Conte d'Almaviva | Ruzil Gatin |
Rosina | Vasilisa Berzhanskaya |
Figaro | Andrzej Filonczyk |
Don Bartolo | Alessandro Corbelli |
Don Basilio | Alex Esposito |
Fiorello | Roberto Lorenzi |
Berta | Patrizia Biccirè |
Ambrogio | Paolo Musio |
Notaio | Pietro Faiella |
Regia | Mario Martone |
Coordinamento tecnico tv | Pasquale Annunziata |
Direttore d'orchestra | Daniele Gatti |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Coro e Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma |
“Tutto è silenzio / nessun qui sta” canta Roberto Lorenzi nei panni di Fiorello, sfilandosi la mascherina protettiva al centro della platea vuota del Teatro dell’Opera di Roma. Anche l’orchestra del teatro e il suo direttore Daniele Gatti sono muniti di mascherina, ma – a differenza dei cantanti e di chi suona strumenti a fiato – non la sfileranno per l’intera durata dell’opera. A inaugurare la nuova stagione operistica romana in tv, non in diretta, c'è Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Ancora una volta, la direzione del teatro coglie un clamoroso successo, uno di quelli di cui si parla non solo in Italia, con oltre 600.000 spettatori che hanno seguito la prima visione su Rai 3.
Fiorello osserva il palco reale, smaniando in platea, in attesa che si affacci la bella Rosina. Grazie alla prospettiva offerta dalla telecamera sul palco, alle spalle del cantante, Gatti sembra duettare con Almaviva. Alla fine della serenata, come di ogni altro numero musicale, il silenzio; ci siamo ormai abituati. Un peccato, specialmente in questa occasione. Gatti dirige benissimo: ouverture decisa, a tratti nervosa; accompagnamento al canto vivace; qualche rubato ben piazzato e qualche accento orchestrale insolito contrastano la sensazione del già noto. Il suono è nitido, pulito, la sincronia delle parti ottima a discapito della difficoltà di dirigere allo stesso tempo l’orchestra in buca, i solisti sul palco e il coro alle spalle, in platea. L’agogica vivace, a tratti spedita, si adatta all’atmosfera dei numeri musicali non disdegnando il ripiegamento lirico, la capacità narrativa encomiabile costruisce degli archi ben tesi e appaganti.
Il suono in presa diretta e le immagini sono curati dagli operatori della Rai: la qualità generale della produzione è considerevole anche sul fronte televisivo. Il coordinamento tecnico è affidato a Pasquale Annunziata: le soluzioni adottate per riprendere, montare e proporre lo spettacolo su Rai 3 si segnalano per intelligenza e funzionalità. L’unica pecca della parte audio è il fatto che, di tanto in tanto, il volume del suono orchestrale copra quello delle voci. Il palco è quasi totalmente sgombro: accanto al Conte che tenta la sua serenata, solo il fortepiano di Antonio Pergolizzi e il violoncello di Andrea Noferini.
Per i titoli di testa bisogna attendere la celebre cavatina di Figaro. Le riprese mostrano l’interprete Andrzej Filonczyk e Gatti che arrivano a teatro, attraversando una “Roma città gialla” (dal colore dell’etichetta sanitaria assegnata al Lazio) molto più libera del solito dal traffico e dai turisti, zigzagando in scooter. Mentre Largo al factotum (cantata molto bene) termina, con un lavoro di montaggio, il celebre barbiere si lascia truccare, vestire ed entra in platea in tempo per iniziare lo scambio di battute “in diretta” con il Conte. L’accompagnamento ai recitativi è ben eseguito, simpatico e piacevole.
La voce da tenore di grazia di Ruzil Gatin si fonde bene con il suono della chitarra e, in generale, si rivela gradevolmente fonogenica e si espande con sicurezza sulle note alte. Le agilità vengono affrontate con allegria, non senza qualche piccolo errore di intonazione. Nel corso del duetto, iniziato con Figaro che fa “ricomparire” orchestra e direttore in buca con un battito di mani, Gatin marca molto (con effetto che personalmente trovo gradevole) le escursioni dinamiche. Il duetto scorre molto bene: il Figaro di Filonczyk, dopo l’ottima cavatina, se la cava benissimo. Sia nel canto che a livello recitativo, gli interpreti mostrano affiatamento e riescono a giocare molto bene con le voci e con le possibilità sceniche offerte dalla sala vuota del teatro. Di ciò, naturalmente, va dato merito soprattutto alla regia (teatrale e televisiva) di Mario Martone.
