Catone | Valentino Buzza |
Cesare | Giorgia Rotolo |
Marzia | Ewa Gubanska |
Arbace | Rui Hoshina |
Emilia | Loriana Castellano |
Fulvio | Chiara Osella |
Direttore | Federico Maria Sardelli |
Orchestra Modo Antiquo |
Ci sembra abbastanza insolito ascoltare un’opera incompleta del prim’atto anziché del finale, come ad esempio Turandot e Moses und Aron. Ma proprio questo è stato il caso di sabato 27 luglio all’apertura del Festival Opera Barga 2019, che fino al primo martedì d’agosto presenterà altri nove concerti (dei quali tre a Lucca).
La “riscoperta” del Vivaldi teatrale è tuttora un work in progress. Anche se il numero di novantaquattro opere, che egli s’attribuì verso la fine della vita, è riferito oggi più alle messinscene che alle composizioni propriamente dette, sono stati finora identificati ben quarantanove titoli; di ventidue sono note le partiture autografe, delle quali però solo sedici complete. In queste non rientra il Catone in Utica, presentato a Verona nella Quaresima 1737 modificando radicalmente un libretto di Metastasio, scritto una decina d’anni prima per Leonardo Vinci, di cui sino al 1791 si conteranno in tutto quasi trenta musicazioni, talvolta dovute a operisti celeberrimi non solo allora. Del Catone in Utica di Vivaldi si conoscono solo gli ultimi due atti: agli estesi recitativi (nella cui arte eccelsero sia il futuro “poeta cesàreo”, sia il nostro compositore), s’aggiungono le sette arie del secondo e, nel terzo, tre arie, un recitativo accompagnato, un duetto (in realtà un’aria “in eco”), più il coro finale. Nel primo atto, il testo di Metastasio contiene altre sette arie, ma allo stato attuale della ricerca non è noto di che musica l'abbia rivestito Vivaldi. Colpisce non poco che il compositore, anticipando una pratica che sappiamo cara a certi registi d’oggi, abbia alterato a fondo la conclusione dell’opera, eliminando lo storico suicidio di Catone, persuaso non si sa come a rinviarlo: dell’accomodamento ci danno poco credibile notizia le faticose parole che qualcuno scrisse sostituendo quelle originali. Nulla di grave, del resto, per chi, come noi, ben più che alla maestosità del dantesco “veglio solo, degno di tanta reverenza”, guardiano del Purgatorio sorpreso e contrariato dai due strani intrusi, associa da un pezzo il nome di Catone Uticense alle impagabili prese in giro che ne ha lasciato Brecht nei suoi Affari del signor Giulio Cesare.
Una ventina d’anni fa la partitura acefala fu integrata per la “prima ripresa in tempi moderni” da Jean-Claude Malgoire, che imitò lo stile dei recitativi e adattò alle arie del libretto musiche prese da altre opere vivaldiane. Più che logica, visto anche il carattere di prologo del primo atto, ci è parsa la decisione di Federico Maria Sardelli, oggi senza dubbio uno dei maggiori esperti di Vivaldi, di eseguire solo e tutto quello che è autografo. La scelta è ben sorretta dall’attacco in medias res del secondo atto, più o meno come avviene nella Traviata: se si cominciasse l’opera verdiana con la scena d‘Alfredo gli ascoltatori perderebbero delle gran belle cose (e il soprano, talvolta, qualche fischio…), ma il dramma rimarrebbe comprensibile. Nel caso del Catone in Utica non si hanno nemmeno rimpianti, perché nessuno conosce la musica del primo atto, ma tutti sappiamo che i grandi Autori fanno sempre diverso da quel che gli s’attribuisce anche conoscendoli a fondo. Dobbiamo osservare che il programmino (gratùito) di sala si riduce alle biografie degl’interpreti e a una “sinossi” che racconta, però, la trama della versione originale metastasiana; né indicazioni più precise sull’opera contiene il libretto, venduto a parte, in cui le parole delle arie del secondo e del terzo atto sono prese dalla partitura vivaldiana. A Barga l’opera è stata eseguita in forma d’oratorio (o, come si preferisce dire oggi, “di concerto”), con i recitativi conformi agli accorciamenti vivaldiani, molto abili e pertinenti nel secondo atto. Dopo una “sinfonia” tripartita, con finale à la chasse, scelta molto bene da Sardelli nello sterminato catalogo vivaldiano, i quasi settanta minuti fino all’intervallo sono volati in un susseguirsi teso di arie dei più diversi “affetti”, pausate da recitativi di grande efficacia che si sono rapidamente definiti come veri e propri contrasti drammatici tra personaggi in carne e ossa.
