Direttore | Riccardo Chailly |
Violino | Daniel Lozakovich |
Orchestra Filarmonica della Scala | |
Programma | |
Pëtr Il'ič Čajkovskij | Concerto in re maggiore op. 35 per violino e orchestra |
Sinfonia n. 6 in si min. op. 74 “Patetica” |
All’epoca della prima esecuzione il Concerto per violino di Čajkovskij fu rifiutato da non meno di due violinisti, tra cui il celebre Lipót Auer che lo classificò «ineseguibile». In data odierna ad affrontare questo titolo-monstre assieme alla Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly troviamo il ventunenne Daniel Lozakovich. Senza ricorrere a mezzi termini, l’impressione ricavata da questa esecuzione è duplice: si sente che Lozakovich ha dato tutto quel che in questo momento può dare e allo stesso tempo si sente che dietro c’è dell’altro che attende ancora di essere portato alla luce. Dire che composizioni come questa necessitino di una lunga sedimentazione significa ribadire l’ovvio, così come sottolineare quanto possa mutare il risultato esecutivo lungo il percorso di un musicista; eppure Lozakovich ha fornito una prova assolutamente maiuscola.
Nel primo movimento c’è una qualche rigidità – senz’altro imputabile all’emozione – che si riverbera in alcuni quasi impercettibili sbandamenti tra solista e orchestra, ma il risultato è caratterizzato da un tale fervore e da una tale maturità da lasciare sbalorditi. Il bagaglio tecnico è notevole e ancor più notevoli sono la lucidità e la semplicità con cui il violinista svedese riesce a riprodurre il gusto inequivocabilmente russo del Concerto. Ascoltando questa lettura – intelligente e infiammata a un tempo – riaffiora alla mente la feroce stroncatura di Eduard Hanslick all’indomani della prima esecuzione in cui si affermava, con intento denigratorio, che nel primo movimento il violino non suona ma «raglia, stride, ruggisce»: allo stesso modo ruggisce e stride il violino di Lozakovich, proponendo un canto intenso e in perfetta sintonia con lo spirito della partitura. Molto buona la Filarmonica della Scala che brilla per compattezza e incisività, mentre Chailly si distingue per una direzione assai equilibrata, bilanciando nei punti critici le intensità orchestrali al fine di mantenerle in rapporto corretto con gli interventi del solista. Un’esecuzione salutata con vivo entusiasmo dal pubblico, da cui il giovane Lozakovich prende congedo con un applauditissimo bis, la Paganiniana di Milstein.
La seconda parte di questo programma consacrato a Čajkovskij è interamente occupata dall’ultima sinfonia del compositore russo, la Sesta, il «Requiem pour soi-meme». Lavoro assolutamente peculiare e dalla struttura atipica, la Sinfonia “Patetica” presenta più di un enigma per l’interprete sin dal primo movimento, di chiara matrice sonatistica: l’Adagio di apertura dal colore inequivocabilmente lugubre si infrange in un Allegro non troppo del tutto inatteso, a sua volta seguito da un Andante che conduce alla climax del movimento, un cammino in cui appaiono come terribili visioni un motivo tolto dal Requiem ortodosso («Che riposi con i santi») e soprattutto un disegno melodico esposto dagli ottoni che richiama da vicino il tema del destino già apparso nella Quarta e Quinta sinfonia. Tutto questo sarebbe più che sufficiente per generare spaesamento, ma Chailly traccia con mano sicura delle linee di forza che d’improvviso rivelano un’intima coerenza nei procedimenti compositivi. Talvolta i tempi sono un po’ troppo veloci per consentire delle articolazioni precise – come nel caso delle figurazioni di semicrome di violini e flauto nell’Allegro non troppo – eppure un risultato così “sporco” contribuisce a condurre lo spettatore in uno stato perturbato e commosso e Chailly insiste su boati nel registro grave (il si-sol# ff dei contrabbassi divisi, ad esempio) che aprono continue voragini a strapiombo sul nulla.
Un paesaggio onirico, fatto di paure e ricordi: il disarmante valzer tripartito che anima il secondo movimento appartiene senz’altro alla seconda categoria. Un momento di rimembranza e malinconia adombrato dal passaggio nella sezione centrale da una serie di figurazioni ritmiche irregolari che riportano alle tinte dell’Adagio; un carattere apparentemente in contrasto con il vigore eroico (in senso beethoveniano) del terzo movimento. Anche in questo frangente ci si trova davanti a un episodio particolare dato che Čajkovskij lo carica di un carattere “conclusivo”, accentuato anche dalla mancanza di uno sviluppo vero e proprio, andando di fatto a creare due dissonanze assai stridenti: la presenza di un ultimo movimento dopo di esso – una struttura illogica se si fosse trattato di una sinfonia tradizionale – e di segno opposto. Se l’Allegro molto vivace può trarre in inganno con le sue fanfare e i disegni vivaci, il Finale ha inequivocabilmente il carattere lacerante di un planctus funebre.
Questa è senza dubbio la ragione dietro la scelta del direttore di attaccare il Finale immediatamente dopo il terzo movimento e non tanto per evitare l’applauso (che, ringraziando il Cielo, non c’è stato comunque). Dopo tante avventure dell’anima il ritorno a una situazione analoga a quella iniziale non è solo attenzione per una forma circolare nella composizione, ma l’esasperazione di un tormento autoinflitto, un dolore ciclico senza senso e senza scopo.
Ribadendo quanto già detto, Chailly si rivela eccellente nella comunicazione del pensiero del compositore, in modo tanto diretto quanto efficace; senza dubbio si assume i suoi rischi, ma si inscrivono sempre nel segno di un preciso risultato musicale. Se nell’esecuzione del Concerto la Filarmonica della Scala era stata tenuta “a regime” per preservare l’equilibrio con il solista, qui finalmente è libera di esplodere in un ampio ventaglio di colori, timbrature e sonorità che colpiscono senza sosta il nervo acustico dello spettatore. Un evento da ricordare.
Luca Fialdini