Klangforum Wien | |
Neue Vocalsolisten Stuttgart | |
Direttore | Tito Ceccherini |
Pianoforte | Maurizio Pollini |
PROGRAMMA | |
Salvatore Sciarrino | n. 10, 11 e 12 da Carnaval (Lasciar vibrare, Stanze della pioggia, Liuto senza corde) |
Claude Debussy | Primo libro dei Preludi |
Entra nel vivo il “Progetto Pollini”, che il grande pianista milanese ha ideato col Teatro alla Scala per avvicinare il (purtroppo spesso provinciale) pubblico della sua città a cinque grandi autori della contemporaneità. La promessa della sua interpretazione delle ultime sonate di Beethoven fa da “miele” lucreziano per addolcire l’amaro ma salutare assenzio delle dissonanze del secondo Novecento. Encomiabile l’intenzione del progetto, purtroppo legato a doppio filo all’età elevata dei suoi protagonisti, che fanno ciò che possono per essere gli araldi di un “nuovo” che è in realtà già il passato. Paradossi d’oggi. Il primo appuntamento, nell’ottobre scorso, era nato sotto il segno del novantenne Pierre Boulez, purtroppo assente sul podio per ragioni di salute. Stasera, per la seconda tappa, il compositore selezionato è Salvatore Sciarrino, che non è mancato, pur non uscendo per gli applausi. A defezionare (parzialmente) questa volta è stato invece il settantaduenne Pollini, che ha dovuto rinunciare alle due sonate beethoveniane previste (l’op.101 e soprattutto l’op.106 “Hammerklavier”) sostituendole col primo libro dei Préludes di Debussy. Difficile immaginare ragioni diverse da quelle di una scelta di prudenza, peraltro assennata, dato l’affaticamento già evidente nel primo concerto del ciclo. La testa funziona ancora alla perfezione e le mani rispondono con sapienza, mediando con esperienza quei passaggi che gli anni renderebbero difficoltosi, pur tuttavia la resistenza sul lungo corso resta uno scoglio non accerchiabile. Quando poi si parla della Hammerklavier, sonata di quasi quaranta minuti e di incredibile intensità (con tanto di fiaccante fuga finale), lo scoglio è un faraglione. Gli aforismi di Debussy, di gran lunga meno muscolari, permettono un maggior agio e, in ultima analisi, anche maggiori gradi di libertà per concentrarsi sull’interpretazione di qualità.
Prima di gustare il piatto forte, la serata presenta dunque nel primo tempo gli ultimi tre dei dodici pezzi di Carnaval, di Salvatore Sciarrino, forse il più celebre fra i compositori nostrani. Tanti i suoi successi raccolti all’estero quanta la fatica a destare eguale entusiasmo in patria. L’impressione anche fra il pubblico della Scala è quella di un dazio da pagare, nonostante l’orchestra da camera Klangforum Wien renda onore all’impegno, eseguendo con precisione impeccabile la partitura, che per la sua rarefazione richiede ai musicisti estrema attenzione. Anche il direttore Tito Ceccherini, altro araldo della musica contemporanea, ha ovviamente i suoi meriti nell’accuratezza degli attacchi e nella resa cameristica d’assieme: oltre ai 10 strumentisti sono richiesti infatti 5 cantanti (i Neue Vocalsolisten Stuttgart) ed un pianoforte solista (il figlio illustre Daniele Pollini). Questa squadra è la stessa che l’anno scorso, a Lucerna, ha dato vita alla prima mondiale di questi tre pezzi, che vengono oggi invece presentati per la prima volta al pubblico italiano. Difficile valutare le voci in una prova così atipica, che richiama gli stilemi della tradizione di canto del madrigale ma con variazioni di tempo così estreme (sia in dilatazioni che in precipitati) da snaturarne completamente la natura espressiva. L’uso abbondante di portamenti evolve infatti il lamento cinquecentesco in una stilizzata stanchezza priva di reale pathos e individualità, e dunque molto postmoderna. Certamente non perfetta, da parte dei Vocalsolisten Stuttgart, la pronuncia dei pochi, essenziali versi, frequentemente ripetuti come un mantra. Un peccato veniale ma non indifferente se si ricerca, come fa Sciarrino, l’effetto del suono in tutta la sua articolazione, che include in qualche modo la pronuncia. Brillante e d’impatto oltre ogni ragionevole dubbio invece Daniele Pollini, impegnato soprattutto nel movimento centrale (peraltro tremendamente lungo). Fra le difficoltà della sua parte ci sono passaggi che oscillano nelle zone più estreme della tastiera ed altri che invece miniaturizzando le frasi in cesellature cromatiche attorno a pochissimi tasti ravvicinati, con le mani che inevitabilmente si intersecano e sovrappongono. Nel complesso tutto contribuisce a conferire all’opera di Sciarrino un discreto fascino, o un fascino discreto, a scelta. C’è certamente un talento timbrico dietro i tremoli dei tromboni quasi sfiatati, i respiri amplificati attraverso una sorta di ottavino, l’onnipresente marimba, i miagolii del violoncello. Per tutto questo è molto produttivo il flirt continuo con l’idea zen di un suono essenziale, rarefatto e mistico (cioè in perenne dialogo col silenzio), ma a lungo andare l’anima occidentale vorrebbe anche qualcosa in più: una drammaturgia, un accumulo di tensione, un punto d’arrivo. E di questo non c’è traccia, per quanto il programma di sala invochi una “frammentazione ciclica” che rimanderebbe a Schumann (come ci suggerisce anche il titolo Carnaval). Resta di assoluto valore, almeno teorico, la ricerca di Sciarrino di una musica che si confronti col suo altrove, e cioè col silenzio, come afferma programmaticamente il titolo del terzo pezzo: Liuto senza corde. Vorremmo tuttavia aver percepito maggiormente ciò che egli promette: “la bellezza affiora, fragile, nell’ascoltare il divenire delle cose, ed induce una forma suprema di nostalgia senza perdita”. C’è ancora della strada da fare, ma la rotta almeno è confortante.
