Jenůfa | Corinne Winters |
Laca Klemeň | Daniel Brenna |
Kostelnička Buryjovka | Evelyn Herlitzius |
Grand-mère Buryjovka | Carole Wilson |
Stárek | Michael Kraus |
Maire | Michael Mofidian |
Jano | Borbála Szuromi |
Karolka | Eugénie Joneau |
Direttore | Tomáš Hanus |
Regia | Tatjana Gürbaca |
Scene | Henrik Ahr |
Costumi | Silke Willrett |
Luci | Stefan Bolliger |
Maestro del coro | Alan Woodbridge |
Coro del Grand Théâtre de Genève | |
Orchestre de la Suisse Romande |
Jenůfa torna a più di vent'anni dall'ultima rappresentazione (nel 2001) sulla scena ginevrina, inaugurando un nuovo ciclo di tutte le opere di Janáček che continuerà l'anno prossimo riannodando il filo interrotto sotto la precedente direzione. Dall'ascolto di questo capolavoro del compositore ceco si esce con un sentimento misto di ammirazione e di malessere profondo, come se il senso di colpa e il masochismo religioso di Kostelnička continuasse a pulsare dentro di noi, cessata la musica, ben più del perdono e della bontà di cui Jenůfa dà prova alla fine del dramma verso chi l'ha offesa. Forse perché Kostelnička è un'anima sola dostoievskianamente impegnata in una lotta pericolosa col mondo che la circonda, con la propria coscienza e con Dio, mentre la sua figliastra vive di fatto, anche nella disperazione e nel disonore, in una sorta di pace interiore la cui forza inattaccabile è data dalla capacità nonostante tutto di continuare ad amare anche l'avversario? Sono domande che restano in sospeso, come davanti a ogni capolavoro, certo è che nella coppia Jenůfa e Kostelnička la musica di Janáček ha saputo esprimere, come poche altre nella storia del teatro musicale, i risvolti tragici di un amore apparentemente diretto al bene, capovolgendo la famosa sentenza di Mefistofele nel Faust goethiano. Qui infatti è l'ossessione per il bene della figliastra (rimasta incinta e abbandonata dal primo fidanzato Števa) a portare Kostelnička all'infanticidio e a al male da cui non la libererà nemmeno il perdono generoso e autenticamente cristiano di Jenůfa.
La nuova produzione del Grand Théâtre è indubbiamente riuscita a tutti i livelli, a cominciare dalla bellissima lettura che dà della difficile partitura il direttore d'orchestra, Tomáš Hanus. L'atmosfera di claustrofobia e di serpeggiante sofferenza che regna nel villaggio moravo è resa con palpabile padronanza del linguaggio armonico e timbrico del compositore ceco. Il maestro asseconda perfettamente e senza manierismi ora i momenti di parossismo sonoro che traducono la violenza delle passioni, ora impasti orchestrali più intimi e rasserenanti, ora i colori sgargianti del folklore moravo nelle feste del I e III atto. Il risultato eccellente è anche dovuto all'intesa perfetta col soprano americano Corinne Winters e con gli altri interpreti. Dotata di una voce sicura nel registro acuto quanto nel grave, particolarmente vibrante e corposo, la Winters è una Jenůfa soggiogante sia per avvenenza fisica sia per tenuta scenica. Nell'Ave Maria del secondo atto la voce si sposa perfettamente al ritmo e ai colori dell'allucinata e toccante berceuse (una delle musiche più sorprendenti che siano mai state scritte per questa preghiera nel teatro musicale), creando così un momento di profonda e dolce intensità (non tanto assecondata, però, dalla regia). Accanto a lei, come prevedibile per chi la conosce, Evelyn Herlitzius è una stupefacente Kostelnička. Tutte le sfaccettature di questo personaggio sono toccate con finezza e maestria dal soprano tedesco, ora nel far risaltare la donna che riveste l'autorità morale nel villaggio, ora la madre "mancata" , ora le pulsioni autodistruttive di una coscienza che si sostituisce a Dio. Ma quella tratteggiata qui da Herlitzius è anche una donna libera e diversa da tutti gli altri nel