Otello | Gustavo Porta |
Desdemona | Julianna Di Giacomo |
Jago | Giovanni Meoni |
Cassio | Giuseppe Varano |
Lodovico | Manrico Signorini |
Montano | Maurizio Lo Piccolo |
Emilia | Anna Malavasi |
Roderigo | Pietro Picone |
Araldo | Riccardo Schirò |
Direttore | Renato Palumbo |
Regia | Henning Brockhaus |
Scene | Nicola Rubertelli |
Costumi | Patricia Toffolutti |
Luci | Alessandro Carletti |
Movimenti mimici | Jean Méningue |
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo | |
Maestro del coro | Piero Monti |
Maestro del coro di voci bianche | Salvatore Punturo |
Nuovo Allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Teatro San Carlo di Napoli |
Dopo quindici anni, al Teatro Massimo di Palermo, torna l’Otello di Verdi, ultimo dramma lirico del compositore bussetano composto nel 1887 per La Scala e sicuramente quello in cui si registra nel linguaggio verdiano la più grande innovazione drammaturgica e musicale. In coproduzione col Teatro San Carlo di Napoli, lo spettacolo rispecchia la trama dell’opera fatta di luci ed ombre.
La regia di Henning Brockhaus pone il suo centro sulla presenza costante della morte, sia come premonizione sia come presenza reale. È innegabile che il matrimonio di Desdemona e Otello rappresenti l’inizio della fine. Coerente in questo senso l’inizio dell’opera, dove l’intera scena è coperta da un particolare del trittico del “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch. La grande tela la quale, fra i molteplici significati simbolici che le vengono attribuiti ha anche quello di una felicità eterna, viene strappata da Jago, ovvero dal personaggio che decreta l’inizio della tragedia. Il macabro è sempre presente in scena e tocca il culmine già alla fine del primo atto, durante il duetto d’amore fra Otello e Desdemona frammentato dai gesti dei cantanti impegnati a raccogliere i cadaveri dei musulmani uccisi da Otello che, trascinati al centro della scena e coperti da un velo bianco, diventano il talamo nuziale dove i due si adagiano. Questa scelta risulta essere infelice non tanto per l’aspetto necrofilo ma per la mancanza totale di adesione a ciò che la musica porta in scena, ovvero un momento di altissima intensità, dalla quale i cantanti risultano assenti. Ugualmente superflua e poco coerente anche la rottura di una statua della Madonna durante il “Credo” di Jago: un gesto in più rispetto a ciò che in quel momento è necessario vedere. Questo è un po’ quello che durante tutta l’opera si percepisce: da una parte scelte che riescono davvero a dar forza allo spettacolo (come Otello travolto da un corteo di personaggi grotteschi che rappresentano la gelosia come “un’idra fosca, livida, cieca” dopo il colloquio con Jago), dall’altra delle forzature che distraggono continuamente e rimangono spesso isolate o irrisolte. La cifra stilistica di Brockhaus è sostenuta dalle scene di Nicola Rubertelli e delle luci di Alessandro Carletti che descrivono ambienti cupi ma ricchi; su questo sfondo tetro postbellico e atemporale si stagliano i costumi di Patricia Toffolutti realizzati con stoffe preziose in stile rinascimentale che riportano lo spettatore all'epoca originale del libretto.
Fra queste luci e ombre anche la direzione di Renato Palumbo sul podio dell'Orchestra del Massimo, intensa in molti passaggi, come nel coro del primo atto (davvero buona la prestazione del Coro diretto da Piero Monti). Poco convincente invece il coro del secondo atto (“Dove guardi splendono”): al carattere popolaresco che dovrebbe caratterizzare questo passaggio, Palumbo preferisce un tempo più lento e meno incisivo, facendo perdere quel clima di festa che in questa scena dovrebbe prevalere anche per la presenza di strumenti come il mandolino e le chitarre nell’orchestra fuori scena. Nel finale del secondo atto, si presenta la stessa mancanza di intensità e scavo nel duetto di Otello e Jago “Sì, pe ciel marmoreo giuro!”.
Una delle “luci” del cast è sicuramente Giovanni Meoni nel ruolo di Jago, affrontato con timbro pieno e brillante, con dizione chiara e grande potenza di voce. Il suo “Credo” è irresistibile e non può lasciare indifferenti; in ogni scena, passaggio o frase, Meoni è sempre puntuale e conclude la performance senza sbavature.
Altra “luce” meno brillante, ma sicuramente splendente, è la Desdemona di Julianna Di Giacomo: la sua voce ha un timbro dolce ed è emessa con morbidezza, l’“Ave Maria” è uno dei momenti più intensi di tutto lo spettacolo e il pubblico le dedica calorosi applausi.
In “ombra” invece l’Otello di Gustavo Porta, ma non certo per il trucco da moro: per un tenore Otello è certamente un ruolo impervio sotto ogni punto di vista e sono pochi coloro che lo hanno saputo affrontare senza subire critiche. Se nel registro centrale la sua voce può trovare maggiore espressività (come nel terzo atto, “Dio mi potevi scagliar”), nel registro acuto invece perde spessore, tendendo a schiacciare tutti gli acuti. Nella ricerca della giusta intonazione Porta tende inoltre a variare la dizione, modificando quasi tutte le vocali.
Nota positiva per Giuseppe Vario (Cassio) e Anna Malavasi (Emilia). Bene anche Manrico Signorini, Maurizio Lo Piccolo, e Pietro Picone nei ruoli di Lodovico, Montano e Roderigo.
Al termine di uno spettacolo che mancava da tanti anni sulla scena palermitana, gli spettatori hanno tributato applausi, seppur non entusiasti, sia ai cantanti che a tutto il resto del cast, senza far eccezioni.
Walter Vitale