Barbablù | Karoly Szemeredy |
Judith 1 | Eve-Maud Hubeaux |
Judith 2 | Victoria Karkacheva |
Direttore | Titus Engel |
Regia | Andriy Zholdak |
Scene | Daniel Zholdak |
Costumi | Simon Machabeli |
Consulente drammaturgia | Georges Banu |
Orchestra dell'Opéra de Lyon |
Dopo l’Ariane et Barbe-Bleue di Dukas, il Festival Femmes Libres? (vedi intervista a Serge Dorny) firmato dall’Opéra de Lyon offre una brevissima anticipazione del Pelléas et Mélisande di Debussy, di cui possiamo ammirare le scene e una breve intervista ai protagonisti ma null’altro poiché - per motivi non meglio specificati - la rappresentazione non ha avuto luogo: sulla carta la proposta è molto interessante, ci si augura di poterla vedere presto concretizzata sulla scena. Il suo terzo e ultimo appuntamento, invece, è dedicato al Castello di Barbablù di Béla Bartók su libretto di Béla Balázs.
L’operazione è particolare fin dalle premesse: l’opera è eseguita quasi per intero due volte (la seconda volta viene omesso il prologo) e presentata con due differenti regie, entrambe a cura di Andriy Zholdak. Probabilmente la scelta della doppia rappresentazione è dovuta alla criticità della situazione che viviamo, ciò non toglie che come ripiego sia pleonastico da morire (e, per chi ascolta, Il Castello di Barbablù due volte nella stessa serata sfiora i limiti dell’accanimento); un secondo titolo sarebbe stato auspicabile, magari un’opera nuova commissionata appositamente per il Festival, dato che punta su un tema quanto mai attuale; altrimenti meglio il nulla. Maneggiando un titolo già di per sé oscuro e incrostato di simbolismi, Zholdak opta per uno stravolgimento radicale dell’impianto di drammaturgia e partitura: le sette porte, su cui si erge tutto il Castello di Bartók e Balázs, perdono quasi totalmente il loro significato, trasformando un titolo dalla costruzione peculiare in un labirinto del quale è impossibile trovare l’uscita. Entrambe le regie hanno una forte connotazione sessuale (nella seconda lievemente meno calcata) che lascia quanto meno perplessi, non per le scene in sé - che alla lunga anestetizzano i ricettori dello shock - quanto per il loro essere totalmente decontestualizzate dallo spirito dell’opera. Con tutto il rispetto che si deve a chi cerca di percorrere nuove vie, la proposta del regista non supera la prova del palcoscenico: se si propone un allestimento volutamente di difficile lettura su un titolo di per sé complesso, il pubblico passerà la serata a chiedersi il perché di scelte e azioni senza potersi concentrare sulla drammaturgia e senza mai arrivare veramente al punto della questione. Così si perde il messaggio insito nella figura di Judith o in quella di Barbablù, venendo distratti dagli innumerevoli cambi di stanza o dall’entrata in scena di figure che poco hanno a che vedere con l’azione. Delle due, forse è la seconda regia ad avvicinarsi di più all’impostazione originaria, anche per il porre come carattere attivo Judith e non Barbablù, ma anche qua Zholdak si perde in divagazioni che ci fanno calare di nuovo nello sconforto.
Ciò detto, il regista ucraino è aiutato da un ottimo comparto tecnico, a cominciare dalle scene di Daniel Zholdak: una costruzione rotante che ospita le numerose stanze del castello è l’elemento cardine della scenografia della prima “versione"; lodevole la cura e la dovizia di dettagli con cui ogni singola stanza è stata realizzata e decorata. Il secondo allestimento - naturalmente - si avvale della stessa struttura del primo, ma la trasfigura con l’aggiunta di proiezioni e con un uso massiccio dell’oscurità. I costumi di Simon Machabeli, di magistrale semplicità ed eleganza, sono una nota di pregio.
L’esecuzione, dal canto suo, è assolutamente all’altezza dell’alto standard cui il teatro lionese ci ha abituati e l'Orchestra dell’Opéra de Lyon esegue l’unica opera di Bartók con vero gusto. Il centro d’interesse che accomuna l’orchestra e il direttore Titus Engel sembra essere la timbrica, e con ragione dato che il compositore ha caratterizzato con timbriche specifiche ogni scena (basti pensare al tesoro o al lago delle lacrime); ciò che forse avrebbe potuto emergere di più è il carattere magiaro, condito da una maggior crudezza.
La performance dei tre solisti è molto difficile da inquadrare, non per causa loro ma di una regia che ha decontestualizzato ogni cosa. L’impostazione di Eve-Maud Hubeaux, la “prima” Judith, è senz’altro quella più particolare: improntata a un certo patetismo, affronta il ruolo in modo più sottile di quello previsto dalla tradizione, in cui Judith è un personaggio più attivo, in cui alcuni ravvisano tratti quasi negativi. Complessivamente la Hubeaux fornisce un’interpretazione convincente, specialmente nei momenti più lirici e nell’enigmatico finale, che in questa versione si tinge di malinconia.
Di segno opposto Victoria Karkacheva, che offre una Judith senz’altro più vicina all’idea di Bartók proponendo un personaggio dal carattere forte, volitivo, capace di vincere ogni resistenza di Barbablù, giungendo però alla stessa - e stavolta nettamente tragica - conclusione. La Karkacheva fa sfoggio di una vocalità dotata di un timbro molto interessante, molto precisa nel fraseggio e ben adatta a una parte tanto impervia.
Resta da ultimo Karoly Szemeredy, interprete navigato nel ruolo di Barbablù, unico membro fisso del cast. Il carattere del suo personaggio muta in funzione di quello di Judith: quanto più lei è innocente e inerme, lui è aggressivo; se lui è introspettivo, lei assume un ruolo più dominante. Szemeredy ha tutte le carte in regola per diventare un Barbablù di riferimento, non solo per l’innegabile bravura nel portarlo in scena, ma anche per la conoscenza virtualmente totale di ruolo e opera.
La recensione si riferisce alla diretta streaming del 26 marzo 2021
Luca Fialdini