villaggio, una figura solitaria e tormentata non solo dalla sua colpa, ma anche dall'anelito a una condizione di libertà e indipendenza femminili che- al di là dell'argomento religioso che la porta all'infanticidio- sembra essere a tratti, forse inconsciamente, il suo vero motore. Daniel Brenna è un ottimo Laca, che mette al servizio del personaggio impulsivo e passionale disegnato dal dramma un registro acuto squillante e sicuro di tutto rispetto, ma dà prova anche di saper evocare in modo convincente il versante affettuoso e tenero con smorzature apprezzabili. Ben riuscito, anche se forse vocalmente meno dotato nel settore acuto, è anche lo Števa di Ladislav Elgr, che rende perfettamente il carattere irresponsabile e imbelle del primo fidanzato della protagonista attraverso un fraseggio esaltato e scattante. Ottima la caratterizzazione di Carole Wilson nei panni della nonna Buryjovka, di cui esprime come meglio non si potrebbe l'autorevolezza matriarcale e la cieca parzialità nell'affetto per Števa. Di alto livello il resto della compagnia, con una menzione speciale per Eugénie Joneau nella breve ma squisitamente cesellata apparizione di Carolka nell'atto terzo.
La regia di Tatjana Gürbaca colloca l'opera in una Moravia moderna, ma non contemporanea (anni sessanta?), senza distrarre lo spettatore con ammiccamenti a temperie ideologiche ben precise: il dramma di Jenůfa è insomma per la regista tedesca soprattutto un dramma psicologico. Il mondo del villaggio è ritratto nel suo contrasto tra la coesione omologata della collettività e i personaggi "diversi" (Jenůfa, ma soprattutto Kostelnička) che costruiscono (o ci provano) la propria strada, un contrasto tradotto visualmente attraverso costumi sgargianti e tradizionali per i primi, dimessi e neri per i secondi. La fine della festa di matrimonio del terzo atto (abbandono generale di Jenůfa creduta infanticida) è sintomatica, a questo proposito, di un rapporto doloroso tra individuo e collettività, che fa svettare ancor più la solitudine della protagonista sullo sfondo di un mondo dominato da un istinto gregario che non conosce pietà. Il perdono di Jenůfa è per la regista tedesca la sua indiscutibile vittoria sul gruppo, coronata infatti nelle ultime battute dell'opera dall'apparizione finale di un bambino che sembra essere la promessa di una nuova vita. La scenografia limita forse un po' troppo i movimenti, essendo composta da una scena fissa dominata da una struttura lignea a gradini molto spaziati che costringe i cantanti a muoversi soprattutto orizzontalmente nonché a fare salti da valchirie per salire e scendere. La presenza della natura, certo non centrale nell'opera, ma pur presente (Jenůfa che guarda la luna dalla finestra nel secondo atto), viene anch'essa un po' sacrificata a un dispositivo scenico massiccio e opprimente. Non so se però se ne debba imputare la responsabilità allo scenografo (Henrik Ahr) o alla visione della regista, che già nel Werther a Zurigo (di cui si è dato conto su questo sito nel 2017) puntava su una scena fissa di questo tipo, forse per rappresentare per entrambe le opere un ambiente calustrofobico che schiaccia le aspirazioni individuali dei protagonisti. Inspiegabilmente un po' troppo avare le luci (Stefan Bolliger), che pure contribuirebbero non poco a tradurre (specie nel II atto) le atmosfere e gli stati d'animo del mondo di questi Malavoglia moravi. Nell'insieme la regia di Tatjana Gürbaca è da apprezzare, perché permette al dramma di dispiegarsi pienamente mettendo in valore le ammirevoli capacità sceniche dei cantanti e in particolare della coppia Jenůfa-Kostelnička.
Successo per tutti e grandi applausi per Tomáš Hanus, Corinne Winters ed Evelyn Herlitzius.
La recensione si riferisce alla recita del 7 maggio 2022
Gabriele Bucchi