Turandot | Ingela Brimberg |
Altoum | Chris Merritt |
Timur | Liang Li |
Calaf | Teodor Ilincăi |
Liù | Francesca Dotto |
Ping | Simone Del Savio |
Pang | Sam Furness |
Pong | Julien Hernic |
Un Mandarino | Michael Modifian |
Direttore | Antonino Fogliani |
Regia | Daniel Kramer |
Concezione scenica | teamLab architects |
Costumi | Kimie Nakano |
Luci | Simon Trottet |
Coreografia | Tim Claydon |
Drammaturgia | Stephan Müller |
Direttore del coro | Alan Woodbridge |
Coro del Grand Théâtre de Genève | |
Orchestre de la Suisse Romande |
Turandot è considerata, secondo un luogo comune della critica, l’ultima opera di quella grande stagione del teatro musicale, intesa come comunione piena tra autori e pubblico, cominciata all'inizio del Seicento e il cui tramonto, all’epoca in cui Puccini scriveva il suo capolavoro, sarebbe stato imminente dietro l’incalzare di una nuova arte popolare: il cinema. Uscendo dalla prima rappresentazione del nuovo allestimento ginevrino di quest’opera, la mente correva all’inizio di quel glorioso e secolare cammino, e precisamente all'Orfeo di Monteverdi. Il primo capolavoro del teatro musicale mette in scena un mito il cui finale, mesto e anzi macabro (il cantore sbranato dalle Baccanti ed Euridice inghiottita per sempre nell'averno), dovette subire una radicale trasformazione per essere adattato a occasioni e celebrazioni festive, con Monteverdi e non solo (clemenza degli dèi e ricongiungimento del mitico cantore alla sposa). Nelle intenzioni di Puccini Turandot doveva concludersi con la conversione della principessa di gelo all’amore e l’unione spirituale e fisica dei due protagonisti, attorniati da un tripudio generale («Gran frase amore con bacio moderno e tutti presi si mettono a lingua in bocca» si legge in una lettera del 1920 a Renato Simoni). Per le ragioni che poi si diranno, questo allestimento ci porta a riflettere sul compimento di un movimento opposto a quello operante alle origini del teatro musicale: la nostra impossibilità di chiudere sul giubilo collettivo.
La scelta del finale di Berio sembra infatti preferibile, stando alle dichiarazioni di direttore e regista, non solo e forse non tanto per ragioni squisitamente musicali (evidente è infatti la cesura stilistica che anche orecchie inesperte avvertono tra il linguaggio pucciniano e quello pur confezionato con indubbia maestria da Berio, il quale sembra spingere Turandot più verso Berg e Janacek che non verso Strauss e Ravel), quanto proprio per ragioni inerenti a esigenze drammatiche ed estetiche. Berio infatti "salverebbe" Puccini, stando alle dichiarazioni del regista, non solo dalle incomprensioni stilistiche di Franco Alfano (additato ormai unanimemente come un traditore, una specie di Rimski-Korsakov di Puccini), ma da un finale trionfalistico, giudicato, dopo la morte di Liù, come falso e irricevibile.
Ma non è questo un voler salvare Puccini, più che dal bistrattato Alfano, proprio da Puccini stesso, che a quel tripudio vitalistico e sensuale del finale, malgrado le difficoltà incontrate per la repentina metamorfosi amorosa della protagonista, sembra sempre aver creduto fermamente sino alla fine? L'operazione ginevrina, infatti, al di là della scelta legittima del finale di Berio, è sintomatica di un cambiamento ormai avvenuto nella ricezione delle opere del maestro lucchese, in particolare fuori d’Italia (dove l’appartenenza di Puccini al grande canone del teatro musicale non è mai stata di fatto seriamente contestata). Dopo decenni di embargo da parte degli esponenti della cultura teatrale e musicale d’avanguardia (chi non ricorda l’anatema di Gerard Mortier sulle opere pucciniane giudicate indegne del festival di Salisburgo?) anche il compositore della Bohème sembra poter accedere alla consacrazione ufficiale (cioè attirare l'interesse dei grandi registi abitualmente occupati col Ring o col Parsifal), ma a una condizione: farsi portatore delle grandi questioni dei nostri tempi (democrazia, ruolo della donna nella società, liberazione dei popoli oppressi), abiurando in un certo senso al suo essere stato soltanto (si fa per dire!) il grande poeta che sappiamo dell’amore disperato, della solitudine, dell’angoscia dell'abbandono, per diventare invece un intellettuale impegnato, insomma per non essere più Puccini. La questione va ben al di là del porre i finali di Alfano e Berio l'un contro l'altro armati, ma implica qualcosa di più sottile: il costo, in termini di ricezione e si potrebbe dire di falsificazione critica, della consacrazione intellettuale del grande lucchese non solo presso il grande pubblico (questo è naturalmente pacifico da più di un secolo in tutto il mondo), ma anche presso registi e drammaturghi. Ci scusiamo del lungo preambolo, ma a due anni dal centenario ci sembrava non troppo fuori tema.
