Orontea | Stéphanie D'Oustrac |
Creonte | Mirco Palazzi |
Silandra | Francesca Pia Vitale |
Corindo | Hugh Cutting |
Gelone | Luca Tittoto |
Tibrino | Sara Blanch |
Aristea | Marcela Rahal |
Alidoro | Carlo Vistoli |
Giacinta | Maria Nazarova |
Direttore | Giovanni Antonini |
Regia | Robert Carsen |
Scene e costumi | Gideon Davey |
Luci | Robert carsen e Peter Van Praet |
Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici |
La relazione tra il melodramma barocco e il Teatro alla Scala non è mai stata molto intensa, ma negli ultimi anni cerca una stabilità, proponendo ogni anno un titolo scelto tra l’ampio repertorio dell’epoca. Orontea è un ritorno: già nel 1961 venne data alla Piccola Scala, evento che costituisce un precedente purtroppo non documentato per una opera di non ampia frequentazione. La discografia è limitata. C’è una bella edizione diretta da René Jacobs (1982) e diverse incisioni dell’aria di Orontea, “Intorno all’idol mio”, ricca di suggestione e per questo spesso inserita in raccolte e recital.
Orontea è una delle opere più rappresentative di Antonio Cesti, musicista italiano che colse le maggiori soddisfazioni in carriera all’estero, soprattutto a Innsbruck e a Vienna. La sua musica piana, gradevole, di presa immediata trovava spazio nelle corti in cui si apprezzavano gli intrecci amorosi, le traversie, i travestimenti, gli equivoci, tutto l’armamentario del teatro dell’epoca. La protagonista, Orontea, è una regina egiziana che si rifiuta di amare accampando scuse vaghe. Le si propongono ottimi partiti, ma lei declina finché sarà presa da amore improvviso per un vagabondo ferito e straccione, nonché pittore, che sarà impalmato dopo alcune traversie, equivoci e scambi di persona.
Lo stesso vagabondo, Alidoro, non si farà mancare qualche altra storiella a corte, all’occasione. Di contorno ci sono alcuni caratteri tipici del gusto dell’epoca: il buffo sempre ubriaco, la vecchia che non vuole rinunciare all’amore e ci prova con un ragazzino che però è una fanciulla en travesti, il saggio consigliere, una coppia di amanti ad alta instabilità.
Per questo movimentato canovaccio amoroso, il regista Robert Carsen sceglie un’ambientazione contemporanea. Siamo in una galleria d’arte mentre si allestisce una mostra di proporzioni importanti. Orontea è la manager, c’è molto fermento per l’inaugurazione. Siamo a Milano, non ci si può sbagliare perché l’ufficio del boss guarda direttamente sui grattacieli di piazza Gae Aulenti attraverso enormi vetrate. Le scene di Gideon Davy, responsabile anche dei costumi, ruotano proponendo vari quadri: la galleria con al centro un grande letto matrimoniale disfatto che scomparirà solo prima dell’inaugurazione, l’ufficio spettacolare con vista, il retro con tre supermoto parcheggiate, il deposito delle tele con archivi e librerie (la più riuscita). L’ambientazione è funzionale, non forza la storia perché è facile immagine un viavai continuo di coppie in un ambiente non convenzionale.
La regia è lieve, senza forzature, con qualche tocco luminoso come il brusio della folla invitata al vernissage che entra un po’ alla volta chiacchierando piano, con un sussurro collettivo che accompagna l’orchestra senza disturbare il fluire della musica, trasformando quella che potrebbe sembrare una profanazione in un garbato omaggio. Le scene sono essenziali per non dire scarne e così i costumi che rispecchiano gli stereotipi dei personaggi, scelte pratiche e senza rischi come per la regia. Nel complesso un allestimento intelligente ma che non si solleva molto da una buona routine.
Giovanni Antonini dirige l’Orchestra della Scala che suona su strumenti storici, come dichiara la locandina, con un clavicembalista e tre tiorbisti aggiunti: Andrea Buccarella, Michele Pasotti, Elisa La Marca e Maggie Andersson, ben noti a chi frequenta il repertorio dell’epoca. L’orchestra leggera ed elegante accompagna con finezza i numeri vocali ed eccelle negli intermezzi strumentali con fantasia e ricchezza di intenzioni. L’organico, ridotto come deve essere, ha un suono brillante che però, dalla buca, fatica a riempire il grande spazio del teatro.
Il cast è composito, così come le coppie che si creano e si distruggono in un batter d’occhio. Stéphanie D’Oustrac, Orontea, ha il tratto e il portamento di chi comanda e decide. Suscita qualche perplessità la pronuncia molto personale e la dizione arruffata. Vocalmente ha qualche cedimento nelle agilità e qualche caduta nell’intonazione, ma il personaggio ha una sua personalità ben definita. Carlo Vistoli, Alidoro, è colui che tutte amano e con ragione perché è bello e seducente. Trova una chiave diversa per ognuna delle sue conquiste, tiene la scena con naturalezza ed è irresistibile quando, prescelto da Orontea, intravede un futuro di gloria e un posto al sole. Con una bella trovata registica si libera dei suoi stracci, si riveste con un completo nero e oro, tanto ricco quanto pacchiano, e di colpo si trasforma in un parvenu arrogante, convinto di avercela fatta. Vocalmente è inappuntabile, rende superflui i sopratitoli per come porge ogni parola e ammirevole per come intona ogni nota.
Non è da meno Hugh Cutting, anch’egli controtenore ma di timbro più chiaro, nel ruolo di Corindo. La voce è morbida, l’intonazione perfetta come la dizione e il personaggio di giovane amante è reso in modo più che convincente. Ha una relazione con Silandra, dama di corte e seduttrice seriale che lo tradirà quasi subito con Alidoro, ma temporaneamente. La interpreta Francesca Pia Vitale, giovane soprano di sicuri mezzi vocali, incantevole nei duetti con Alidoro. Il basso Luca Tittoto interpreta Gelone, buffone che vaga sempre ubriaco a declamare i vantaggi del vino. Lo rende con misura, senza abusare dei versi brillanti forniti da un libretto che non ha bisogno di enfasi per funzionare.
Compassato e razionale, il basso Mirco Palazzi nel ruolo di Creonte cerca di far ragionare Orontea, del resto è un filosofo e resta tale anche in completo grigio da quadro aziendale. Sara Blanch è Tibrino, valletto di corte en travesti. Infatti corre qua e là in tuta di pelle nera da motociclista senza perdere l’aplomb, molto gradevole anche vocalmente. Meno riuscito è il personaggio di Aristea, vecchia madre di Alidoro, assatanata come il figlio ma con scarso successo. È il giovane mezzosoprano Marcela Rahal, non aiutata dalla regia che la sovraccarica di effetti grotteschi. Graziosa e gradevole all’ascolto è Maria Nazarova come Giacinta, en travesti e per questo oggetto delle avance della vecchia, fino allo scioglimento finale.
Il pubblico, da tutto esaurito e con poche defezioni tra un atto e l’altro, non si è espresso in appalusi a scena aperta, riservandosi per il finale, quando ha accolto con il cast calorosamente.
La recensione si riferisce alla prima del 26 settembre 2024.
Daniela Goldoni