Dionysus | Ladislav Elgr |
Pentheus | Russel Braun |
Cadmus | Mark S. Doss |
Tiresias | Erin Caves |
Capitano delle guardie reali | Andrew Schroeder |
Agave | Veronica Simeoni |
Autonoe | Sara Hershkowitz |
Beroe | Sara Fulgoni |
Regia | Mario Martone |
Scene | Sergio Tramonti |
Costumi | Ursula Patzak |
Luci | Pasquale Mari |
Movimenti coreografici | Raffaella Giordano |
Direttore | Alexander Briger |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma |
Lo spirito della tragedia greca rivive al Teatro dell'Opera di Roma, grazie al sontuoso allestimento che inaugura la stagione 2015/2016. Complimenti al direttore artistico Alessio Vlad e al sovrintendente Carlo Fuortes che hanno portato sul palco della capitale un capolavoro raramente rappresentato (in Italia finora solo una volta, alla Scala nel 1968, con direzione di Nino Sanzogno), insistendo scientemente in un'operazione di allargamento degli orizzonti artistici che potrebbe destare le ire di una larga fetta di spettatori, saldamente ancorata alle opere del grande repertorio ottocentesco italiano.
Per la terza volta consecutiva, un'opera del pieno Novecento: dopo I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky di John Adams, “song play” del 1995, ottimamente messa in scena a settembre, e Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (“Ascesa e caduta della città di Mahagonny”), opera del 1930 con musiche di Kurt Weill e libretto di Bertolt Brecht, messa in scena a ottobre con l'ottima regia di Graham Vick e con una parte musicale non del tutto riuscita, è ora il turno di The Bassarids di Hans Werner Henze, opera nata quasi a metà tra le due precedenti, dato che venne rappresentata per la prima volta a Salisburgo nel 1966, in traduzione tedesca.
Come se non bastasse, il rapporto di Roma con Henze non è mai decollato: lo stesso Vlad ha ricordato gli episodi di contestazione nella stagione 1953-54, con l'allestimento di Boulevard Solitude, e le accese litigate scoppiate tra sostenitori e contestatori. Anche questa volta, al termine della recita del primo dicembre, alcuni portatori di fischietto hanno dato sfogo alla propria disapprovazione, trovando nel fiacco applauso del pubblico e in qualche convinto “Bravi!” un non eccessivo contraltare.
Il mondo dell'opera vive di forti contrasti. A volte, gli autori manifestano apertamente le proprie preferenze, nel libretto o nella musica; più spesso, le interazioni dei personaggi vengono presentate da prospettive privilegiate che, in qualche modo, spingono gli spettatori a schierarsi per una tra le parti in causa. Una delle più interessanti caratteristiche de Le Baccanti, invece, ultima tragedia di Euripide, riscritta per Henze dai librettisti Wystan Hugh Auden e Chester Kallman, è proprio quella di non fornire agli spettatori chiavi interpretative univoche o preferenziali. Il “rompicapo” delle baccanti, come titolò un famoso saggio del 1908 il grecista Gilbert Norwood, ha fatto incrociare a lungo le spade della filologia, ma già nel 1943 l'uscita di una celebre edizione dell'opera commentata da Eric Dodds segnò un deciso passo avanti verso l'elusione del finto problema: per chi fa il tifo Euripide? Per il razionale Penteo, in odore di ateismo, oppressore delle minoranze “non allineate”, o per Dioniso, divinità dai tratti molteplici, orgiastici e, dalla prospettiva di un governatore come Penteo, destabilizzanti? Nessun personaggio, a detta di Dodds, può essere considerato come la corretta espressione del pensiero dell'autore. Inoltre «è un errore chiedersi cosa Euripide stia cercando di “dimostrare”. In tutte le sue opere maggiori egli si preoccupa non di dimostrare qualcosa, ma di allargare la nostra sensibilità».
In The Bassarids, tuttavia, Auden e Kulman sembrano prendere posizione in favore di Penteo: alla fine dell'opera Dioniso sfoga il proprio desiderio di vendetta, ordinando al capo delle guardie di bruciare la dimora del nemico sconfitto, e Penteo viene presentato quasi come un asceta, come un intellettuale illuminista “che abbia visitato la Ionia e studiato presso uno di quei filosofi”. Mario Martone, con il lavoro di regia, coadiuvato dalle scene di Sergio Tramonti e dalle luci di Pasquale Mari, sottolinea ancor di più questa dicotomia e la selva di parallelismi e tratti speculari che si intrecciano nell'opera: un gigantesco specchio, opaco, vecchio e affumicato ai lati, rappresenta la facciata del palazzo reale di Tebe; un espediente di certo non nuovo, ma che trova in quest'opera un uso del tutto consono, grazie alle molteplici rispondenze testuali. Lo specchio-facciata si inclinerà, durante il terremoto, e così inclinato mostrerà la dimensione sotterranea e orgiastica nella quale si compiranno i rituali dionisiaci. Al centro del palco, un obelisco con fiamma accesa sul sepolcro di Semele; la fiamma verrà spenta dallo sdegnoso Penteo, al suo arrivo nel palazzo, e riaccesa per l'apoteosi finale dello stesso Dioniso, assieme alla madre. I costumi di Ursula Patzak rispettano le originarie prescrizioni degli autori per la prima assoluta, per cui accanto a personaggi vestiti con fogge antiche, si sono ammirate divise degli esponenti di governi militari, come Cadmo, e altro ancora, in una prospettiva che mostra come contrapposizioni del genere possano trovarsi indifferentemente in luoghi ed epoche diverse (e il pensiero corre, in vari punti, a contemporanei problemi politico-religiosi).
