Canio | Brian Jadge |
Nedda | Nino Machaidze |
Tonio | Amartuvshin Enkhbat |
Silvio | Vittorio Prato |
Beppe | Matteo Falcier |
Primo contadino | Fabio Tinalli |
Secondo contadino | Giuseppe Ruggiero |
Direttore d'orchestra | Daniel Oren |
Regia | Franco Zeffirelli |
ripresa da | Stefano Trespidi |
Maestro del coro | Ciro Visco |
Scene | Franco Zeffirelli |
Costumi | Raimonda Gaetani |
Luci | Vinicio Cheli |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro di Voci Bianche del Teatro dell'Opera di Roma | |
Scuola di Danza del Teatro dell'Opera di Roma |
In occasione del centenario della nascita di Franco Zeffirelli, il Teatro dell’Opera di Roma ridà vita a un suo spettacolo: si tratta dell’edizione dei Pagliacci che vide la luce per la prima volta proprio all’ex teatro Costanzi, nell’ormai lontano 1992 (31 anni fa), ripresa per l’occasione da Stefano Trespidi.
Franco Zeffirelli. Basta pronunciarne il nome per suscitare entusiasmi e malumori, a seconda dei punti di vista, e per rinfocolare la querelle operistica più partecipata della nostra epoca: lo scontro tra passatisti e modernisti; vale a dire, lo scontro tra gli estimatori delle regie “di tradizione”, o didascaliche, che modifichino tutt’al più di poco la storia originale immaginata dai librettisti, e gli estimatori del “teatro di regia” e delle modifiche che, a volte, risemantizzano non solo singoli versi e scene, ma addirittura intere opere.
Franco Zeffirelli non c’è più, ma i suoi spettacoli continuano a girare per i teatri di tutto il mondo. Immortalati in riprese audiovideo, anche in edizioni molto rinomate, impreziosite dalla presenza di star della lirica degli ultimi decenni, o rubate da videocamere amatoriali, è possibile ricercarne, in un’attività di archeologia contemporanea, gli sviluppi e i ri-arrangiamenti in base al teatro e all’anno di messa in scena. Con Pagliacci, poi, c’è un rapporto molto particolare: Zeffirelli ne creò ben quattro allestimenti differenti, di cui l’ultimo è proprio quello che viene ora riportato in scena a Roma. Operazione molto interessante, giacché questo spettacolo è, al tempo stesso, tra i più “zeffirelliani” e tra i più insoliti per il famoso regista, facendo in qualche modo cadere, o comunque depotenziando, alcuni degli usuali motivi di contrapposizione tra i due partiti.
Lo spettacolo è tra i più zeffirelliani perché il palco è davvero strapieno di persone e roba. Accadono così tante cose, sul palco, che la storia vera e propria, tenendo da parte le sole scene più intime a metà dell’opera, sembra quasi una delle tante controscene che affollano lo spettacolo: pagliacci acrobatici, circensi, giocolieri e mangiafuoco; altre storie d’amore che si snodano tra corteggiamenti più o meno felici e matrimoni; prostituzione; povertà; discriminazione sociale (una persona transessuale che viene per due volte respinta dalla foto matrimoniale, per poi essere paternalisticamente richiamata per uno scatto finale dalla sposa) e chi più ne ha più ne metta. Spettacolo quantomai insolito, per essere zeffirelliano, perché si tratta dell’unica occasione in cui Zeffirelli, contravvenendo a una delle sue prassi ben identificabili, attualizzò l’ambientazione. La vicenda, infatti, si svolge nella piazza di una povera città del meridione italiano, tra palazzi cadenti e un continuo andirivieni brulicante di vita. Zeffirelli stesso spiegò questa scelta in un breve testo che vale la pena riprendere: «Ogni tentativo di rinnovamento arbitrario, di “attualizzazione”, come si suol dire, mi trova assolutamente contrario. Non accetto queste intrusioni di una piccola cultura che pretende di dare una visione nuova di questi grandi capolavori: non ne hanno bisogno. Ho fatto un’eccezione per Pagliacci, che sono l’unica opera che ho realizzato in abiti contemporanei, ambientata oggi, in un certo mondo pittoresco indicato già da Leoncavallo, che infatti voleva realizzare un’opera “moderna”, appunto contemporanea. E così, per una volta, ho attualizzato la vicenda, perché ritengo che tutto ciò sia proprio quello che l’autore voleva.”
