di applausi a seguire. Carmela Remigio ha una dizione scolpita e il fraseggio, complice una convincente recitazione a tratti nevrotica, risulta molto personale: Elisabetta cela la perfidia politica dietro la maschera di una bimba capricciosa. La coloratura è svolta benissimo, anche con interessanti variazioni (per esempio, belle quelle nella ripresa della cabaletta iniziale Ah dal ciel discenda un raggio), e la voce non potentissima ma ben proiettata riesce sempre a sollevarsi al di sopra della massa orchestrale e degli altri cantanti, all'occorrenza. Con due cantanti e interpreti di questo livello, la scena del confronto riesce sfavillante non solo dal punto di vista musicale.
Il secondo cast schiera, con scelta ardita ma senza dubbio encomiabile, due soprani provenienti entrambi dal “vivaio” del Teatro dell'Opera, cioè il programma Fabbrica. Tenendo presente che si tratta di giovani cantanti, agli albori della propria carriera, bisogna sottolineare come, almeno dal punto di vista vocale, la serata del 4 aprile possa considerarsi riuscita in modo ottimale. Ne fanno fede gli applausi finali, quando le due ragazze, dopo aver diviso gli applausi con il resto del cast e con il direttore, si fanno avanti mano nella mano per ricevere l'applauso convinto degli spettatori. Erika Beretti, già vista come Maddalena nell'ottimo Rigoletto andato in scena poco prima di Natale, mostra di trovarsi più a suo agio nel repertorio belcantistico: coloratura ben eseguita, intonazione quasi sempre impeccabile, acuti ben proiettati, dizione ottima; il fraseggio è ancora anonimo e la recitazione timida, ma sono limiti che con il tempo e l'esperienza potranno essere senza dubbio superati. Più impegnativo il compito per Roberta Mantegna nei panni di Maria che, però, viene a capo del lungo impegno canoro senza troppi problemi; il timbro flebile non disdice al personaggio, gli acuti e i sovracuti sono cristallini e ben proiettati, le agilità affrontate con perizia e a ritmi sostenuti, l'intonazione sempre ineccepibile; anche in questo caso, il fraseggio andrà approfondito senza tralasciare la dizione e la resa scenica, comunque accettabili.
Il resto del cast ha sostenuto tutte le recite. Il tenore Paolo Fanale ha ricoperto il ruolo di Leicester. Prova di grande impegno, quella di Fanale: non lesina certo in energie e mostra di possedere una grande musicalità. I fiati sono notevoli, il ritmo sempre sostenuto con grande verve, ottimi il fraseggio e la dizione (a parte il suono “gl” che viene sempre trasformato nella semivocale “j”). Oltre al bell'aspetto giovanile, poi, mostra di muoversi con disinvoltura sul palco e interpreta un ruolo ingrato recitando con convinzione e bravura. La voce, però, appare velata, ricordando per certi versi quella del Kaufmann maturo, e non sempre ben proiettata, al punto che a tratti è risultata difficilmente udibile. Nei concertati, quindi, il suo apporto è risultato limitato, mentre sono riusciti ottimamente i duetti, in particolare quello con Elisabetta, nel cantabile Era d'amor l'immagine, durante il quale si avviluppa sensualmente al trono.
Bene Carlo Cigni nei panni di Talbot, dalla recitazione composta e ieratica, con voce che risuona potente al centro e in basso, un po' schiacciata nell'ottava superiore. Benissimo Alessandro Luongo nei panni di un Cecil davvero luciferino, dal fraseggio insinuante , sempre pronto a porgere a Elisabetta il foglio di condanna a morte della rivale e a far valere il proprio apporto nei concertati. Molto bene l'Anna Kennedy di Valentina Varriale, proveniente anche lei da Fabbrica e impegnata positivamente in numerose controscene.
Michelangelo Pecoraro