Elisabetta | Nino Machaidze (25/10) |
Aya Wakizono (24/10) | |
Leicester | Enea Scala (25/10) |
Mert Süngü (24/10) | |
Norfolc | Ruzil Gatin (25/10) |
Alasdair Kent (24/10) | |
Matilde | Salome Jicia (25/10) |
Veronica Marini (24/10) | |
Enrico | Rosa Bove |
Guglielmo | Francesco Lucii |
Direttore | Antonino Fogliani |
Regia | Davide Livermore |
Assistente alla regia | Sax Nicosia |
Scene | Giò Forma |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Costumista collaboratrice | Anna Verde |
Luci | Nicolas Bovey |
Videodesign | D-Wok |
Assistente direttore musicale | Nicola Pascoli |
Maestro del Coro | Salvatore Punturo |
Coro e Orchestra del Teatro Massimo di Palermo | |
Allestimento del Rossini Opera Festival e del Teatro Massimo di Palermo |
Elisabetta, regina d’Inghilterra era andata in scena al Teatro Massimo di Palermo per la prima (e unica) volta nel 1971 con Leyla Gencer nel ruolo della protagonista, diretta da Gianandrea Gavazzeni; torna oggi a chiudere la stagione 2024.
L’opera ha un ruolo importante all’interno della produzione di Gioachino Rossini: sancisce infatti sia la collaborazione con il Teatro San Carlo di Napoli, ma anche il suo legame con la sua musa ispiratrice (e, successivamente, sua compagna nella vita), Isabella Colbran, per la vocalità della quale plasmerà la figura di Elisabetta e che sarà la prima protagonista di tantissimi dei suoi capolavori.
Ascoltando Elisabetta si ha la sensazione “di aver già sentito” i temi musicali che si susseguono nel corso della vicenda: in effetti, l’opera è piena di autoimprestiti (tecnica diffusissima all’epoca, vista la continua richiesta da parte dei teatri di titoli nuovi), ma nel caso di Rossini, non si tratta soltanto di una soluzione legata all’incessante produzione di pagine nuove, è proprio una scelta compositiva: la musica evoca situazioni, non le descrive pertanto una melodia può essere riutilizzata a fini drammaturgici; se aggiungiamo il fatto che a Napoli non avevano sentito neanche una nota delle sue opere precedenti, è comprensibile la scelta di scrivere soltanto un duetto ex novo (quello tra Norfolc e Leicester posto prima del finale), recuperando invece temi dal Sigismondo, Il Turco in Italia, Ciro in Babilonia e, soprattutto, Aureliano in Palmira, da cui riprende anche la sinfonia che utilizzerà, pochi mesi dopo, ne Il Barbiere di Siviglia. Ed è fin dalla sinfonia che il direttore, Antonino Fogliani, fa suonare l’Orchestra del Teatro Massimo con grande energia, mettendo in risalto i momenti drammatici, soprattutto accompagnando le svariate sfaccettature dei sentimenti provati dalla regina, senza perdere il controllo dei solisti e del Coro (ben preparato da Salvatore Punturo); Fogliani è estremamente attento alla cura delle dinamiche, elargendo numerosi passaggi in piano (ad esempio, durante il finale primo atto) e regalando momenti di estrema solennità, primo fra tutti il finale dell’opera che rimanda alle conclusioni delle cantate celebrative.
L'opera nasce per celebrare l’onomastico del principe ereditario di Napoli, per questo non è casuale la scelta di un soggetto tratto da un romanzo gotico che omaggia la monarchia britannica, alleata dei Borboni contro Napoleone; la trama consente inoltre a Rossini di celebrare le virtù di un sovrano illuminato, capace di anteporre le priorità dello Stato ai suoi sentimenti, governando con determinazione e clemenza.
A mio parere la cronaca degli ultimi decenni ci ha presentato un esempio di monarca che ha esercitato il suo potere con enorme rispetto della corona e del suo popolo: Elisabetta II.
Ed è proprio a questo iconico personaggio (e all’immagine che ne ha diffuso il mondo cinematografico con titoli come The Queen o la fortunatissima serie TV The Crown) che si ispira la regia di Davide Livermore, ambientando l’opera nell’Inghilterra degli anni ‘50, in un palazzo di vetro (le cui scene sono state curate da Giò Forma) colpito dai bombardamenti della fine della Seconda Guerra Mondiale (che sostituisce quindi la guerra contro la Scozia). Sulla scena domina assolutamente il bianco delle pareti, dei mobili, del vestito della regina nel suo primo ingresso in scena. A contrastare questo candore, sullo sfondo si susseguono le proiezioni di D-Wok: lì prevale il nero del fumo delle bombe, gli aerei, il rosso, durante il secondo atto, simbolo del sangue provocato dalla condanna imposta a Leicester, Matilde ed Enrico, ma anche della passione che brucia in Elisabetta per l’uomo che non potrà mai avere. Ogni tanto compare la sagoma di un cervo bianco che campeggia già durante la sinfonia, ma ritorna alle spalle della regina durante i suoi momenti più difficili, forse a simboleggiare un desiderio di ritorno a un mondo naturale e semplice, privo delle costrizioni che il Palazzo impone. Una regia per nulla statica, in cui l’andirivieni di cameriere e maggiordomi movimenta costantemente la scena, dominata per tutto il tempo dallo sfarzo, dai colori pastello degli eleganti costumi del coro di Gianluca Falaschi, dalle tiare sfavillanti e dalla preziosità dei costumi della regina.