Nel 1737, a fianco di Catone, tipico tenore “eroico” settecentesco, due delle altre figure maschili (Cesare e Arbace, entrambi soprano) furono affidate a castrati; la terza, Fulvio, a una cantante travestie (contralto). In quest’occasione Sardelli ha optato per sostituire entrambi i castrati con voci femminili, sì che il cast ha schierato cinque di queste contro una sola maschile. Ma la loro differenza timbrica e la definizione di cui si sono dimostrate capaci le artiste hanno evitato ogni monotonia. Al sesso reale dei personaggi s’è alluso con discrezione, facendo comparire le interpreti di Marzia ed Emilia in classiche mises lunghe femminili, le altre in eleganti pantaloni.
Tutti i sei interpreti vocali si sono dimostrati bene all’altezza del loro compito. Anche i ruoli d’impegno minore (Arbace e Fulvio), dai quali sabato s’è sentita un’aria ciascuno, contengono difficoltà tali da richiedere un dominio completo e sagace della messa di voce e della tecnica d’agilità. Avevamo già avuto modo d’ascoltare Rui Hoshina lo scorso febbraio a Venezia, nella breve arietta encomiastica di Licenza che porta alla conclusione il mozartiano Sogno di Scipione, e scrivemmo che speravamo di ritrovarla presto in un’altra occasione più impegnativa. A Barga il giovane soprano giapponese ha soddisfatto la nostra curiosità e le nostre aspettative cantando con eccellenza la prima aria della serata (“S’andrà senza pastore”) e partecipando con adeguata espressione a molti recitativi. Come prevedibile dal suo curriculum, una forte personalità e doti belcantistiche non comuni ha sfoggiato Chiara Osella, interprete del personaggio di Fulvio, legato senatoriale in bilico tra l’attrazione per Emilia, la vedova di Pompeo di cui era stato seguace, e la fedeltà a Cesare, di cui ha ora abbracciato il partito. Impegnata nell’aria “Degl’Elisi dal soggiorno”, in cui Vivaldi dimostra una sensibilità anticipatrice dello Sturm und Drang, la Osella ha dimostrato una voce omogenea, ben timbrata nel registro grave e sicura nelle ascese. Anch’ella ha partecipato in modo scultoreo ai recitativi.
Due arie, la virtuosistica “Come invano il mare irato” che conclude il second’atto dell’opera, e “Nella foresta leone invitto” sono appannaggio d’Emilia, i cui “affetti” si muovono tra desiderio di vendetta e insoddisfazione. Ha dato loro voce sontuosa, unita a mimica facciale espressiva e sobria gestualità, il mezzosoprano Loriana Castellano, che esordì quattordici anni fa, come Fulvio, proprio con quest’opera, e che in seguito ha collaborato frequentemente con il maestro Sardelli. Il ruolo d’Emilia s’estende in acuto, così che lo si definisce di soprano, ma richiede nel registro medio risonanze tali da rendere opportuno farlo cantare, come in questo caso, a un “mezzo”.
