Minnie | Carmen Giannattasio (24 gennaio) |
Ann Petersen (28 gennaio) | |
Dick Johnson | Angelo Villari (24 gennaio) |
Amadi Lagha (28 gennaio) | |
Jack Rance | Claudio Sgura (24 gennaio) |
Gustavo Castillo (28 gennaio) | |
Nick | Paolo Antognetti |
Ashby | Nicolò Donini |
Sonora | Francesco Salvadori |
Trin | Cristiano Olivieri |
Sid | Dario Giorgelè |
Bello | Paolo Ingrasciotta |
Harry | Orlando Polidoro |
Joe | Cristobal Campos Marin |
Happy | Paolo Maria Orecchia |
Larkens | Yuri Guerra |
Billy Jackrabbit | Zhibin Zhang |
Wowkle | Eleonora Filipponi |
Jake Wallace | Francesco Leone |
José Castro | Kwangisk Park |
Un postiglione | Enrico Picinni Leopardi (24 gennaio) |
Pasquale Conticelli (28 gennaio) | |
Direttore | Riccardo Frizza |
Regia | Paul Curran |
Scene e costumi | Gary McCann |
Luci | Daniele Naldi |
Maestro del Coro | Gea Garatti Ansini |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
Nell’epistolario di Giacomo Puccini si trova per la prima volta un accenno a Belasco e all’ambientazione nel West in una lettera da New York a Tito Ricordi del 18 febbraio 1907. Nel gennaio precedente il compositore aveva assistito al dramma The girl of the Golden West di David Belasco, che trionfava da mesi a Manhattan, (su indicazione di un suo amico, il marchese Piero Antinori, che aveva già presenziato alla pièce). Puccini ne rimase subito colpito, tanto che concluse rapidamente le trattative per la cessione dei diritti. Ma non decise subito di dare il via alla composizione, tanto che ancora nel luglio dello stesso anno in una lettera a Carlo Clausetti si dice di avere “l’dea fissa a due cose: una americana del West, molto caratteristica e viva, e l’altra intorno alla rivoluzione con M. Antonietta”. Il lavoro vero e proprio ebbe inizio solo nell’estate del 1908, con la collaborazione dei librettisti Carlo Zangarini e Guelfo Civinini e fu terminata nel luglio 2010. Destinata a Gatti Casazza, direttore del Metropolitan, la “prima” ebbe luogo il 10 dicembre 1910 con successo epocale. Basti dire che per la seconda rappresentazione, fatto unico nella storia del teatro, vennero raddoppiati i prezzi. Dirigeva Toscanini, il terzetto dei protagonisti era costituito da Emmy Destinn, Enrico Caruso e Pasquale Amato, mentre tra i ruoli minori spiccavano i nomi di Andrès De Segurola (Jake Wallace), Adam Didur (Ashby) e Antonio Pini Corsi (Happy). Puccini restò a New York più di un mese, coccolato, vezzeggiato, era l’uomo del giorno; e fa un po’ sorridere di come “il povero organista di Lucca” indugi a descrivere tra il compiaciuto e il divertito il lusso del Knickerbocker Hotel e gli agi dell’appartamento assegnato dal Metropolitan a lui e al figlio Tonio: “Abbiamo quattro stanze, due bagni, luce a profusione, pranzi luculliani, tutto pagato”. E il successo arrise altrettanto clamoroso e incondizionato per tutte le repliche alla “Girl”, come il maestro avrebbe sempre nominato l’opera (“non la chiamerò mai Fanciulla anche per le due sillabe ultime: perché ho paura che siano per me”). Lo spirito del toscanaccio non veniva mai meno.
