Jakub Jósef Orliński è programmato per piacere. All’inizio come per caso, quando era il controtenore in bermuda e sneakers che su You Tube cantava Vivaldi a Aix-en-Provence, un long seller che ha superato gli undici milioni di visualizzazioni in questi giorni. Da lì una carriera clamorosa per un cantante barocco molto mediatico, ma con fondamento. Primo controtenore a far parte della cerimonia olimpica, ballava la sua breakdance mentre cantava Rameau nel silenzio dei telecronisti italiani, poco documentati e forse un po’ basiti, che non sapevano da che parte prenderlo. Ha una discografia molto ricca, contrassegnata da copertine in cui appare in primi piani suggestivi e titoli lapidari.
Si racconta molto nel social media, sempre in giro per il mondo da uno spettacolo all’altro. È indubbiamente un fenomeno sorprendente, soprattutto perché il suo repertorio si basa più sulle rarità che sulle hit del genere. Non è certo il tipo che canta “Ombra mai fu”. Preferisce i recital che ricava dai suoi album, ma è impegnato anche in produzioni teatrali di valore. Sa cantare, ha presenza scenica, è bello, accattivante, acrobata, elegante e così via. Di sicuro riempie i teatri: a Ravenna il pubblico strabordava.
Ha presentato un programma dedicato interamente al Seicento italiano, accompagnato da Il Pomo d’Oro, ensemble con cui collabora da vari anni, ma questa volta senza direttore e si è avvertita la mancanza. Nel precedente concerto italiano di Bologna era presente alla direzione Francesco Corti, con esiti ben più convincenti.
L’antologia proposta da Orliński comprendeva arie da opere e da altre raccolte, brevi e senza un apparente filo conduttore, con prevalenza di amori infelici. Monteverdi in apertura con una scena di Ottone dall’Incoronazione di Poppea, e poi Cavalli, Caccini, Barbara Strozzi uniti ad altri compositori meno noti. L’intento dichiarato di Orliński è di proporre un piccolo show con movimenti in sala, cambi d’abito, trovate che smuovano dalla staticità del concerto di canto. Per questo è apparso dalla platea con una lunga veste/vestaglia nera di raso con effetto tra magico e ieratico. In raso nero anche l’orchestra, però con effetto pigiama. Si è spostato molto su e giù dal palco con qualche ricaduta avversa sulla proiezione della voce che in generale è apparsa meno brillante del solito, non sempre a fuoco negli acuti, con meno spessore nelle note centrali.
Anche l’interpretazione ha lasciato qualche dubbio, le arie si sono susseguite senza carattere, con un lavoro non proprio di fino sulla parola, in genere eccellente. Le intenzioni, gli affetti, gli umori sono evaporati in una correttezza formale ma monocorde. In due dei tanti bis concessi sono emerse finalmente le sue qualità di interprete in “Lunghissima face” di Francesco Cavalli e con “Chi scherza con l’amor scherza col fuoco” di Giovanni Antonio Boretti, in cui finalmente abbiamo ritrovato quella dolcezza di emissione e l’abbandono alle ragioni della melodia che lo contraddistinguono.
Teatro stipato e pubblico entusiasta, con festeggiamenti e bis durati a lungo.
La recensione si riferisce al concerto del 17 novembre 2024.
Daniela Goldoni