Moïse | Michele Pertusi |
Pharaon | Adrian Sâmpetrean |
Anaï | Janine De Bique |
Aménophis | Pene Pati |
Sinaïde | Vasilisa Berzhanskaya |
Eliézer | Mert Süngü |
Marie | Géraldine Chauvet |
Osiride / Une voix mystérieuse | Edwin Crossley-Mercer |
Aufide | Alessandro Luciano |
Elegyne, princesse syrienne | Laurène Andrieu |
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | Tobias Kratzer |
Scene e costumi | Rainer Sellmaier |
Luci | Bernd Purkrabek |
Coreografia | Jeroen Verbruggen |
Video | Manuel Braun |
Maestro del Coro | Richard Wilberforce |
Orchestra e Coro dell'Opéra de Lyon |
Rappresentata a Parigi nel 1827, Moïse et Pharaon è un adattamento e un ampliamento di Mosè in Egitto, quest’ultima scritta per il Teatro San Carlo di Napoli e ivi andata in scena nel 1818. Adeguandosi ai gusti del pubblico e alle consuetudini della sala di rue Le Peletier, Rossini aggiunse cori, pezzi d’insieme, marce, balli risultando alla fine un’opera ben diversa dalla versione napoletana, quest’ultima più stringata e drammaticamente più scolpita (indimenticabile l’apertura che ci porta immediatamente in medias res con la scena delle tenebre). Moïse et Pharaon è innanzitutto in francese, poi gli atti passarono da tre a quattro e il primo fu quello che più di tutti si rivestì di nuova musica. Furono poi espunte tutte le arie solistiche presenti nel Mosè in Egitto tranne quella di Elcia «Porgi la destra amata» che però passò a Sinaïde, naturalmente non solo con nuovo testo ma pure in una nuova collocazione.
La grande scena di Anaï invece fu composta di sana pianta, mentre echi di Armida e di Bianca e Falliero serpeggiano nel corso dell’opera. Furono inoltre riscritti tutti i recitativi e arricchita l’orchestrazione. Il successo fu non meno che travolgente anche grazie ad un cast di interpreti che sono entrati nella storia della vocalità (Nicolas Levasseur, Moïse, Henri-Bernard Dabadie, Pharaon, Adolphe Nourrit, Aménophis, Laure Cinti- Damoreau, Anaï). Moïse et Pharaon per molti aspetti anticipò varie caratteristiche del grand-opéra francese, il cui primo esempio è considerato La muette de Portici di Auber, che vedrà la luce nemmeno un anno dopo.
Rispetto alla sera precedente, il 9 luglio al Théâtre de l’Archevêché di Aix-en-Provence si respirava tutt'altra aria. Se Satoshi Miyagi e in parte anche Raphaël Pichon tendevano a congelare il dramma di Idomeneo in una successione di quadri un po' asettici (vedi recensione), col rossiniano Moïse et Pharaon era viceversa un rutilare di ritmi, colori, movimenti, sia nella musica sia sulla scena.
Tobias Kratzer può talvolta apparire eccessivo, iconoclasta, ma le sue regie sono inattaccabili da almeno due punti di vista: la tecnica e la chiarezza. Il regista tedesco porta l’opera rossiniana nella contemporaneità. Quindi niente interventi divini e niente Egitto (d’altra parte nella musica non troviamo alcun accenno di colore locale), mentre le piaghe che ammorbano la terra sono in gran parte causate dall’incuranza e dalla colpevole negligenza degli stessi uomini. Quindi le “tenebre” sono causate da un blocco dell’energia elettrica e dei sistemi informatici e le altre calamità, complici grandi schermi sui quali scorrono inquietanti filmati, si manifestano in paesi martoriati dalla siccità, dalle alluvioni, dagli incendi, dalle eruzioni vulcaniche. Il palcoscenico all’inizio è diviso in due parti: a destra gli uffici modernissimi e asettici di Pharaon e dei suoi sudditi, vestiti impeccabilmente, coloro che fanno parte della società dominante e hanno in mano il potere. Sulla sinistra vediamo l’accampamento dei profughi richiedenti accoglienza, abbigliati con poveri vestiti probabilmente forniti da enti benefici. Moïse appare come nell’iconografia più tradizionale e sembra uscito da I dieci comandamenti, il film di Cecil B. DeMille. L’idea è che (dice Krautzer nel programma di sala) noi pubblico (come anche il suo popolo) non sappiamo mai se Moïse sia una sorta di messia che ha un filo diretto con Dio o se sia solamente qualcosa che gli uomini proiettano su di lui. Perché ogni società ha bisogno dei suoi modelli. Il balletto del terzo atto (qui nella seconda parte dello spettacolo, diviso in tre parti) è una rappresentazione che ha luogo in una sala del palazzo del Faraone di fronte a un pubblico scelto di invitati.