Il successo, anche se meno clamoroso che a New York, arrise anche alla “prima” italiana alla Teatro Costanzi di Roma il 12 giugno 1911, sempre con Toscanini sul podio e Pasquale Amato come Jack Rance. Minnie sarebbe dovuta essere Carmen Melis, ma fu sostituita da Eugenia Burzio, così come Amedeo Bassi prese il posto di Caruso, alternandosi con un giovane Giovanni Martinelli. Poi nella folta schiera delle parti minori figuravano Ramón Blanchart come Sonora, Antonio Pini Corsi come Joe e addirittura José Mardones come Jake Wallace. Ma il successo dell’opera alla lunga non fu così incondizionato come quello di altre consorelle, sia nel pubblico sia nella critica. Una volta riconosciuta la ricchezza, la modernità, l’originalità della parte orchestrale, pur con troppi spiazzanti rimandi alle tendenze d’oltralpe, soprattutto di marca francese, venivano a mancare alcune delle tipiche espansioni melodiche pucciniane, sostituite spesso e volentieri da un declamato che costringe (o meglio costringerebbe) l’esecutore a concentrarsi sul fraseggio e sul significato della parola, più che su bellurie vocali. Inoltre ci mise del suo anche la nascente industria cinematografica con una serie di film western spesso di alta qualità, che palesarono l’ingenuità e talora la goffaggine della “Girl” di Zangarini e Civinini. E a spiazzare è anche il carattere della protagonista, così diversa dalle precedenti eroine pucciniane, energica, indipendente, forte, eppure estremamente femminile e appassionata. Ma non si può non essere d’accordo con le parole di Gianandrea Gavazzeni (che ricordo sopraffino interprete della Fanciulla del West al Teatro Comunale di Firenze nel 1974 e nella ripresa dell’anno seguente) riportate nel programma di sala bolognese in un bel saggio del 1958: “…per Fanciulla del West il complessivo movimento pucciniano si vale di un elemento preminente: l’orchestra. Persino i più severi giudici hanno sempre concordemente ammesso all’orchestra della Fanciulla eccezionale valore. Ho notato prima che la predilezione di due grandi direttori (Mitropoulos e De Sabata (n.d.r.) era da indicare quale segno caratteristico”.
La Fanciulla del West mancava a Bologna dal 1989 e la presente edizione è la dodicesima a partire dal 1913, considerando, oltre al Teatro Comunale, anche le rappresentazioni al Teatro del Corso, al Verdi, all’Arena del Sole e al Teatro Duse, vedendo sfilare direttori come Tullio Serafin, Franco Capuana, Gianandrea Gavazzeni, Oliviero De Fabritiis e Daniel Oren; soprani come Lucia Crestani, Emilia Piave, Iva Pacetti, Gilda Dalla Rizza, Franca Somigli, Maria Carbone, Gigliola Frazzoni. Tra i tenori: Luigi Bolis, Aureliano Pertile, Ismaele Voltolini, Rinaldo Grassi, Franco Lo Giudice, Giuseppe Lugo, Mario Del Monaco, Roberto Turrini, Franco Corelli, Gastone Limarilli, Nunzio Todisco, Nicola Martinucci. Tra i baritoni: Edoardo Faticanti, Arturo Romboli, Domenico Viglione Borghese, Piero Biasini, Vincenzo Guicciardi, Gian Giacomo Guelfi, Giuseppe Taddei, Silvano Carroli.
Riccardo Frizza, qui al suo debutto nell’opera (come anche Carmen Giannattasio e Paul Curran), dà una lettura musicalissima, ricca di sfumature, senza mai indulgere ad eccessi sentimentali. Sono inoltre banditi singhiozzi, risate, grida, che da sempre imperversano nelle esecuzioni di quest’opera, senza per questo che gli interpreti vengano meno a sottolineature espressive talvolta anche inedite nella loro efficacia. Aggiungerei solo che a forza di smussare effetti e anche effettacci, ripulire, calibrare, si corre talvolta il rischio di abbassare la temperie emotiva. La ricchezza di colori e l’attenzione ai piani timbrici non inficiano l’equilibrio sonoro tra orchestra e palcoscenico, con un’attenzione rara alle voci, che non vengono mai sommerse dai marosi orchestrali. Sono ripristinate inoltre le temibili (per i cantanti) sedici battute che Puccini aggiunse al duetto del II atto “In estasi santa d’amore” nell’ottobre del 1922 (e apparsa sullo spartito Ricordi del 1925), che portano le due voci fino al do acuto. Taglio quasi sempre praticato per la difficoltà di esecuzione, qui risolta con onore. Riccardo Frizza era coadiuvato dall’Orchestra e dal Coro del Teatro Comunale (diretto da Gea Garatti Ansini) al loro meglio.
