La madre (Mahler e Dallapiccola) |
Katarzyna Otczyk |
Il Prigioniero | Bruno Taddia |
Il Carceriere Il Grande Inquisitore |
Stefano Secco |
Due Sacerdoti | Xin Zhang Giulio Iermini |
Direttore | Marco Angius |
Organo | Sebastiano Franz |
Regia del suono | Matteo Costa |
Maestro del coro | Lorenzo Donati |
Orchestra di Padova e del Veneto | |
Coro UT, Insieme Vocale-Consonante | |
Programma | |
Gustav Mahler | Kindertotenlieder |
Luigi Dallapiccola | Il prigoniero |
Si spengono, accolte da un cortese applauso, le brevi parole della signora assessore alla Cultura del comune di Padova, che dedicano il concerto alla «celebrazione della ricorrenza internazionale del Giorno della Memoria». Si apre il sipario rosso: le sole tenui luci dei leggíi lasciano intravedere dietro un velario il direttore, l'orchestra e la solista di canto; nel silenzio sorpreso e assoluto della sala si leva piano, sfinito, il motivo klagend (“dolente”) dell’oboe contrappuntato dal primo corno che apre il piú celebre ciclo liederistico di Gustav Mahler.
Coevi alle tre sinfonie puramente strumentali successive alla Quarta, i Kindertotenlieder risalgono ai primi anni del secolo scorso. Il compositore boemo ne scelse i testi da sei poesie tra le quattrocento quarantotto scritte verso il 1835 da Friedrich Rückert dopo la tragica morte dei suoi due bambini. Ne musicò quattro lasciandole inalterate, e in quella centrale del ciclo (Wenn dein Mütterlein) ne fuse due. Rispetto alle vastissime compagini orchestrali che usò quasi sempre, Mahler sembra qui ricercare sonorità cameristiche, rinunziando in particolare a trombe, tromboni e tube e a gran parte delle predilette percussioni. Per questo concerto l’eccellentissima Orchestra di Padova e del Veneto compare con soli venti archi e anche questo ne facilita l’equilibrio perfetto con i fiati.
Dopo poche battute, la voce del mezzosoprano italo polacco Katarzyna Otczyk canta desolata il prossimo sorgere luminoso del sole “come se nella notte non fosse accaduta alcuna disgrazia”. L’emozione è fortissima, i non molti e brevi scostamenti della dinamica dal piano o dal pianissimo non caricano mai il tessuto musicale di concitazione impropria. Marco Angius, da un decennio Direttore artistico e musicale dell’orchestra patavina, rende ai segni della partitura tutta la loro profonda tragicità; senza indulgere in inutili sottolineature lascia “cantare” gl’interventi spesso brevissimi di legni e corni. La Otczyk è sempre composta anche quando è chiamata ad esprimere il dolore piú intenso, il timbro ricco, le prese di fiato impercettibili. Usualmente considerato il climax dell’indivisibile ciclo, l’attacco dell’ultimo pezzo, In diesem Wetter, desta ammirazione per il rispetto assoluto delle dinamiche contenutissime e delle parole Con espressione piena di dolore e senza pace che Mahler usa per definire l’agogica del pezzo. La timbrica e il fraseggio divengono un unicum che evita ogni caratterizzazione descrittiva, ma illumina di fioco lume l’intensità insostenibile della memoria.
Il re maggiore delle pagine finali (Lento, come una ninna nanna) svanisce rassegnato ma senza pace nella lunga pausa di silenzio voluta dall’autore, prima che un brevissimo accenno d’applauso sia immediatamente troncato dall’attacco perentorio del Prigioniero di Luigi Dallapiccola, simultaneo all’alzarsi rapido del velario e al ritorno dell’illuminazione normale del palcoscenico. Come scrisse Massimo Mila, la sequenza dei tre accordi che apre la partitura «con l’urto stridente delle sue dissonanze interne» conduce «subito al grado esasperato di tensione che è proprio di tutta l’opera». La cantante non si è mossa e il «sogno premonitore» dell’imminente perdita del figlio segna una continuità non solo ideale con i canti di Mahler appena ascoltati: le due guerre mondiali che li separano dal Prigioniero hanno tramutato una tragedia personale in quella dell’umanità.
