Francesco Foscari | Placido Domingo |
Jacopo Foscari | Francesco Meli |
Lucrezia Contarini | Anna Pirozzi |
Jacopo Loredano | Alexander Vinogradov |
Barbarigo | Giuseppe Tommaso |
Pisana | Erika Beretti |
Direttore | Massimo Zanetti |
Maestro del Coro | Stefano Visconti |
Coro dell'Opera di Montecarlo | |
Orchestra Filarmonica di Montecarlo | |
Versione in forma di concerto |
Passare in pochi giorni da un Otello fiorentino a I due Foscari monegaschi significa percorrere a ritroso il repertorio verdiano per tornare indietro di una trentina di anni. Ma sembra un secolo.
Verdi, si sa, da giovane subì una vera e propria pressione causatagli dalle umili origini che lo costringevano a cercare nel successo e nella sicurezza economica la propria emancipazione. Furono appunto gli anni della “galera”, che vennero di lì a poco, furono gli anni in cui gli insegnamenti di Bellini e Donizetti gli fecero da schema per la costruzione di opere sempre più calate nel melodramma italiano di cui fu il più grande compositore e, con Otello e Falstaff, l’uccisore.
Anche a causa di una forma concerto, in cui i solisti andavano e venivano a seconda della scena e l’orchestra era, come d’uopo, disposta sul palcoscenico alle spalle di questi, che più che un’opera concerto mi trovo a commentare un concerto d’opera. Poco vale che sul palcoscenico si siano eseguiti I due Foscari, sesta opera verdiana e vero capolavoro, i numeri chiusi coi relativi e immancabili applausi hanno fatto piombare il teatro in quel clima da concerto che di certo non vale il titolo che meriterebbe certo molto di più.
Montecarlo ci ha dimostrato comunque sia, e una volta di più, che organizzando bene le cose, disponendo il pubblico correttamente, si possono tenere in uno spazio adeguato come il Grimaldi Forum, più d’un migliaio di spettatori, e coro e orchestrali al sicuro e ben distanziati, con buona pace del ministro Franceschini, evidentemente ignaro di ciò.
Frammentato come detto, il concerto s’è svolto con una tensione inesistente ma con una partecipazione commovente. C’è, per Placido Domingo la più sincera delle gratitudini. In teatro il figlio Placido e la moglie Marta, la sala ha tributato a lui gli applausi più calorosi senza tralasciare però i dovuti omaggi a chi l’opera ha cercato di tenerla insieme.
Francesco Meli, reduce dal contagio Covid di qualche settimana fa, ha interpretato un Jacopo Foscari di straordinaria eleganza. Partito un po’ in surplace, si è sciolto solo dopo l’applauso interminabile che ha seguito il duetto del secondo atto "No, non morrai". Da lì è andato libero in una delle interpretazioni più convincenti degli ultimi anni. Mezze voci e acuti sciolti, se non è emerso il personaggio certamente è emerso il cantante raffinato e dotato che Meli si è confermato anno dopo anno.
Magnifica ci è parsa anche Anna Pirozzi, Lucrezia, che si è distinta maggiormente nei momenti in cui più ha controllato la sua enorme voce. Ė nei piano, nei filati, che ha dimostrato di essere cantante di rara intelligenza. Dotata di un mezzo dalla straordinaria potenza, è anche l’unica riuscita a tenere testa alla scatenata orchestra che gli vomitava dietro un cono dalle sonorità impressionanti.
Di Domingo doge che c’è ancora da dire? Certo che la presenza dello spartito l’ha favorito, ma non abbastanza dal non confondere le battute. Il direttore pure lo accudiva come un bambino. Ma un bambino in stato di flebile esaltazione, che è riuscito ancora una volta a emergere come il principale personaggio della serata. Ha scandito la parola con qualche difficoltà ma le sue intenzioni erano sempre chiarissime: interpretare col canto il dolore di un padre che è a cospetto con una responsabilità intollerabile e finisce per condannare il figlio all’esilio che gli sarà fatale. E nessuno era più consapevole di questo quanto Placido Domingo, in presenza anche di un Francesco Meli a cui, pur nelle tante differenze, consegna lui il testimone ideale di tenore degli anni 2000.
Alexander Vinogradov, Loredano, svolge il suo ruolo nel migliore dei modi, portando la sua voce grave al servizio del dramma. Canta divinamente, intona come pochi ed è perfettamente funzionale al disegno delle voci che Verdi pensava per questa tragedia lirica in tre atti.
Buoni i contributi di Giuseppe Tommaso, Barbarigo, tenore ancor leggero e di Erika Beretti, Pisana, che presenta una voce già importante e levigata pronta per ruoli più sostanziosi.
Ultimo ma non per protagonismo, il direttore Massimo Zanetti, che dirige Orchestra e Coro, preparato da Stefano Visconti, con un piglio da conduttore di programma sinfonico. Non che non cerchi sottigliezze anche dinamiche, ma è incapace di trovare quell’equilibrio particolare che un’Orchestra sinfonica di sessanta elementi deve avere, dispiegata su un palcoscenico, davanti a un Coro, che ne è infatti la prima vittima, e in corrispondenza con un’opera di bel canto dell’Ottocentoquarantaquattro. Zanetti rasenta i fortissimi della Nona di Beethoven, stordisce quando chiede il pieno suono alla sua Orchestra, rischia di coprire pure la voce della Lucrezia Contarini di Anna Pirozzi.
La notizia felice è che le voci, proiettatissime e timbrate, superano, almeno per un po’, questo muro e arrivano alla platea, senza il Coro, rimasto dietro e senza musica, trasformata spesso in frastuono. Diamogli una buca!
La recensione si riferisce alla prima del 5 dicembre 2020.
David Toschi