Lo spettacolo, affidato a Paul Curran, con la collaborazione di Gary McCann per scene e costumi e Daniele Naldi per le luci, si compone di interni lignei realistici per i primi due atti, con, nel primo, un’apertura sul fondo che lascia intravedere il paesaggio e il cielo californiani. Nel terzo, invece prevale l’astratto con tronchi stilizzati. Ben realizzati i movimenti delle masse e curata la recitazione dei solisti.
Nella serata inaugurale la protagonista era Carmen Giannattasio. La parte di Minnie è notoriamente molto scabrosa. Richiede centro e gravi sonori, ma il soprano deve inerpicarsi spesso e volentieri ad acuti talvolta molto scomodi, fino al do5. Inoltre è richiesta fantasia nel canto di conversazione e presenza scenica e movenze da vera cantante attrice. Carmen Giannattasio è all’altezza del compito da tutti i punti di vista, con voce sonora, duttile, fraseggio sottile, scioltezza attoriale. I do acuti sono un poco tirati, ma plausibilissimi e, come si dice in Toscana, cent’ori rispetto a certe esecuzioni di interpreti anche illustri.
Ben delineato anche il Dick Johnson di Angelo Villari. Parte un po’ col freno a mano tirato, ma poi si scioglie. Così il si acuto di “Amai la vita e l’amo, e ancor bella m’appar” non è punto bello, ma già il valzer “Quello che tacete me l’ha detto il cor”, nonostante insista su una tessitura per niente comoda, è morbido e dolce, come del resto tutto il duetto finale del primo atto. “Or son sei mesi” ha lo slancio e l’accoramento richiesti e non viene persa l’occasione di lasciar un buon ricordo di sé nel brano più famoso dell’opera: “Ch’ella mi creda”.
Claudio Sgura è uno sceriffo ben sperimentato, forte di una presenza scenica prorompente, che l’artista sa sfruttare alla perfezione; forte anche di una voce un po’ ruvida, sonora, che si adatta perfettamente al carattere del personaggio; gli si può solo rimproverare una certa perdita di timbro nell’ascesa agli acuti (vedi il fa diesis al termine di “Minnie, dalla mia casa son partito”).
Perfetto il Nick squillante, giovanile, scattante di Paolo Antognetti e corretto Nicolò Donini come Ashby.
Ho potuto apprezzare Francesco Salvadori, prossimo Guglielmo a maggio in Così fan tutte al Comunale Nouveau, più volte; l’ultima come Achilla di tutto rispetto nel Giulio Cesare händeliano al parigino Théâtre des Champs-Élysées. Il rilievo dato a Sonora in questa Fanciulla del West è fuori discussione, per presenza scenica, caratterizzazione del personaggio e vocalità.
Ben cantato con la giusta dose di malinconia il Jake Wallace di Francesco Leone, incisivo il José Castro di Kwangisk Park e ben reso anche il Larkens di Yuri Guerra.
Ma meritano una citazione anche tutti gli altri minatori: Cristiano Olivieri (Trin), Dario Giorgelè (Sid), Paolo Ingrasciotta (Bello), Orlando Polidoro (Harry), Cristobal Campos Marin (Joe), Paolo Maria Orecchia (Happy), ai quali si aggiungono Zhibin Zhang (Billy Jackrabbit), Eleonora Filipponi (Wowkle), Enrico Picinni Leopardi (Un postiglione).
