Turandot | Ewa Plonka |
Calaf | Martin Muehle |
Liù | Juliana Grigoryan |
Timur | Giorgi Manoshvili |
Ping | Alessio Arduini |
Pong/Principe di Persia | Matteo Mezzaro |
Pang | Blagoj Nacoski |
Mandarino | Luciano Roberti |
Altoum | Cristiano Olivieri |
Prima ancella | Gabriella Barresi |
Seconda ancella | Lorena Scarlata |
Direttore | Carlo Goldstein |
Regia | Alessandro Talevi |
Scene e costumi | Anna Bonomelli |
Luci | Marco Giusti |
Maestro d'armi | Ran Arthur Braun |
Maestro del Coro | Salvatore Punturo |
Coro, Coro di voci biance e Orchestra del Teatro Massimo | |
Nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo |
Le celebrazioni per l’anno pucciniano volgono al termine così come si avvia alla conclusione la stagione corrente del Teatro Massimo. Rimane in calendario l’Elisabetta Regina d’Inghilterra che suggellerà infatti il passaggio dal programma 2023 – 2024 al prossimo, ultimo atto del felice sodalizio tra il direttore musicale Omer Meir Wellber e la fondazione lirica.
Inutile interrogarsi oggi sui vertici che nel futuro prossimo guideranno la massima istituzione culturale cittadina, piuttosto ritorniamo all’omaggio in due tempi a Giacomo Puccini che lo stesso Wellber aveva iniziato lo scorso febbraio con Madama Butterfly, proseguito ora con una nuova produzione di Turandot firmata da Alessandro Talevi in regia e Carlo Goldstein sul podio.
L’aspetto visivo che Talevi ha ideato insieme ad Anna Bonomelli, scenografa e costumista dell’allestimento, rifugge da facili cineserie. Ci presenta vaghi rimandi ad un orientalismo atemporale nel quale i tre ministri vestono abiti della contemporaneità caratterizzati da colori sgargianti senza però una precisa collocazione geografica. Ciò che è subito chiaro è invece la definizione di regime totalitario nel quale il sia pur fragile imperatore regna sovrano, quasi si trattasse di entità superiore il cui braccio armato è costituito da armigeri simili ai guerrieri dell’esercito di terracotta e dalla sua stessa figlia. Turandot è così vista come mero strumento della volontà affievolita del tiranno, vittima anch’essa di violenze che ne hanno segnato l’infanzia, l’adolescenza e la consapevolezza di giovane e vendicativa donna.
La fiera principessa di gelo narra dell’ava Lo-u-Ling mentre tre figuranti si alternano sul palcoscenico, una bambina e poi una fanciulla dalla veste insanguinata fino all’apoteosi finale nella quale Liù appare trasfigurata sublimando così il suo sacrificio e diventando ella stessa anello di congiunzione con la storia di Turandot.
Il concetto è di sicuro affascinante e non banale ma non è immediatamente leggibile per lo spettatore che, a meno che non sia piuttosto vicino al palcoscenico, difficilmente riuscirà a cogliere l’immagine di Liù nella figura adornata di corona dell’ultima scena. Di certo Talevi sembra aver concentrato le maggiori energie sull’idea di fondo e sul ruolo eponimo trascurando invece gli altri personaggi. Il coro stesso, entità ben definita nella drammaturgia dell’opera, è qui imprigionato e compresso in due vasche rettangolari che costituiscono parte integrante della scena fissa. L’alta pedana che le contiene separa infatti l’azione dallo spazio di chi osserva, nel quale trovano posto ora Calaf, accovacciato al boccascena mentre il Mandarino rammenta al popolo la crudele legge legata alla soluzione degli enigmi, ora Liù insieme a Timur.
In sé i movimenti sono fluidi e lo spazio ben amministrato ma avremmo fatto a meno di vedere il solito Altoum barcollante, più simile al nonno che al padre di Turandot.
Sulla carta il maggiore motivo d’interesse dello spettacolo era nondimeno il finale I di Alfano che, al lordo dei tagli imposti da Toscanini, continua ad essere poco presente nelle innumerevoli produzioni che si susseguono nei teatri pur avendo una sua coerenza narrativa oltre che orchestrazione degnissima.