L’idea d’un lavoro per il teatro basato su La torture par l’esperance di Villiers de L’Isle-Adam prese corpo nella fantasia di Dallapiccola tra il 1939 e l’anno successivo; ma, scrisse egli in séguito, solo «il 10 gennaio del 1944 mi apparve con sufficiente chiarezza la prima idea musicale, quella che dà vita all’Aria in tre strofe (“sull’Oceano, sulla Schelda”) che costituisce il centro dell’opera e nella quale intravidi molte possibilità di trasformazione … La partitura d’orchestra fu ultimata il 3 maggio 1948». Per quest’esecuzione oratoriale è stata utilizzata la “versione per orchestra ridotta” firmata dall’autore sei mesi dopo la prima esecuzione assoluta.
La fortuna del titolo deve molto al grande direttore Hermann Scherchen. Racconta il compositore: «A Zurigo, nell’autunno 1948, un tardo pomeriggio gli feci sentire al pianoforte Il Prigioniero, da poco terminato. Gli ultimi suoni si perdevano ancora nell’aria quando udii la voce del Maestro: “Voglio risentire tutta l’opera”. “Quando? – domandai – Dopo cena?” “No; subito”». In capo a un anno il maestro berlinese diresse a Torino un’esecuzione oratoriale trasmessa dalla RAI, ma appena si sparse la voce che Il Prigioniero avrebbe raggiunto il teatro, scrive ancora Dallapiccola, «si sollevò un’ondata di proteste: proteste che provenivano da circoli musicali locali, contrari a me e alla contestata e allora temutissima dodecafonia (di cui i detti circoli locali non sapevano che il nome): ma, oltre che ragioni cosiddette musicali, le proteste avevano anche ragioni politiche. I comunisti, che avevano la coda di paglia, temevano che ogni denuncia contro la dittatura potesse venir riferita all’URSS allora dominata da Stalin; i criptofascisti (perché allora nessuno osava dichiararsi tale) sapevano che, nello scrivere l’Opera, ero stato spinto dall’odio per la dittatura fascista; i cattolici (o sedicenti tali) vi vedevano soltanto un attacco alla Chiesa, attraverso l’Inquisizione di Spagna». Il sovrintendente del Maggio musicale fiorentino «incaricò uno scenografo di preparare le scene, raccomandandogli caldamente che non vi si vedesse nessun riferimento all’epoca, né abbigliamenti ecclesiastici»; un conoscente dell’autore, interrogato ad hoc, tranquillizzò «un grosso personaggio ministeriale» (d’incontestato acume, ancorché oggi molto discusso) dicendogli: «Lo incontro tutte le domeniche alla Messa con la sua bambina». E cosí si giunse, oltre due anni dopo il completamento della partitura, alla prima esecuzione scenica, anch’essa diretta da Scherchen. Tra gli altri, recensí la création il musicologo Andrea Della Corte, che non apprezzò la musica ma onestamente registrò il successo «caloroso e incontrastato» dello spettacolo, successo che portò a una sicura e costante diffusione del titolo, forse anche piú all’estero che in Italia. Chi scrive vide il Prigioniero per la prima volta al Festival d’Edimburgo nel 1969, in uno spettacolo ospite del Maggio fiorentino, insieme con le Sette parole di Malipiero, e soprattutto ne ricorda l’inserimento nella “stagione celebrativa dei quattrocento anni dell’opera italiana” dell’autunno 2000 al Coliseum di Londra, a coronamento d’un memorabile spettacolo diretto da Richard Hickox, dopo i Folksongs di Berio e la Strada di Rota: quadro variegato e attraente della nostra recente identità musicale. Altri abbinamenti interessanti furono con Edipo re di Leoncavallo a Torino e Il castello del duca Barbablú a Milano, ma direi che quello con i Kindertotenlieder sveli affinità particolarmente profonde, ben descritte anche nel programma di sala firmato dallo stesso maestro Angius e soprattutto esaltate dalla sua concertazione e direzione.