Due arie, “Il mio povero core” e “Se parto, se resto”, spettano a Ewa Gubanska, interprete di Marzia, la figlia di Catone innamorata di Cesare; ad esse s’aggiungono gl’interventi in eco nel “duetto”, con la “vocalità sillabica e fratta” attribuita da Franco Piperno ad Anna Girò, prediletta di Vivaldi e prima interprete del personaggio. Il giovane mezzosoprano polacco è padrone d’una voce omogenea, ben controllata in tutti i registri, e ci sembra avere accentuato il lirismo più che la disperazione, più la volontà di non contrariare il padre che la speranza d’unirsi a Cesare.
Questi è il personaggio musicalmente più vario del grande “torso” eseguito a Barga: balza in primo piano con “Se mai senti spirarti sul volto”, un’ampia aria di vagheggiamento improntata a una flessuosità melodica che dimostra Vivaldi a giorno delle innovazioni pergolesiane. Guerresca è invece “Se in campo armato”, che segue a uno splendido recitativo di scontro con Catone in presenza di Marzia, alla quale è rivolta la contrastante sezione centrale “Delle tue lagrime”. Un nuovo lato della personalità di Cesare mostra nel terzo atto “Sarebbe un bel diletto”, che ne svela il disincanto amoroso. A questa sfaccettata figura musicale ha dato vita il ventiseienne soprano genovese Giorgia Rotolo, padrona d’un perfetto controllo del canto unito a forza espressiva e a una bella disinvoltura d'attrice.
Nel ruolo del titolo ha cantato Valentino Buzza. Il tenore catanese, Scipione lo scorso febbraio a Venezia, possiede un timbro ricchissimo nel registro medio-basso, oggettivamente ideale per il personaggio di Catone. Le agilità di “Dovea svenarti allora”, un capolavoro di disperato furore, sono risolte impeccabilmente; le prese di fiato avvengono sempre in funzione dell’espressività drammatica; fine è il controllo della dinamica tra mezzoforte e forte. Queste doti, tutt’altro che comuni, sono poi confermate nel recitativo accompagnato “Vinceste inique stelle”, che dovrebbe portare lo sconfitto al suicidio, e nel disperato duetto “Fuggi dal guardo mio”, con la voce di Marzia in eco, che concludono la sua presenza.
La parte strumentale dell’opera, estremamente bella, ha trovato esecutori di grande timbro e scatto nell’Orchestra Modo Antiquo, fondata originariamente nel 1984 da Sardelli per l’esecuzione della musica medievale, dal 1987 attiva prevalentemente nel repertorio sei-settecentesco e proprio a Barga protagonista di un’importante fase della riscoperta del Vivaldi operistico. In quest’occasione schiera due legni, quattro ottoni e nove archi, con violoncello e contrabbasso accostati al clavicembalo per sostenere splendidamente i recitativi. Il direttore livornese realizza colori accattivanti, molto “veneziani”, e predilige tempi serrati, sempre in felice relazione drammatica tra di loro, dimostrando una straordinaria sensibilità nelle corone, intese e rese sempre come pause che creano slancio drammatico. Ci sia permesso d'osservare, molto sottovoce, che il taglio piuttosto drastico operato da Vivaldi sui recitativi del terzo atto, in particolare nelle ultime due scene finali dopo il duetto Catone-Marzia, rende il lieto fine ancora più incredibile all'ascolto che alla lettura del libretto. Come ci è pervenuto, il terzo atto, di circa mezz'ora, dura meno della metà del secondo.
Gremita la platea del Teatro dei Differenti, piccolo gioiello splendidamente restaurato e mantenuto; alla fine, applausi unanimi e intensi del buon centinaio d’attentissimi e silenziosi ascoltatori, molti dei quali American speaking, con entusiasmo per Giorgia Rotolo, Valentino Buzza e Federico Maria Sardelli. Crediamo che nessuno abbia sentito la mancanza d’una messinscena. Purtroppo, con l’unica replica la sera immediatamente successiva, ci sembra molto difficile l’effetto del “passaparola”, che aumenta sempre la presenza del pubblico agli “eventi” meritevoli d’attenzione, o d’ammirazione come questo.
La recensione si riferisce all’esecuzione in forma di concerto del 27 luglio 2019.
Vittorio Mascherpa