Otello | Fabio Sartori |
Desdemona | Marina Rebeka |
Jago | Luca Salsi |
Cassio | Riccardo Della Sciucca |
Roderigo | Francesco Pittari |
Lodovico | Alessio Cacciamani |
Montano | Francesco Milanese |
Emilia | Caterina Piva |
Direttore | Zubin Mehta |
Regia | Valerio Binasco |
Scene | Guido Fiorato |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Luci | Pasquale Mari |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Maestro del Coro delle voci bianche | Sara Matteucci |
Orchestra, Coro e Coro delle voci bianche del Maggio Musicale Fiorntino |
Tra le molte formule con cui il melodramma tenta di sopravvivere alla crisi mondiale c'è quella della produzione completa di scene e confezionata per lo streaming, oppure, come nel caso dell'Otello fiorentino, per una trasmissione televisiva su rete nazionale in leggera differita, con un numero molto limitato di cronisti ammessi in sala per poter recensire lo spettacolo.
Si potrà criticare questa o quella singola scelta di Pereira, ma non si può non riconoscergli un impegno quasi spasmodico per tenere in vita il Teatro del Maggio, utilizzando tutte le soluzioni rese possibili dall'emergenza in corso, con opere e concerti sul tetto del teatro e dentro lo stesso, aperti o meno al pubblico, in streaming o in tv. L'Otello trasmesso da Rai 5 in differita di tre ore era stato programmato nel ricco cartellone predisposto in vista di un'auspicata e purtroppo eccessivamente ottimistica riapertura generale, poi cancellato e alla fine realizzato per una quasi-diretta sul piccolo schermo.
Questo titolo attira, per motivi non del tutto comprensibili, attese più accese ed inquiete rispetto alla maggior parte delle altre creazioni verdiane, in particolare per una presunta quasi impossibilità di reperire un protagonista adeguato. Vero è che la scrittura del personaggio eponimo ha caratteristiche peculiari, ma si tratta pur sempre di un ruolo tenorile, per quanto molto arduo, non ineseguibile, a meno di non esigere un esecutore che assommi in sé il metallo di Lauri Volpi, la monumentalità di Del Monaco, la drammaticità di Vickers e la morbidezza di Domingo, come parrebbe emergere da certi biechi battibecchi da social. È invece ragionevole che, pur entro certi steccati, ogni tenore che si senta adeguato alla parte la affronti. Con serietà certo, ma anche con la necessaria serenità di chi non sta scalando una montagna.
A Firenze Fabio Sartori ha debuttato nel ruolo principale uscendone dignitosamente, come era prevedibile conoscendo la sua professionalità, la solidità dei mezzi e la sicurezza con cui abitualmente li usa. Certo, la prudenza del primo approccio può cogliersi in un'esecuzione più attenta alla correttezza vocale che alla ricerca di una propria personale lettura del personaggio, al di là delle dichiarazioni di intenti della vigilia volte a sottolineare, in modo anche un filo prevedibile, il mutamento del gusto e l'esigenza di “liricizzare” un personaggio che la tradizione vorrebbe affidare a voci enormi e scure. Il tenore possiede volume mediamente robusto, dal colore moderatamente scuro e dalla buona estensione in alto, ma annaspa un po' nel registro grave, chiamato spesso in causa. Arriva comunque alla fine dei quattro impegnativi atti senza eccessivi affanni, senza forzare e senza mai inchiostrare il timbro. Manca (o non c'è ancora) il carattere di un grande personaggio shakespeariano, oltre che verdiano; manca il momento bruciante che si lascia ricordare alla fine dell'esecuzione, qualcosa che vada oltre il possedere le note della parte. I suoi limiti esecutivi si concentrano per lo più nel primo atto, con non disprezzabili ma comunque cauti momenti dell'“Esultate” e di “Abbasso le spade” e con un duetto con Desdemona musicalmente non ineccepibile, anche a causa dei tempi dilatati di Mehta di cui si dirà.
Sua partner sulla scena una Marina Rebeka che pare essersi indirizzata sui ruoli pienamente lirici verdiani dei quali possiede il temperamento, ma forse non tutte le caratteristiche che certe parti richiederebbero. Mancano in particolare una maggiore rotondità nei centri e una pienezza di suono nelle note gravi che il Verdi maturo chiama spesso in causa. Al netto di ciò, di una dizione migliorabile e di una nota in piano che si è spezzata nell'ultimo “Prega” dell'“Ave Maria”, il soprano dà vita a una Desdemona di gusto moderno, sicura e sonora in zona medio acuta, capace anche di bellissime ed espressive smorzature (una magistrale su “Per lui ti prego” nel secondo atto) e assai eloquente nella grande scena che precede la sua morte.
Luca Salsi è l'unico fra i tre interpreti principali ad aver già affrontato il proprio ruolo e si mette in luce per un'aderenza alla parola scenica di alta scuola, scegliendo di alleggerire l'emissione fin quasi a prosciugare il timbro per privilegiare il mellifluo sussurro rispetto all'ostentazione dei suoi consistenti e ben noti mezzi. È una scelta non solo legittima ma anche condivisibile per disegnare la figura di Jago, specie se i risultati sono quelli uditi a Firenze, dove il personaggio è interessante da ascoltare in ogni frase, tutte per altro scandite con una nitidezza esemplare.