Dire che il regista abbia lavorato con le inconvenienze teatrali imposte dal contesto mi pare superfluo: il lavoro del regista è anche (o soprattutto) questo. Già molti registi si sono cimentati con l’attuale contesto. Gli approcci sono stati assai differenti: basti pensare agli spettacoli di Michieletto a Roma (il Rigoletto cinematografico al Circo Massimo) o di Ricci a Bergamo (lo straniante Marino Faliero delle scale di ferro), solo per citare un paio di esempi. La questione, quindi, è capire se il lavoro di regia sia riuscito o meno, se l’idea alla base dello spettacolo sia valida e quanto sia riuscita la sua realizzazione. Personalmente, ritengo che questa sia la regia operistica più riuscita di Martone. Meglio delle “Bassaridi” che gli valsero il premio Abbiati quattro anni fa.
Al centro del lavoro registico si trovano non solo le relazioni tra i personaggi e la recitazione degli interpreti, ma il teatro stesso e la crisi sanitaria globale in corso. Temi grandi, apparentemente difficili da trattare in un’opera leggera, eppure trattati con un azzeccatissimo mix di ironia, garbo e malinconia. I costumi di tradizione e la scelta di inserire dei titoli alle varie scene aiutano gli spettatori a seguire lo svolgersi della vicenda, ma la cucina è a vista: Figaro dà un colpo di mani e le costumiste entrano, iniziando a cambiare il Conte “a comando”. Molte persone avranno ammirato per la prima volta, magari, il lavoro di un rumorista, nei “fuori scena” in cui vengono rotti piatti e bicchieri o si bussa al portone.
Un intricato gioco di fili appesi tra la platea e i palchi accompagna l’ingresso di Rosina nella storia. Come tutti i simboli, anche questo si presta a più letture e identifica il “cambio scenico” (“La casa di Bartolo” indica il titolo): può indicare la prigionia di Rosina come quella di tutti noi, può indicare la selva di regole da rispettare per provare a proporre un lavoro artistico in questo periodo, può indicare i destini dei personaggi e i nostri…
Rosina inizia a seguire i fili, come se si trovasse nell’antro delle Moire. Si ferma di tanto in tanto, sedendosi per riflettere cantando. Poi si alza di scatto, pensando alle “cento trappole” che tenterà di mettere in atto “prima di cedere”. Vasilisa Berzhanskaya è una notevole Rosina. Il mordente, la voce, la tecnica canora, l’aspetto e anche un discreto livello di capacità recitativa ci sono. Una voce poco fa si lascia seguire con piacere.
Alessandro Corbelli entra sul palco in carrozzina e con il collare, un Bartolo incattivito e fortemente limitato nei movimenti fisici (altro personaggio-simbolo del periodo che stiamo vivendo). Una lezione vivente di recitar cantando. Così come Alex Esposito nei panni di Basilio. Il recitativo dei due sembra quasi un passaggio di testimone tra grandi: i due volti-maschera uno accanto all’altro, uno sulla carrozzina e l’altro su una sedia. Cospirano insieme, prima della celebre calunnia. Bella l’aria, ottima la prestazione di Esposito che come un ragno tesse la sua tela, muovendo la mano sui fili mentre canta ed esplodendo in modo liberatorio di fronte alla sala vuota.
Il duetto Figaro-Rosina è splendido. Alcune belle inquadrature dall’alto della sala mostrano l’intricato gioco dei fili bianchi sulle poltrone rosse. Il teatro, dicevamo, è al centro della narrazione; non solo l’edificio, ma le persone che lo incarnano e lo agiscono: ecco allora che una proposta di per sé non molto avvincente né originale, come quella di far seguire Rosina per la sala da due cameriere-costumiste in mascherina e occhiali, inserita nell’orizzonte di significato di uno spettacolo coerente acquista tutt’altro sapore. Un momento riuscitissimo è l’a parte di Figaro rivolto alla telecamera, mentre la Berzhanskaya trasforma le agilità del duetto nei sospiri e nei languori di una donna innamorata e decisa.