Le comparse e il coro vengono divisi: da un lato i cittadini di Tebe, fin troppo statici, pronti a farsi ipnotizzare dal richiamo dei baccanali, dall'altro le menadi scatenate, succinte o nude, con corna ritorte e brame sanguinarie (lo smembramento di Penteo avverrà in scena e Agave terrà in mano, a lungo, una testa ben realizzata e grondante sangue). La scelta di trasformare il monte Citerone in un luogo sotterraneo (sotto a un metaforico tappeto polveroso), inoltre, contribuisce a determinare la lettura delle accompagnatrici di Dioniso (e quindi della divinità stessa) come di entità “infere” o, per dirla in termini più diffusi nel nostro contesto culturale, “sataniche”. Il rischio di appiattimento è dietro l'angolo, dunque, anche se Martone ha dichiarato, in conferenza stampa, di avere avuto come obiettivo la dimostrazione che semplificare, cosa che amiamo tanto fare con i problemi globali dai quali siamo sollecitati ogni giorno, non sempre è possibile. Grandioso spettacolo di indubbio effetto visivo, insomma, concettualmente riuscito solo a metà.
Ottimo il lavoro del direttore ungherese naturalizzato austriaco Stefan Soltesz. Il lungo periodo di prove ha dato i suoi frutti e l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma, allargata a causa della ricca strumentazione richiesta e occupante persino i piccoli palchi posti di lato alla buca, ha dato buona prova di sé. Per l'intera rappresentazione, priva di intervallo, è stato mantenuto un arco sonoro drammatico in grado di far risaltare la tensione spirituale, oltre che musicale, presente in molte pagine della partitura. Nonostante la giusta energia impressa ai musicisti nei momenti più concitati, inoltre, gli interventi di fiati e percussioni “orientalizzanti”, come i bongos, sono emersi dal fitto tessuto orchestrale, fin troppo carico di implicazioni drammatiche: gli stili musicali associati ai differenti personaggi, soprattutto Penteo e Dioniso, hanno lottato tra loro, fino alla vittoria finale dei suoni “barbari” con il trionfo di Dioniso. Bene la prova del Coro dell'Opera di Roma, chiamato a una prestazione impegnativa anche sul piano interpretativo e recitativo, grazie allo splendido lavoro del maestro Roberto Gabbiani.
Sul fronte dei cantanti-attori, bisogna registrare in primis le ottime prove del baritono Russel Braun nei panni di Penteo e del mezzosoprano Veronica Simeoni in quelli di Agave, sua madre. Braun, dotato di uno strumento vocale lirico, in grado di rinforzarsi nei momenti di maggior tensione drammatica, è stato chiamato a uno sforzo supplementare: Martone immagina che l'intero finale (o, forse, l'intero dramma?) sia frutto della mente di Penteo, appoggiando tale interpretazione sul delirio/visione alla fine del terzo movimento (I looked into eyes), svolto con grande abilità canora e recitativa; dunque, per l'intero quarto movimento, Penteo si aggira sul palco con espressione di atroce sofferenza, un “urlo senza parole che è anche il nostro”, come spiega il regista sul programma di sala. Anche la Simeoni, di ritorno a Roma dopo l'ottima prova nel Werther di gennaio, mostra di saper dominare vocalmente il ruolo, ma soprattutto il palco, con una presenza scenica polarizzante: il momento in cui si rende conto di tenere in mano la testa del figlio, anziché quella di un leoncino, come immaginava, è da brividi e rimarrà scolpito a lungo nella memoria dei presenti.
Buona prova anche per Ladislav Elgr, nel ruolo di Dioniso, presentato come seduttore in abiti orientaleggianti, molto svestito in virtù di un fisico slanciato, dalla voce tenorile affascinante e delicata cui Elgr riesce a unire un fraseggio ipnotico e del tutto adatto al personaggio. Bellissima la scena finale dell'apoteosi con la madre Semele, uscita dal loculo posto sotto la fiamma. Peccato per un paio di problemi nella salita all'acuto in momenti cruciali, come lo smembramento di Penteo: probabilmente il cantante ha chiesto troppo al proprio strumento, per superare il potente muro sonoro innalzato dall'orchestra.
Ben interpretato il Cadmo del basso Mark S. Doss, chiamato fin dall'inizio a dar voce ai dubbi sulla realtà divina dello straniero che, poi, si rivelerà come Dioniso: il fraseggio e l'interpretazione risultano del tutto convincenti, con qualche piccolo neo nel canto. Più di qualche neo, invece, per il tenore Erin Caves nel ruolo del cieco veggente Tiresia: il timbro chiaro non ha trovato in un canto ruvido e nervoso la giusta valorizzazione. Gradita invece la presenza di Sara Fulgoni che si inserisce bene nella compagnia, nei panni della nutrice Beroe, e porta a casa un'ottima scena con Elgr/Dioniso, pregandolo di risparmiare Penteo (Spare him, Dionysus). Validi anche il baritono Andrew Schroeder come capitano delle guardie (personaggio creato da Auden e Kallman per mettere in mostra il desiderio represso di Agave, vedova troppo precoce) e Sara Hershkowitz nei panni di Autonoe, sorella di Agave, che mette in mostra un buon materiale vocale e un physique du rôle adatto alla sensuale messa in scena.
La recensione è basata sulla recita del 1° Dicembre 2015
Michelangelo Pecoraro