Non sono altrettanto nuovi e misteriosi alle nostre orecchie i Préludes di Debussy, per quanto all’epoca (1909-1911) il loro intento sperimentale non fosse in fondo molto diverso da ciò che Sciarrino ricerca oggi, mutatis mutandis. Niente di nuovo ovviamente anche l’interpretazione di Maurizio Pollini su questi dodici pezzi, per quanto nessuna lettura di un grande interprete sia mai del tutto identica alle altre. Ci ha colpito soprattutto, a fronte di un tocco forse leggermente meno delicato e duttile degli anni d’oro, l’illimitata ricchezza e padronanza di fraseggio, che pare aumentare col passare del tempo. In un silenzio assoluto e in una suggestiva atmosfera di luci soffuse, il primo preludio viene attaccato senza indulgere o compiacersi nelle qualità coloristiche del “bel suono”. Anzi, l’andamento (che a spartito sarebbe “lento e grave”) risulta spedito, come di chi sa dove vuole arrivare e sa perciò anche dove procedere in scioltezza e dove invece soffermarsi allargando. Tutta l’esecuzione è vibrante proprio perché si percepisce la volontà interpretativa che guida ogni frase (in una scrittura di per sé abbastanza svagata e flâneuse) in una economia generale, superiore. In generale gli ostacoli tecnici non sono mai tali, per quanto si possa percepire nella frenesia con cui vengono liquidati certi passaggi anche l’esigenza di trascurare alcuni dettagli senza eccessivi danni. Mentre in Beethoven questo non è del tutto fattibile, perché quasi ogni nota ha un suo rilievo strutturale (l’effetto di appannamento nello scorso concerto era frequente), qui Pollini può di fatto dare priorità all’effetto ed ottenerlo anche con economia di mezzi. Mai infatti si perde chiarezza e nitore, anzi. L’uso del pedale ad esempio è concentrato all’eco e all’arrotondamento del singolo suono, specialmente dei gravi, e non spalma mai la sonorità oltre il dovuto, ovvero a scapito dell’articolazione della frase. La chiarezza risultante permette ogni sorta di gioco col tempo e con le variazioni di esso. Risaltano in primis per incisività quei passaggi costruiti su piccole sfalsature fra le due mani, in cui si esalta il doppio o triplo cervello di Pollini, capace di coordinare le voci in assoluta indipendenza e senza cedere all’istinto semplificatore della sincronia. Ne guadagnano in secundis enormemente i pezzi altamente ritmici (i nn.3, 9, 11 e 12), mentre ne fa le spese il pezzo più turbinante e sensazionale, il n.7 (Ce qu’a vu le vent de l’Ouest). La palma dei momenti più suggestivi va in ogni caso a quelli che hanno a spartito la dicitura “calmo”, e che sono forse anche i più noti: il n.8 (La fille aux cheveux de lin) e il n.10 (La Cathédrale engloutie). Ci soffermiamo in particolare su quest’ultimo per lo straordinario controllo e l’intelligentissima gestione delle dinamiche. La prima esposizione della scala crescente di quinte vuote ottiene un notevolissimo effetto di staticità nell’intensità sonora, come se ogni accordo subentrasse al precedente senza la cesura che il meccanismo percussivo del pianoforte renderebbe teoricamente inevitabile. Sono quei casi in cui il suono ha l’omogeneità di diffusione che siamo soliti attribuire alla luce, e sono perciò proprio quei casi in cui il suono si fa luce. Nel lungo e progressivo crescendo e diminuendo che segue cominciano a stagliarsi singoli puntature all’acuto, mentre nella ripresa del materiale, che Debussy indica essere un’eco di quanto ascoltato in precedenza, Pollini comincia a modificare le dinamiche perfino all’interno di ogni accordo, creando un andamento ostinato e singhiozzante. La coda, che ritorna ancora un’ultima volta sulle stesse forme, viene invece annegata (engloutie appunto) in un pedale grave su cui a malapena si stagliano (quasi più armonicamente che melodicamente) le solite progressioni a salire.
Non poteva mancare il bis, che ha davvero acceso la serata dopo applausi convinti ma più dettati dall’infinita stima che dall’entusiasmo. La scelta è caduta sulla Ballata n.1 op.23 di Chopin, in sol minore. È stato straordinario ritrovare anche qui la stessa filosofia che aveva retto l’esecuzione dei Préludes: un estremo distacco per lunghi tratti del brano, eseguiti con memoria tanto perfetta da essere immemore, spensierata, per poi affondare e mordere nel momento più propizio, con tanto di corpo che si alza sullo sgabello. Il resto è tutto quel bagaglio che ha reso Pollini uno dei più grandi nella storia del pianoforte, in Chopin particolarmente, e sarebbe inutile ripeterlo. Impressionante, per come ci lascia col fiato sospeso, la coda Presto con fuoco. In ogni momento parrebbe di essere sull’orlo della catastrofe, con suoni perennemente esposti e senza alcuna mediazione eufonica, come se tutto (accompagnamento incluso) dovesse essere valorizzato in primo piano. Eppure, alla fine, tutto fila musicalmente con una necessità che non è facile scoprire in Chopin. Ci vuole un grande interprete per tirarla fuori, e i grandi interpreti si contano sulle dita di una mano. Aspettiamo dunque il suo ritorno fra un mese esatto (il 24 marzo), per la strana accoppiata Beethoven-Stockhausen. Sperando stavolta non ci siano imprevisti.
Fabio Tranchida