Direttore |
Donato Renzetti |
Maestro del coro |
Claudio Marino Moretti |
Soprano |
Irene Cerboncini |
Attore |
Pietro Fabbri |
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Carlo Felice |
Silvia Colasanti |
Arianna e il Minotauro Prima esecuzione assoluta della nuova versione per attore, soprano e orchestra |
Claude Debussy |
Nocturnes Nuages, Fêtes, Sirènes |
Sergej Rachmaninov |
Symphonc Dances, op. 45 |
Le ricorrenze delle nascite e preferibilmente, qui in Italia, delle morti di grandi personalità sono diventate un must politico-mondano. Un centenario che cadrà alla fine dell’anno prossimo s’è cominciato a sbandierare sin dall’anno scorso, sfruttando finanziamenti messi generosamente a disposizione con grande anticipo dalla greppia nazionale (che ha potuto così “dimostrare”, a chi ci voleva credere, d’occuparsi di “cultura”), e distribuiti secondo il noto criterio “a pochi la polpa, ai molti l’osso”: tutto questo anche se il sommo artista morto a fine novembre 1924 non ha bisogno, ben meritatamente, d’alcuna promozione commerciale, né gli studi “scientifici” su di lui di particolare sostegno finanziario.
Nel 2023 ricorrono, invece, il cinquantesimo della scomparsa di Gian Francesco Malipiero, che perlomeno nel Veneto, ha offerto occasione a non poche iniziative di “rilancio” della sua copiosissima produzione; e il centocinquantesimo della nascita d’un pianista indubbiamente tra i maggiori di cui sia rimasta memoria sonora. Sergej Rachmaninov, aristocratico russo espatriato definitivamente nel 1917 e presto insediatosi negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino nel 1943, poche settimane prima della morte, fu anche compositore ferratissimo, indubbiamente capace di comunicare “in termini di suono ordinato”, ossia in musica, il proprio mondo interiore, le cui radici affiorano visibilmente e significativamente dalle tremende convulsioni della prima metà del Novecento. Questo lo accomuna ad altri creatori di carattere ed esiti completamente diversi, anche se è ben difficile che gli ammiratori di Berg o Malipiero o Dallapiccola, o dello stesso Stravinskij, si sentano granché attratti da Rachmaninov, ma è indubbio che la sua musica incontra da tempo un notevole favore, tutt’altro che umiliato dai mezzi di diffusione di massa. Resta non meno indubbia, e ben documentata, la grande generosità personale dell’artista, che lo avvicina a esempi rari come Donizetti, Liszt e, nel secolo scorso, a Umberto Giordano. Opportuno, quindi, che i due maggiori centri liguri di produzione musicale, l’Opera Carlo Felice Genova (tale apprendiamo essere oggi la sua denominazione ufficiale) e la GOG, “Giovane Orchestra Genovese”, sodalizio attivo da oltre un secolo soprattutto nell’ambito della musica da camera, abbiano organizzato congiuntamente il concerto inaugurale della stagione 2023-24 di quest’ultima titolandolo “Rachmaninov 150” e dedicandone la seconda parte all’ampio lavoro che conclude, con il numero d’opus 45, il canone del musicista.
Nella partitura edita nel 1941 da Charles Foley a New York, i tre ampi movimenti per grande orchestra composti tra l’estate e l’ottobre precedente portano il titolo originale Symphonic Dances e la dedica a Eugène Ormandy e alla “sua” Philadelphia Orchestra, che ne avevano dato la prima esecuzione assoluta il 3 gennaio. Sembra simultaneamente alla versione orchestrale, Rachmaninov ne elaborò anche una per due pianoforti, che fu sonata per la prima volta nel 1942 nel corso d’un ricevimento privato a Beverly Hills, dall’autore in coppia con Wladimir Horowitz (le storie non informano come il padrone di casa si sia sdebitato).
Il “programma” originario del lavoro prevedeva la denominazione “danze fantastiche” e i titoli Mezzogiorno, Crepuscolo e Mezzanotte per i tre movimenti. Prevalse poi una scelta più “neutra”. Il primo pezzo porta l’insolita indicazione “Non allegro”: si racconta che fu stampata all’insaputa di Rachmaninov, che quando la vide cancellò il “Non” dalla copia su cui stava lavorando con Dimitri Mitropoulos. Controverse le successive vicende editoriali: “Non allegro” è rimasto in quasi tutte le edizioni per orchestra, compresa quella moscovita del 1961, mentre la versione per due pianoforti indica “Allegro”, come in origine. L’autore aveva sonato il pezzo al pianoforte per Ormandy e la registrazione, pubblicata nel 2018, comincia un tactus di 116 semiminime al minuto, corrispondente al limite tradizionale tra “Moderato” e “Allegro”. Diremmo che, scrupoli filologici a parte, “Non allegro” renda bene il carattere della musica.