A fianco di Katarzyna Otczyk, non meno efficace, sicura e convincente che in Mahler, il protagonista dell’opera è stato Bruno Taddia, che dopo le interpretazioni maiuscole di Jakob Lenz a Torre del Lago e di Polimèstore a Vicenza (mi limito a quelle che ebbi l’onore di recensire) ha offerto un’altra splendida prova della sua collaborazione artistica con Angius. Il baritono pavese ha saputo rendere piena ragione all’originario motivo ispiratore dell’opera, “la tortura per mezzo della speranza”, l’illusione di chi non vuol credere che la fine sia prossima e che prova felicità al pensiero che il persecutore si ravveda. L’emissione è sempre precisissima e convincente, la dinamica controllata in ogni sfumatura; come Angius dal podio, Taddia sa rinunziare a ogni esibizione della potenza vocale che possiede, ma che sarebbe qui interpretativamente impropria.
Non meno impressionante è stato il tenore Stefano Secco nei ruoli del Carceriere e del Grande Inquisitore. La melliflua ambiguità di questo doppio personaggio è stata resa con spavalda sicurezza vocale, ma anche con la capacità timbrica d’esprimere una sottile ipocrisia, quasi un desiderio di vendicarsi della constatazione che la propria vittima sta “dalla parte della ragione”. L’indubbia bellezza di suono sfoggiata dal tenore milanese non è mai giunta a nascondere all’ascoltatore il carattere fallace delle sue affermazioni, ma ben si capisce che potesse illudere il Prigioniero.
Il dialogo tra i due Sacerdoti che fingono di non accorgersi della fuga è stato reso con assoluta correttezza e grande presenza vocale dal tenore Xin Zhang e dal basso-baritono Giulio Iermini, entrambi allievi della Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna, che cantavano dai due palchi di proscenio del primo ordine.
Per superare le difficoltà d’udire distintamente un coro che canta quasi sempre sottovoce e fuori scena, lo stesso Dallapiccola aveva richiesto l’uso dell’amplificazione. Il “regista del suono” Matteo Costa ha realizzato con grande sensibilità musicale il compito non facile di differenziare nel modo piú opportuno timbrica e dinamica dell'UT, Insieme Vocale-Consonante, diretto da Lorenzo Donati (le due iniziali sono quelle di UTopía).
Non esito a dire che reputo questo di Padova uno dei concerti migliori che abbia mai ascoltato dal 1956 a oggi. Gl’interpreti preparati e condotti da Marco Angius hanno portato in piena luce la classicità delle due composizioni eseguite, intesa sia «nel senso di una riconoscibilità immediata di certi loro profili timbrici e oggetti-configurazione che ne costituiscono la matrice prima» (secondo le parole usate dallo stesso Angius nel suo recentissimo libro Logiche del comporre), sia in quello ormai tradizionale formulato da Thomas S. Eliot, di capacità di rappresentare e comunicare concetti universali: riconoscibilità oggettiva, dunque, che si combina con quella soggettiva descritta dal direttore di questo spettacolo.
Il pubblico presente ha accolto con grandissimi e prolungati applausi l’esecuzione, o meglio la ri-creazione di queste musiche. Non era, purtroppo, molto numeroso, ma sta alla tenacia degl’interpreti migliori realizzare l’osservazione marxiana dei Grundrisse, che ancora Angius pone a epigrafe del libro appena pubblicato: «l’oggetto artistico crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico … la produzione non conduce soltanto a un oggetto per il soggetto, ma anche a un soggetto per l’oggetto». Sebbene oggi, in un mondo di “consumismo dimostrativo”, tutto questo possa sembrare mera fantasia, esistono per fortuna artisti che ne sono convinti e sanno farcelo sentire.
(La recensione si riferisce al concerto del 30 gennaio 2025).
Vittorio Mascherpa