Ad affrontare il ruolo della regnante sono state due cantanti dalla diversa vocalità, il cui risultato è stato in entrambi i cast soddisfacente. La protagonista del cast alternativo, Aya Wakizono, è impeccabile per l’intera serata: il mezzosoprano giapponese si muove con disinvoltura sia scenicamente sia vocalmente, ha un ottimo controllo del fiato e agilità accuratissime (senza mai però risultare meccaniche). Il timbro brunito la aiuta a definire l’autorevolezza della regina, ma la brillantezza della tessitura acuta fa sì che il pubblico mostri grande entusiasmo dinanzi alle sue colorature. Il primo cast offre invece la possibilità di ascoltare il modo in cui uno dei soprani più noti a livello internazionale incarna il ruolo della regina divisa tra la sua posizione politica e il suo cuore. L’esperienza emanata da Nino Machaidze fin dalla cavatina - un discorso radiofonico rivolto al popolo inglese - delinea una donna che mostra la sua autorevolezza anche semplicemente stando seduta; la sua gestualità, mai eccessiva, ma sempre eloquente si accosta a una sicura gestione del suo strumento: un timbro morbido e corposo ricco di sfaccettature, come del resto è il personaggio che la Machaidze realizza sul palco; è Elisabetta regina, ma anche Elisabetta donna innamorata, pervasa dal desiderio di vendetta, ma capace di anteporre il bene al suo desiderio personale. Ne viene fuori un personaggio complesso che trova degna conclusione nel toccante cantabile finale “Bell’alme generose”.
Ad insinuare il germe della gelosia è Norfolc: nel ruolo del "lontano parente di Jago" si alternano Ruzil Gatin e Alasdair Kent. Il primo è un tenore dalla voce squillante, molto sicuro nelle agilità e nel registro acuto. Sebbene risulti leggermente ingessato nei recitativi (che quindi non scorrono del tutto fluidi), è un Norfolc sufficientemente mellifluo in taluni passaggi (come il duetto con Elisabetta, reso scenicamente attraverso una telefonata con la regina, o anche il duetto del secondo atto con Leicester) e spietato durante l’aria del secondo atto, intonata dinanzi allo sfondo di un incendio che devasta la città di Londra e seguita da una grande ovazione del pubblico.
Alasdair Kent, nel cast alternativo, risolve discretamente le difficoltà del ruolo di Norfolc, nonostante un inizio un po’ traballante, con qualche sbavatura nelle agilità della scena introduttiva col coro, dove tende, in alcuni momenti, ad essere inghiottito dall’orchestra; sfrutta però una buona presenza scenica che lo favorisce soprattutto nel secondo atto, dove lascia trasparire un maggiore spessore drammatico e sfodera acuti sicuri e colorature ben controllate.
Colui che fa vacillare la fermezza di Elisabetta è Leicester, il generale che ha condotto l’esercito alla vittoria contro la Scozia - che qui arriva con un aereo della Royal Air Force. Mert Süngü, nel cast alternativo, è un tenore dal piglio eroico che si impone facilmente sull’orchestra e si destreggia con sicurezza nei vari momenti dell’opera. Accanto alla Machaidze invece Enea Scala interpreta l’oggetto del desiderio della monarca. Il tenore siciliano dal timbro caldo e affascinante è un Leicester appassionato, talvolta sfrontato, ma anche innamorato che rivolge toni dolci alla sua sposa durante il duetto del primo atto; nei tempi veloci, Scala assume un carattere battagliero, consentendogli quindi di mostrare i diversi aspetti di un personaggio complesso la cui performance culmina nella splendida scena del carcere, eseguita con trasporto e disperazione.
A completare il cast il preciso Francesco Lucii nel ruolo di Guglielmo, la convincente Rosa Bove, che veste i panni di Enrico (en travesti), fratello di Matilde, interpretata da Salome Jicia nel primo cast e Veronica Marini (nel cast alternativo). Entrambi i soprani si destreggiano con maestria nel ruolo dell’amorevole e determinata moglie di Leicester. Salome Jicia, la cui vocalità è più lirica e massiccia, emoziona nella commovente cavatina del primo atto; Veronica Marini, soprano un po’ più leggero, colpisce per la precisione nelle colorature ma anche per il fraseggio carezzevole, in particolare nel duetto con la regina.
Matilde, doppiamente nemica di Elisabetta, in quanto figlia della sua acerrima nemica, Maria Stuarda, ma anche sposa dell’uomo che ama, è un personaggio chiave nella vicenda e come Norfolc semina nella protagonista la brama di vendetta; così Matilde la mette dinanzi alla scelta più ardua, il dovere o l’amore. E il sovrano illuminato, come quello celebrato da Rossini nel 1815 ma anche come Elisabetta II, non si lascia scalfire, resta fermo nella sua integrità, impegnato ad amministrare la giustizia con determinazione e clemenza.
La trasposizione quasi cinematografica dell’opera è stata accolta calorosamente dal pubblico palermitano che non ha risparmiato fragorosi applausi anche ai cantanti di entrambi i cast
La recensione si riferisce alle recita del 24 e del 25 ottobre 2024.
Federica Faldetta