In Salsi pare avvertirsi una certa secchezza timbrica nel primo atto, ma anche qui il sospetto è che i tempi del direttore abbiano messo a dura prova la tenuta dei fiati di tutti gli interpreti. È stato piuttosto sconcertante, in effetti, un inizio di recita la cui morchiosa lentezza ha riportato alla mente il Verdi che Zubin Mehta dirige a Firenze da almeno sei anni, ovvero da quel Falstaff del 2014 in cui si scriveva, rispettosi della storia del direttore-simbolo del Maggio degli ultimi trent'anni abbondanti, di un approccio “riflessivo” a certe partiture, salvo poi rilevare nelle prove verdiane successive che il braccio pareva essersi davvero appesantito. Strano, considerando ad esempio l'esito davvero esaltante della Creazione di Haydn di poche settimane or sono, ma di altra partitura si trattava e nel repertorio tedesco Mehta non ha davvero mai deluso.
In questo Otello si può tirare in ballo una lettura in cui le passioni sono volutamente stemperate, si possono lodare la precisione e gli equilibri sonori, ma resta il fatto che il primo atto rasenta la vera e propria stasi, perdendo gran parte della tensione drammatica. Solo a partire dal secondo atto il ritmo diviene un minimo più serrato, non senza qualche momento di vera pesantezza, come nella coda orchestrale a “Sì. Per ciel marmoreo giuro” o in quella che nel terzo atto segue “Quella vil cortigiana che è la sposa di Otello”. E solo nell'atto finale la lentezza ancora molto marcata assume un suggestivo connotato espressivo, accompagnando in modo commosso e solenne la grande scena di Desdemona che diviene un'unica lunga, struggente preghiera e con la sua uccisione risolta con raggelante ieraticità e senza spreco di decibel. All'attivo della direzione di Mehta vi sono anche la nitidezza e la purezza del suono orchestrale di una compagine tanto più da lodare considerando il disagio di dover suonare (chi può) con le mascherine. Il coro diretto da Lorenzo Fratini è protagonista dell'ennesima eccellente prova e dà vita - grazie anche all'orchestra e a un Mehta autore lì di un notevole crescendo di vibrante energia - a un'esecuzione del concertato nel finale del terzo atto davvero grandiosa.
Tornando ai cantanti, i ruoli secondari sono ben distribuiti, come spesso accade a Firenze di recente, a partire dalla sicura e sonora Emilia di Caterina Piva e dal preciso, centrato e ancora un filo acerbo Cassio del giovane Riccardo Della Sciucca. Bene anche Francesco Pittari (Roderigo), Alessio Cacciamani (Lodovico), Francesco Milanese (Montano) e Francesco Samuele Venuti (Un araldo).
Resta da dire solo dello spettacolo di Valerio Binasco, che ha lasciato come minimo perplessi per la mancanza di un disegno comprensibile, al di là delle note di regia contenenti uno spiegone, che pare un po' tirato per i capelli, sull'avere immaginato “un luogo sotto assedio che attende l’arrivo del suo salvatore, il suo condottiero: Otello. Cipro, come Sarajevo ai tempi della guerra o come una città della Siria ai tempi d’oggi, aspetta trepidante l’arrivo del suo eroe che appartiene ad un altro popolo”. Ciò che potrebbe essere astrattamente plausibile per i primi cinque minuti dell'opera (ma perché poi i ciprioti dovrebbero essere devastati come Sarajevo o la Siria? Fanno parte della ricca repubblica veneta e in fin dei conti lottano per proteggere la propria opulenza dagli attacchi dei musulmani) porta alla conseguenza di una scena sostanzialmente fissa che rappresenta un luogo imprecisato, atemporale come d'uso (e l'atemporalità si rivela nelle fogge dei costumi, di epoche varie), “distopico”, tanto per restare nei cliché dei tempi recenti.
Tutto opprimente, cupo (post-atomico, si sarebbe detto durante la guerra fredda, ora è in voga la distopia), tra macerie e rovine, con le vicende personali dei protagonisti inquadrate in piccoli ambienti da dramma borghese introdotti un po' a forza sul solito sfondo di macerie. C'era a monte l'evidente limite di non poter muovere le masse per le regole imposte dall'emergenza Covid e resta il rispetto dovuti ai responsabili della parte visiva per avere lavorato in condizioni che si immaginano a dir poco difficili, riuscendo a dar vita a uno spettacolo che quanto meno prova ad avere un carattere, tecnicamente ben confezionato, con qualche momento indovinato grazie ad effetti di luce suggestivi e uno sfondo con lo squarcio di cielo post-tempesta di un grigio-azzurro bello da vedere. Però al finale del terzo atto addobbato con i festoni da sagra di paese con in scena Otello vestito da Compare Turiddu si smette definitivamente di pensare a quanto si vede e ci si concentra sulla musica.
La chiusura definitiva del sipario con i protagonisti che escono al proscenio a salutare un pubblico inesistente (noi pochi ammessi per scrivere la cronaca dello spettacolo non contiamo) e applauditi solo dagli orchestrali è raggelante e, pure questo, davvero distopico.
La recensione si riferisce alla rappresentazione del 30 novembre 2020.
Fabrizio Moschini