L’annosa questione finale I o finale II, sospensione della recita alla trenodia del coro e all’ultima nota dell’ottavino di certo non ha soluzione univoca perché legata indissolubilmente all’idea registica e alla lettura musicale che si intende dare. Ciò che nella calda serata palermitana è emerso, al di là di una geometrica scansione di ingressi e uscite, è la concertazione roboante e violenta di Goldstein nella quale forti suggestioni straussiane (che pure sono ben presenti in partitura) snaturano il dettame pucciniano. L’orchestra sembra faticare non poco nel seguire gli impulsi provenienti dal podio poichè le agogiche prescelte impongono un ritmo costantemente lanciato all’inseguimento di chissà cosa nascondendo l’inesauribile ricchezza timbrica e i raffinati impasti che l’ampio organico dovrebbe evidenziare. Il vigore eccessivo fa sì che il tellurico finale primo copra ineluttabilmente le voci costrette per tutta la serata a lottare contro un muro orchestrale difficilmente perforabile ancorchè poco omogeneo.
Anche il coro patisce questa impostazione e non appare particolarmente ispirato con scollamenti tra buca e palco in sinergia con il resto del cast. Sia l’invocazione alla luna che la trenodia sulle ultime misure interamente composte da Puccini scivolano via senza pathos, il tempo non si ferma, la poesia semplicemente non la si percepisce.
In questo contesto il Calaf di Martin Muehle può solo oscillare tra il forte e il mezzo forte, inutile tentare arditi fraseggi o sottigliezze che comunque non si sentirebbero. Dunque la prestazione è muscolare, senza cedimenti pur con un passaggio laborioso ma alla fine redditizio. Il tenore non ha timbro baciato dagli dei ma può contare su centri robusti e un buon volume oltre ad una efficace gestione del mezzo vocale che gli consente di arrivare al finale I di Alfano con riserve sufficienti per sostenere le onerose frasi conclusive.
Accanto a lui Ewa Plonka padroneggia l’impervia tessitura con voce ampia e di sicuro tonnellaggio. La sua è una Turandot ferita ma decisa a non mostrarne la fragilità ed è l’unica a riuscire a perforare il muro orchestrale. Gli acuti sono sfrontati e lanciati con estrema facilità, più che nell’esordio dell’atto secondo è la scena degli enigmi che ne caratterizza la prova, mentre nulla può contro un tappeto sonoro per nulla soffice e languente nell’interazione con Liù.
Non è infatti la prima volta che la piccola schiava esce vincitrice dal confronto con la principessa. Sarà la crudeltà apparente della protagonista, o più semplicemente il lirismo meditativo che è interamente connaturato alla parte dell’innamorata non corrisposta, certo è che anche qui a Palermo Liù non è solo bontà e poesia ma donna volitiva e caparbia che affida l’afflato appassionato al canto rotondo di Juliana Grigoryan, unica a lavorare sulle dinamiche e dai buoni filati.
Giorgi Manoshvili è un Timur dalla linea ferma e dalle pregevoli intenzioni dolenti quali si convengono al re dal passo malfermo, e anche i tre ministri Alessio Arduini, Ping, Matteo Mezzaro, Pong e Blagoj Nacoski Pang, apportano il loro ottimo contributo allo spettacolo.
Completano il cast, per un livello complessivo omogeneo, il Mandarino di Luciano Roberti, l’Altoum di Cristiano Olivieri e le ancelle Gabriella Barresi e Lorena Scarlata.
In conclusione il pubblico è sembrato apprezzare lo spettacolo pur senza grandi punte di entusiasmo. Lasciamo dunque il Novecento ricco di suggestioni e di contaminazioni per tuffarci nella temperie rossiniana e in attesa dell’inaugurazione della nuova stagione con la prima esecuzione palermitana, sia pure nella versione in lingua inglese, de Le grand macabre di Ligeti.
La recensione si riferisce alla prima del 21 Settembre 2024.
Caterina De Simone