Ernani | Francesco Meli |
Don Carlo | Ludovic Tézier |
Giovanni Meoni | |
Don Ruy Gomez de Silva | Eugeny Stavinsky |
Elvira | Angela Meade |
Anastasia Bartoli | |
Giovanna | Marianna Mappa |
Don Riccardo | Rodrigo Ortiz |
Jago | Alessandro Della Morte |
Direttore d'orchestra | Marco Armiliato |
Regia, Scene e Costumi | Hugo de Ana |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Luci | Vinicio Cheli |
riprese da | Valerio Alfieri |
Movimenti mimici | Michele Cosentino |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma |
Sono passati quasi nove anni da quel novembre del 2013 in cui Riccardo Muti, all’epoca direttore musicale stabile del Teatro dell’Opera di Roma, diresse l’Ernani verdiano nell’allestimento di Hugo de Ana. Lo stesso allestimento e la stessa regia che abbiamo potuto nuovamente ammirare in questi giorni. Eppure, il tempo sembra aver lasciato i propri segni: se non nell’allestimento in sé, nel nostro modo di vederlo. Di acqua sotto ai ponti ne è passata, in questo decennio.
I costumi rimangono la cosa più bella, a livello visivo: davvero ricchi ed evocativi, a tratti assurgono al rango di elementi simbolico narrativi, come nella scena dell’incoronazione di Carlo. Le scene, di certo opulente, questa volta non mi hanno trasmesso la stessa sensazione fascinosa del primo impatto: alla lunga, l’ammasso quasi alla rinfusa di rovine, mura e frammenti di interior design castellano dà l’idea di un horror vacui scenografico che si accompagna a una minima validità drammatica. Lo stesso discorso vale per la scarsa partecipazione del coro e dei personaggi secondari: in una drammaturgia già di per sé non particolarmente movimentata, come quella di Ernani, far rimanere fermo il coro sul palco per la maggior parte del tempo non aiuta il pubblico meno partecipe dal punto di vista esclusivamente musicale a godersi l’opera. E così anche per la cura interpretativa dei protagonisti: qualche piccolo gesto evocativo ed efficace, qua e là, come il far scorrere la sabbia tra le dita di Carlo durante la sua aria del terzo atto, oppure il metter mano alla spada sempre da parte di Carlo al sentire Elvira parlare del “fiero sangue d’Aragona” che le scorre nelle vene, non sembra sufficiente a delineare una narrazione coinvolgente ed emozionante.
L’aspetto positivo di una regia quasi didascalica come questa, di solito, è che aiuta gli spettatori che non conoscono la storia a comprenderne per bene lo svolgimento e i punti di snodo principali. Quando però ci si allontana dalle didascalie, pur in un assetto tradizionalistico, si rischia di non facilitare la comprensione e, allo stesso tempo, di annoiare. Faccio solo un esempio: nella grande scena dell’incoronazione, quando Carlo intima ai nobili di dividersi dal volgo, si vorrebbe vedere sul palco del movimento da parte dei nobili, per separarsi dai villani nel tentativo di salvarsi la vita; per questo le frasi successive di Carlo suonano come un colpo di scena (“il volgo” in prigione, mentre ai nobili, contrariamente alle aspettative, addirittura “la scure”, cioè la condanna a morte) e per questo la reazione di Ernani suscita entusiasmo (il bandito si rivela come nobile aragonese nel momento in cui tale rivelazione può causargli solo del male, anziché dei vantaggi, sottolineando in questo modo il temperamento eroico del personaggio e la coerenza rispetto allo sprezzo per la morte). Se il coro e i personaggi si dividono nel momento in cui Carlo entra in scena e poi non si muovono più, in una sorta di quadro vivente, tutto lo splendido scambio di battute risulta difficilmente comprensibile e taglia le gambe all’effetto drammatico. Perché non seguire i suggerimenti di musica e libretto, in uno spettacolo che si vuole “di tradizione”? Rispetto ai dubbi sollevati da uno spettacolo come questo, un allestimento davvero tradizionale e senza dubbio più riuscito è quello allestito da Alessandro Talevi per la Tosca che dal 2015 non cessa di fare il tutto esaurito o quasi a Roma: quando le didascalie sono davvero rispettate, soprattutto quelle di grande impatto drammatico, l’effetto finale di uno spettacolo didascalico risulta inevitabilmente più convincente.
La parte musicale si attesta su di un buon livello, con alcune punte di eccellenza e qualche zona d’ombra.
La direzione di Marco Armiliato è senza dubbio di valore: il direttore conosce la partitura, l’ha già diretta anche in templi sacri dell’opera come il Metropolitan di New York, e ha le sue idee in merito allo stile musicale da ricercare. Nell’intervista inserita nel libretto di sala, ci dà qualche indizio: «Per descrivere la struttura di Ernani mi affido spesso a un’immagine in cui la scrittura orchestrale si sviluppa lungo una direttrice verticale, utilizzando ritmi e accenti ben marcati e definiti; il canto procede invece lungo una linea orizzontale, un filo quasi ininterrotto di melodie di grande bellezza […]. Il contrasto tra questa scrittura ‘verticale’ e il tracciato orizzontale della linea canora crea un effetto meraviglioso». E ancora: «È proprio con l’Ernani che si definisce il passaggio dalle armoniose melodie di Bellini e Donizetti all’incrocio fra linea vocale e ritmo incalzante dell’orchestra, che in Ernani ci accompagna continuamente», «se da un lato non si deve mai abbandonare la scansione decisa della linea ritmica bisogna anche impegnarsi nel controllo delle dinamiche, per non mettere mai in difficoltà i cantanti».