A un dottor della mia sorte impegna Corbelli, che saggiamente non rischia troppo e si lascia aiutare da Gatti e dalla lunga esperienza, giocando molto con l’interpretazione e la parola scenica. Su “Signorina un’altra volta quando Bartolo andrà fuori” in un paio di occasioni cede al sadico sillabato, ma gli rimane il fiato per un acuto conclusivo tenuto.
L’intero finale dell’atto primo è cantato sul palco, ma lo sguardo si fa spazio tra i fili attaccati ovunque. Delizioso l’attacco di “Freddo ed immobile”. Su “Mi par d’esser con la testa / in un’orrida fucina” vengono mostrate delle vecchie riprese dell’Istituto LUCE che mostrano il teatro assiepato di persone in abiti eleganti: la sala di ingresso, la platea, tutto pieno, uomini e donne accalcati e felici. Le celebrità fanno passerella, i giornalisti si affollano intorno.
Posizionandolo dietro al maestro Gatti, Martone trasforma il Conte in un maestro di canto doppiamente finto. Bella la ripresa frontale di Gatti con Gatin alle spalle. Le controscene con Corbelli mezzo appisolato che sottolinea l’ovvietà musicale di alcuni passaggi e con il Conte che fa la parte del maestro “emotional” sono esilaranti, il canto di Vasilisa Berzhanskaya è coinvolgente, le agilità rapide e gustose, e Gatin tiene un bell’acuto nel suo intervento.
La scena con Don Basilio (“Buonasera”) diventa “la commedia del Covid”. Un bel modo, a mio avviso, di giocare con un tema delicato come quello delle attuali misure di contenimento del virus e, più in generale, con il tema della malattia e della paura della morte. Metti la mascherina, togli la mascherina. Una luce gialla ammorba il volto di Esposito che rimane perfettamente a metà tra il basito e il dubbioso. Anche Gatti si presta alla rappresentazione, misurando la temperatura al povero Basilio con un pistola-misura-temperatura. L’effetto-caos rossiniano, dal “Bricconi, birbanti!”, viene perseguito in modo semplice ma d’effetto, alternando le camere che inquadrano il palco con le riprese dalla steady che si muove sul fondo palco, in una zona d’ombra da cui i personaggi entrano ed escono, seguendone i movimenti frenetici. Assecondando il crescendo, tutti si spostano in platea, correndo e spingendo la carrozzina di Don Basilio (che tenta di difendersi a calci) in giro tra le file vuote di poltrone.
Buona la prova di Patrizia Biccirè nei panni di Berta, che oltre a spingere la carrozzina di Don Basilio è incaricata delle pulizie del teatro, per non dimenticare davvero nessuna delle parti che consentono ai teatri di funzionare.
La tempesta, trasformata in tempesta dell’animo di Rosina che piange disperata in platea, consente a Martone di mostrare macchina del vento, lamiere sbattute e tutto ciò che viene usato per simulare i suoni del temporale. Questo toglie musicalmente qualcosa alla scena; d’altro canto, le dona un certo fascino. Rossini e Gatti, comunque, si prendono la scena.
“Oh qual colpo” e il terzetto filano via gustosi. Si giunge quindi al finale. Qui, con un bel colpo di teatro, tutti i fili vengono tagliati (alla pari dell’aria di Almaviva) in un gesto finale liberatorio e simbolico. A dare il via, ovviamente, è Figaro, che prima si fa anche un giretto “dietro le quinte”, seguito dall’occhio della telecamera, per donare un’inquadratura davvero a tutte le maestranze. Tutti si uniscono al taglio, compresi alcuni degli orchestrali, appena posati gli strumenti. La conclusione perfetta per un’opera corale, per un bel frutto di questo periodo di limitazioni, con la sigla di Martone e Gatti. Non si sente alcun applauso conclusivo, ma tra le voci in sala si distingue chiaramente quella del direttore che risponde ai complimenti: “Grazie, grazie…”.
La recensione si riferisce alla trasmissione su Rai 3 di sabato 5 dicembre 2020.
Michelangelo Pecoraro