La seconda “danza” porta l’indicazione “Andante con moto (Tempo di valse)”, ma è di carattere ben più spettrale che gioioso. La terza e più ampia è aperta da un “Lento assai” che presto sfocia in un “Allegro vivace”, ma poi ritorna ripetutamente, intrecciando alla fine il tema gregoriano del Dies irae con un canto religioso russo, “Ti sono grato, o Signore”.
La partitura impegna a fondo gli esecutori, con i fiati “a tre” e un vasto insieme di percussioni. Il maestro Donato Renzetti, presenza frequente e sicura sul podio non solo sinfonico del Carlo Felice, ha concertato magistralmente, con la collaborazione del violino di spalla Elisabetta Garetti, non soltanto dal punto di vista strumentale, ma anche da quello della motivazione, infondendo all’Orchestra della Fondazione Teatro Carlo Felice, schierata per l’occasione con ben sessanta archi, una giustificata fiducia nei propri notevoli mezzi. Alla fine, i circa novanta strumentisti si sono associati all’intenso e prolungato plauso del pubblico insolitamente folto (ma ci sembra che il concerto fosse a ingresso gratùito). A nostro parere e gusto, il “(Non) Allegro” che apre le Symphonic dances ha costituto l’episodio culminante della serata, fors’anche grazie alla maggiore serratezza del pezzo rispetto ai due successivi della suite.
L’occasione celebrativa che vedeva Rachmaninov fare, come si dice, la parte del leone, non ha comunque diminuito l’interesse per il primo tempo del concerto. Non sappiamo a chi vada l’indubbio merito d’avere composto un programma così vario e interessante. Si era cominciato con la prima esecuzione assoluta della nuova versione per “attore, soprano e orchestra” di Arianna e il Minotauro, rivisitazione del mito greco derivata da Dürrenmatt, che capovolge il significato del racconto facendo del mostro una vittima della sfrenatezza e dell’astuzia umana. Autrice della musica è Silvia Colasanti. Nella forma che ha assunto ora, la composizione si presenta come un melologo-cantata. Il testo parlato è stato detto con sobria efficacia da Pietro Fabbri, beniamino del pubblico per la sua lunga e articolata collaborazione con il locale Teatro della Tosse. La parte melliflua d’Arianna è stata cantata con bravura e impegno dal soprano genovese Irene Cerboncini. Il carattere del pezzo rientra in quel filone di ricupero della drammaturgia musicale secentesca che ha portato la compositrice romana, qualche anno fa, a un esito di primo piano con la rielaborazione da Francesco Cavalli intitolata Eccessivo è il dolor quand’egli è muto. Non vogliamo tacere che l’assenza di qualsiasi informazione sulle parole cantate dal soprano ha fatto sì che, almeno per noi, il ricordo di Arianna e il Minotauro resti dovuto in primo luogo al testo recitato. Ne sono autori Giorgio Ferrara e René de Ceccatty e ci è sembrato di cogliervi qualche non troppo remota assonanza testoriana.
Già nel pezzo della Colasanti, accolto con viva cordialità, l’orchestra, in particolare la sezione dei violini, aveva potuto dimostrate la propria ottima condizione e simbiosi con il maestro Renzetti. Vertice musicale della serata erano i tre magnifici Nocturnes che Claude Debussy compose negli anni di Pelléas et Mélisande e poi rielaborò, si può dire, per tutto il resto della vita. Il terzo di questi pezzi, Sirènes, comporta l’intervento d’un coro femminile, che lo rende ancora oggi d’esecuzione meno frequente degli altri due. Le sedici voci sono state preparate e condotte con grande cura da Claudio Marino Moretti, maestro del Coro della Fondazione Teatro Carlo Felice. La linea interpretativa del maestro Renzetti, coadiuvato anche qui da un’orchestra quasi costantemente precisissima, è stata quella d’una oggettiva analiticità.
La recensione si riferisce al concerto del 15 settembre 2023.
Vittorio Mascherpa