La regia di Daniel Kramer punta su un'ambientazione allucinata e apocalittica, in una Cina distopica e dittatoriale in cui il popolo è intrappolato in due grandi gabbie sovrapposte (sarà liberato solo alla fine), sotto gli occhi di onnipotenti bellimbusti palestrati armati di scudiscio e di sacerdotesse nere che torturano i pretendenti alla mano della principessa. Le teste di questi sono sostituite da membri virili mozzati (frequentemente esibiti nei primi due atti) a ricordare allo spettatore l'indipendenza della principessa di gelo dalla dittatura di una «virilità tossica» (secondo le parole di Kramer) incarnata dal fallo. Da questa virilità elementare guarirebbe Calaf, che (dopo colluttazioni anche violente col padre Timur, che le prende da tutti) accetterebbe la sfida degli enigmi (rappresentati come un concorso mortale ispirato al film "Hunger Games" del 2012), trovando da sé la strada di un amore che non corrisponde ai desideri del maschio dominatore. Dopo il cedimento della protagonista, si assiste a una specie di insurrezione: i tre ministri si accoltellano a vicenda, i bellimbusti e le sacerdotesse nere vengono anche loro uccisi e il popolo è liberato e riunito attorno a Timour, moribondo o morto, ma in una realtà in cui regna ora la pace. Se la regia rivisita intelligentemente alcuni nodi troppo elementari ai nostri occhi del rapporto Calaf-Turandot (anche l’eroe maschio deve e può maturare) e se la liberazione finale del popolo, pur con qualche compromesso col libretto, ha una sua suggestione, l'insieme oppressivo e anche pedantescamente macabro (quante mutilazioni un po' gratuite pour épater les bourgeois!) nel voler toccare tutti i problemi individuati dalla nuova drammaturgia (oppressione popolare, emancipazione della donna, trasformazione della virilità dell'uomo) manca di una sua omogeneità. Il ricorso alle spettacolari proiezioni luminose del collettivo giapponese teamLab, pur esteticamente abbaglianti, finisce per accentuare questa mancanza di unità e aprire la porta a un nuovo decorativismo geometrico che impressiona, ma apporta poco in termini di visione generale dell’opera.
Sul piano musicale è necessario salutare anzitutto l’impegno del coro e dell'orchestra che, sotto la guida esperta di Antonino Fogliani, dà dell'ultimo capolavoro di Puccini una lettura di altissimo livello. I tempi sono piuttosto spediti e l’inclinazione all’effusione lirica (come si è detto altre volte) sembra sia vista qua e là con sospetto dal maestro siciliano ("Figlio del cielo", trio delle maschere del II atto), ma il risultato è comunque convincente e, grazie anche all'eccellente prestazione dell'orchestra, la direzione accuratissima di Fogliani permette di cogliere dettagli preziosi dell’ultima partitura pucciniana. La compagnia di canto non corrisponde forse in tutto a quanto ci si aspetterebbe per Turandot, notoriamente esigente in particolare per le parti di soprano e tenore. Ingela Brimberg (che ammirammo come Elektra a Verbier) convince nella sua entrata in scena ("In questa reggia"), dolce e trasognata, e in genere laddove sono in gioco i risvolti più lirici e introspettivi della parte (più trascurati generalmente dalle pur fenomenali Turandot d'un tempo). La voce è però sembrata, almeno alla prima cui abbiamo assistito, in difficoltà nel settore acuto, tante volte sollecitato, così come il soprano svedese non è apparso del tutto a proprio agio in quei momenti più esposti ("Figlio del cielo") in cui è necessaria una certa fermezza di linea.
Poco centrato anche il Calaf di Teodor Ilincăi. Pur salutando impegno e musicalità del tenore rumeno, la sua ci è parsa una prestazione non del tutto convincente, sia sul piano dell'espressività (limitata sempre a forte e mezzoforte), sia soprattutto su quello della potenza e della modulazione del canto, intaccato da eccessive forzature oltre che da un'intonazione non sempre a posto. Ottima invece la Liù di Francesca Dotto (cui è toccato l'unico applauso dopo "Signore ascolta"), capace di suggestive smorzature e messe di voce ammirevoli e il Timur di Liang Li, dotato di una voce estesa ed omogenea, che ha contribuito, in perfetta sintonia con Fogliani, a fare delle battute che seguono la morte di Liù (le ultime completate da Puccini) un momento davvero toccante, forse il più bello di tutto lo spettacolo. Tra le maschere, tutte di buon livello, spicca in particolare il Ping di Simone del Savio, che illumina con una bellissima voce e con fraseggio fine e arguto lo stupendo trio del secondo atto. Chris Merritt, ormai rodato in piccole parti del repertorio tedesco, disegna da par suo il cammeo di Altoum (qui un re moribondo e alla fine si direbbe morto in mezzo al suo popolo, nonostante l'inno vitalistico) in cui dà prova di consumata presenza scenica e di un’intelligenza interpretativa da veterano del palcoscenico. Applausi per tutti e in particolare per il regista, per il maestro Fogliani e per la Liù di Francesca Dotto.
La recensione si riferisce alla prima del 20 giugno 2022.
Gabriele Bucchi