Nella replica del 28 gennaio mutavano i tre protagonisti e il Postiglione (Pasquale Conticelli).
Tutto sommato apprezzabile la prova di Amadi Lagha (Dick Johnson). Il tenore franco-tunisino ha voce che si espande agevolmente, molto timbrata e gradevole. Quando si tratta di esibire note isolate nel registro acuto colpisce per l’insolenza e la facilità di emissione, cosicché il si3 di “Amai la vita e l’amo, e ancor bella m’appar” riempie il teatro ed è molto bello. Più difficoltoso è invece il legato. Inoltre talvolta in certe frasi di particolare tensione tende a scomporsi (vedi il finale di “Or son sei mesi”) e qua e là la musicalità non è ineccepibile. Ma Lagha in una parte che tende spesso e volentieri al declamato è complessivamente credibile e rende un bandito spaccone, estroverso, amoroso, meno elegante di Villari ma più immediato.
Gustavo Castillo, che avevo già ascoltato in Madama Butterfly e nei Vespri siciliani, delinea uno sceriffo protervo e insolente con la sua bella voce timbrata e sonora che sa piegarsi a frasi amorose quando cerca di esprimere a Minnie i suoi sentimenti.
Purtroppo la scelta della protagonista non si è rivelata felice. Ann Petersen è un soprano danese che ha frequentato soprattutto Wagner e Strauss. L’avevo ascoltata cinque anni fa come Isolde e ne avevo ricavato un’impressione complessivamente positiva come cantante e come interprete. Riascoltata oggi mi è sembrato di sentire un’altra cantante. Passi il fatto che la presenza scenica sia piuttosto lontana dall’idea che possiamo avere di Minnie, troviandoci di fronte a una specie di walkiria che sopravanza di almeno un palmo quasi tutti i colleghi e coristi (ad eccezione di Sonora). Ma si sa che nell’opera la presenza scenica può essere un optional: quante volte ci siamo imbattuti in Turandot che facevano pensare all’urgente necessità per Calaf di un buon paio di occhiali o in interpreti di Butterfly che potevano suscitare ilarità nel dichiarare la loro età, ma di fronte a un canto appassionato, una recitazione coinvolgente, tutto passava in second’ordine. La cantante si muove comunque con una certa disinvoltura, ma purtroppo l’ho trovata inadatta alla parte soprattutto vocalmente. Non saprei dire se la pesantezza delle scelte artistiche nel corso degli anni di carriera abbiano influito sulla prestazione dell’altra sera, oppure se il soprano non si trovasse in condizioni ottimali di salute, fatto sta che a fronte di una voce dura e difficilmente manovrabile, con un registro grave poco udibile, si palesa un centro poco fermo e un registro acuto trafittivo che col progredire della recita diviene sempre più problematico. Peccato, perché in altro repertorio l’avevo trovata un’artista interessante. Il pubblico sembra però gradire, tributandole seppur parchi applausi.
Dunque complessivamente una buona produzione quella andata in scena il 24 gennaio, serata inaugurale della stagione 2025, in cui una platea più in ghingheri dell’usato per il pubblico bolognese (ma non sempre il desiderio di farsi belli era assistito da un gusto sopraffino) decreta allo spettacolo solo un successo moderato, essendo molti degli spettatori presenti evidentemente più interessati ad esibire le toilette che a lasciarsi andare al flusso della musica. La platea del 28 gennaio sarebbe stata più disposta a lasciarsi andare alle emozioni pucciniane, e infatti gli applausi rivolti a tenore, baritono e direttore sono piuttosto calorosi, ma è raffreddato da una protagonista inadeguata.
La recensione si riferisce alle recite del 24 e 28 gennaio 2025.
Silvano Capecchi