Così, la questione si riduce spesso a un gusto personale, giacché nel tipo di spettacoli che ha realizzato, ancora oggi, Zeffirelli si pone come insuperabile punto di riferimento. E bisogna dire che, in questo caso, la stragrande maggioranza del pubblico ha visibilmente apprezzato l’approccio registico, le belle scene curate dallo stesso Zeffirelli, i costumi di Raimonda Gaetani risistemati per l’occasione e le luci di Vinicio Cheli. Applausi alle scene e alla regia, infatti, hanno punteggiato la rappresentazione, sin dalla prima apertura del sipario (al termine del prologo, a scena chiusa), fino ad arrivare al grande parapiglia finale. Del resto, la regia si gioca innegabilmente tutta sulla musica, il legame tra i due elementi è chiaramente visibile: i tavoli che si alzano e abbassano; le evoluzioni degli acrobati e le prodezze dei giocolieri; i calci agli oggetti di scena del piccolo palchetto su cui ha luogo l’esibizione finale; le effusioni tra Nedda e Silvio; il momento in cui Nedda, da sola, riunisce il capannello di bimbi per ascoltarle raccontare la storia degli uccelli migratori. La regia è una miniera di trovate più o meno azzeccate, alcune delle quali riprese anche dai precedenti spettacoli di Zeffirelli sulla stessa opera.
A tale importante elemento di questa serie di rappresentazioni, bisogna aggiungere un buon motivo di interesse sia musicale che canoro: a dirigere lo spettacolo, difatti, è tornato lo stesso direttore che lo tenne a battesimo più di trent’anni fa (con Giuseppe Giacomini, Leo Nucci e Cecilia Gasdia), quel Daniel Oren che mancava al teatro d’opera della capitale da circa 13 anni. E la direzione, complice un’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in buone condizioni, si è lasciata apprezzare: a discapito di qualche leggerissima sfasatura tra buca e palco (ma era la prima, molto probabilmente nel corso delle recite si sistemeranno questi dettagli), il suono “verista”, turgido e canterino, non è mai andato a discapito dei cantanti, consentendone quasi sempre una piena udibilità in tutto il teatro, e i momenti di abbandono lirico sono stati enfatizzati con maestria senza che appesantissero la narrazione, su tutti lo splendido duetto tra Nedda e Silvio. Il teatro e gli artisti, alla fine, gli riservano giustamente un lungo applauso. A completamento della sostanza musicale non si può dimenticare un Coro del Teatro dell’Opera di Roma sempre più protagonista, di spettacolo in spettacolo, e non solo grazie alle cure del nuovo maestro Ciro Visco (che, comunque, si è meritato una bella ovazione finale e grida di approvazione da parte degli artisti coinvolti, a scena ormai chiusa), ma anche in virtù di una partecipazione attiva e ben svolta agli spettacoli nel loro insieme, come in questo caso in cui i coristi si sono ben mossi, inserendosi tra scene e controscene, all’interno della massa brulicante sul palcoscenico.
Anche sul fronte degli interpreti principali, la serata è stata felice. In particolare, grazie a due protagonisti maschili di caratura mondiale. Sulla qualità vocale e sulle capacità tecniche canore di Amartuvshin Enkhbat ormai non c’è più da discutere: godiamocelo, finché canta così. Mette a segno un prologo intenso (eliminati anche i soprattitoli: obbligatorio concentrarsi sul cantante mongolo) e un ottimo duetto con Nedda, per poi giocarsi sul tradizionale la seconda parte, con tutto l’armamentario di falsetti ironici e tragici inscurimenti della voce. Alla fine, viene subissato dagli applausi di un teatro che ormai lo ama. E Brian Jagde non è da meno. Questo ragazzone americano ha mostrato di avere ben più che un aspetto adatto alla parte: dopo l’inizio tiepido, in cui ha sembrato prendere le misure, ha scaldato una voce di tutto rispetto. Potenza, acuti pieni e baldanzosi, buona dizione e ottima recitazione: Jadge ha messo davvero anima e gola in questi Pagliacci, come se attendesse di poter cantare questo ruolo in teatro da tutta la vita. Al punto che, quasi al finire della splendida Recitar!, il “ridi” subito dopo l’acutone sull’amore “infranto” si è spiegazzato per un istante, riacciuffato al volo per i capelli e concluso tra gli applausi istantanei e decisi del pubblico. Ciliegina sulla torta: uno splendido finale, con una magistrale interpretazione di No, Pagliaccio non son! e una corsa mozzafiato nella calca zeffirelliana per pugnalare Nedda.
A fronte di due interpreti di cotanto valore, è apparsa più ordinaria la Nedda di Nino Machaidze, la quale, per quanto riguarda il canto, si destreggia assai bene finché rimane nella parte alta del pentagramma, mentre quando scende sui centri o sulle note più gravi tende a “ingrossare” il suono, con effetti non sempre gradevolissimi, e a scolpire meno chiaramente la dizione. Sul fronte scenico, se la cava abbastanza bene, rendendo in modo convincente sia lo scontro con Tonio che il duetto d’amore con Silvio.
Il Silvio di Vittorio Prato non entusiasma: se dal punto di vista scenico la sicurezza con cui calca il palco e la buona dizione lo rendono un interprete convincente, è la voce a non decollare. Buona prestazione sotto ogni fronte, invece, per il Beppe/Arlecchino di Matteo Falcier con la sua gustosa serenata.
La recensione si riferisce alla prima di domenica 12 marzo 2023.
Michelangelo Pecoraro