Un poco accessoria la figura della principessa Élégyne, promessa sposa di Aménophys a cui presta la recitazione con disinvolta eleganza l’attrice Laurène Andrieu. Nel finale i profughi, muniti di gilet di salvataggio arancioni preparano i gommoni per darsi alla fuga, per poi irrompere sulle gradinate del Théâtre de l’Archevêché. Ma il popolo (e il pubblico) hanno bisogno di veder materializzati, o, meglio, proiettati i loro miti, per cui vediamo su uno schermo Michele Pertusi che si fa largo brandendo il bastone tra le onde del mare che gli cedono il passo. Poi le acque ritornano nel loro alveo sommergendo il bel mondo in abiti da sera finché le acque si distendono nascondendo il loro carico di morte. Infine sulle note del cantico finale vediamo una spiaggia alla moda (la terra promessa?). Una ragazza in costume vede il bastone di Moïse, si alza, lo tocca, forse percepisce qualcosa e lo getta via. Cito gli ottimi collaboratori di Krautzer: Rainer Sellmaier (scene e costumi), Bernd Purkrabek (luci), Jeroen Verbruggen (coreografia), Manuel Braun (video).
Moïse et Pharaon è stata spesso definita un’opera-oratorio. Direttore e regista fanno di tutto per sottrarla a questa etichetta. Michele Mariotti non è soltanto un fine estimatore di Rossini, un compositore che ha nel suo DNA, ma riesce a dare al lavoro una continuità narrativa esemplare, variando tempi e dinamiche con gusto, eleganza e, all’occorrenza, con piglio energico, mai perdendo di vista un senso dello stile esemplare. Il maestro pesarese segue le voci con amore e competenza e alla fine ottiene un grande successo personale. Ottima resa dell’Orchestra e del Coro dell’Opéra de Lyon, quest’ultimo sotto la guida di Richard Wilberforce.
Michele Pertusi (Moïse) impone una personalità rilevante, cresciuta di non poco nel corso della carriera. Se un tempo si affermava soprattutto per la rifinitura vocalistica, durante il suo lungo percorso artistico (ha debuttato giovanissimo) ha saputo dare maggior peso al fraseggio senza mai calcare la mano grazie ad un accento aristocratico. La voce si mantiene sonora e flessibile e la presenza scenica, in particolare in questa produzione, è carismatica.
Il suo antagonista, Adrian Sâmpetrean (Pharaon) ha minore carisma ma è un buon artista, corretto vocalmente, abbastanza espressivo e buon attore.
Jeanine De Bique (Anaï), al suo debutto in Rossini, ha un timbro un po’ terroso, soprattutto nella prima ottava, come molte cantanti di colore, che sa sfruttare per dare emotività al canto. Si sente che non è adusa alla scrittura del compositore di Pesaro, ma se la cava con onore anche nei passi più complicati vocalmente ed è sempre corretta anche se non sfrontata nella sua grande scena del quarto atto, alla quale sa dare accenti di indifesa espressività.
Pene Pati era reduce da un’indisposizione che gli aveva impedito di partecipare alla prova generale. Forse non ancora del tutto ristabilito appare non molto sciolto nella coloratura e semplifica un paio di passi nel primo duetto con Anaï e in quello col padre. Fraseggia con calore, comunque, e sa far valere complessivamente le sue doti vocali.
Già trionfante a Pesaro l’anno scorso, Vasilisa Berzhanskaya replica, forse con minor nitore, la sua Sinaïde dal colore malioso, intensa e comunicativa.
Adeguati ai rispettivi ruoli la tenera Marie di Géraldine Chauvet, l’elegiaco Eliézer di Mert Süngü, l’autorevole Edwin Crossley-Mercer (Osiride e Una voix mystérieuse) e l’incisivo Alessandro Luciano (Aufide).
Alla fine successo calorosissimo per tutti con punte di entusiasmo per Michele Mariotti.
La recensione si riferisce alla serata del 9 luglio 2022.
Silvano Capecchi