Come spesso capita, non in tutta l’opera si è riscontrata una precisa corrispondenza tra le impegnative dichiarazioni e le effettive scelte e realizzazioni musicali. Su alcuni siti si legge che Armiliato avrebbe diretto l’opera “completa”, ma questo non è vero: sono stati apportati alcuni tagli, pur se tradizionali, come la cabaletta della cavatina di Silva, Infin che un brando vindice. A fronte di alcuni tagli, il direttore ha scelto di mantenere il da capo in alcuni punti che, però, hanno messo in qualche difficoltà i cantanti. Per esempio, la cabaletta sulla cavatina del tenore, in cui Francesco Meli ha mostrato difficoltà vocali in entrambe le recite cui ho partecipato sulle ultime note acute. In altri momenti, il volume orchestrale ha reso complicato ad alcuni interpreti lasciarsi udire (in un paio di occasioni il povero Silva ha dato l’impressione di boccheggiare senza più molto fiato, e anche Meli nei concertati non è stato sempre ben udibile). In altri momenti, la verve che dovrebbe sprizzare da alcune pagine ha lasciato spazio a un “vorrei ma non posso”. Questo, va detto, soprattutto a causa di una prestazione non proprio eccezionale dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma. Quest’ultimo, in particolare, da tempo in rotta di collisione con il maestro Roberto Gabbiani, ha approcciato in modo eccessivamente blando alcuni momenti, come il celeberrimo Si ridesti il leon di Castiglia e la celebrazione in vista delle nozze del secondo atto.
Venendo ai cantanti protagonisti, Francesco Meli porta a casa una prestazione di alto livello e riceve il giusto plauso del pubblico. Eppure, complici alcune imperfezioni, la memoria di chi era presente nel 2013 non può esimersi dal confronto, constatando che alla maggiore esperienza non si è accompagnata, in questo caso, una prestazione vocale all’altezza di così bel ricordo. Qualche fatica in più sugli acuti, qualche problema in più a lasciarsi udire durante i concertati, a fronte di un trasporto magari anche maggiore in un paio di scene cruciali, tra cui di certo il terzetto finale e l’apostrofe riuscitissima Oro, quant’oro ogn’avido. In uno dei due cast, poi, il povero Meli deve riuscire a districarsi tra le poderose voci di due colleghi, Angela Meade e Ludovic Tézier. Se la prima non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le numerose insidie vocali del ruolo, lasciando gran parte del pubblico a bocca aperta a partire dalla spinosa cavatina, è anche vero che dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio calzante e coinvolgente né una recitazione affascinante: si limita a spostare sulle assi del palco la sua enorme e ben controllata voce. Al melomane va benissimo, un po’ meno allo spettatore che vorrebbe emozionarsi. Ludovic Tézier, invece, è al momento probabilmente il miglior Carlo a livello mondiale e in competizione con i migliori Carlo di cui la storia interpretativa abbia memoria: la voce è potente e ben controllata, come quella della Meade, ma c’è anche un notevole scavo sul fraseggio e un possesso del ruolo a ogni livello, compreso quello recitativo. Vederlo e sentirlo in scena, da un certo punto di vista, valeva il prezzo del biglietto. Riceve il più grande applauso a scena aperta della serata, in seguito al suo splendido O de’ verd’anni miei.
L’amalgama vocale, di certo, ha funzionato meglio con il secondo cast, visto che le voci erano di volumi più rapportabili. Anastasia Bartoli ha cantato e recitato assai bene, con dovizia di fioriture vocali e di dettagli interpretativi interessanti, pur possedendo un tonnellaggio vocale di certo inferiore a quello della Meade, e lo stesso può dirsi per il Carlo riflessivo e quasi posato di Giovanni Meoni. Entrambi hanno reso più umani i propri personaggi e sono riusciti a creare dei momenti di insieme più riusciti, grazie a una fusione più equilibrata delle voci con quella di Meli.
In entrambi i cast, poi, Silva è stato interpretato dal basso russo Eugeny Stavinsky che ha avuto momenti buoni e altri meno buoni. In generale, la voce non troppo scura e potente l’ha messo in difficoltà nei concertati, ma l’interpretazione e il fraseggio convincenti, per quanto non particolarmente originali, e la bellezza del timbro gli hanno consentito di uscirne in modo intelligente e gradevole, tratteggiando un personaggio tutto sommato riuscito e in grado di coinvolgere il pubblico ed emozionare.
Menzione d’onore per i comprimari, tutti usciti dalla “cantera” del Teatro dell’Opera di Roma, cioè il progetto Fabbrica – Young Artist Program. Niente male la Giovanna di Marianna Mappa e lo Jago di Alessandro Della Morte, decisamente valido l’apporto di Rodrigo Ortiz nei panni di Don Riccardo.
La recensione si basa sulle recite di martedì 7 e giovedì 9 giugno 2022.
Michelangelo Pecoraro