GIOACHINO ROSSINI Riens, parte 1: Brani dal dodicesimo album (Quelques riens pour album) dei Péchés de Vieillesse |
Pianoforte: Richard Barker |
Registrazione del 07/12/2018 nello Studio Zanotto, Sivelle |
Data di pubblicazione: 2020 |
1 Cd - Ed. Illiria |
«Pianista di terza classe», così Rossini si definiva in una di quelle sue battute dal riso amaro. Eppure, nelle – privatissime! – pagine dei Péchés de Vieillesse ci si trova di fronte a una scrittura pianistica di altissima fattura e che offre una notevole prospettiva storica. Rossini nacque nel 1792 e morì nel 1868, attraversando per intero l’arco del romanticismo ruspante; basti pensare che all’interno di questo lasso di tempo nascono e terminano le parabole di Robert Schumann, Frédéric Chopin, Franz Schubert, Felix Mendelssohn, si chiude quella di Ludwig van Beethoven e solo Franz Liszt e Johannes Brahms proseguiranno le proprie attività per un tempo cospicuo, dopo aver comunque già detto la loro sull’argomento pianoforte. Nelle composizioni rossiniane per tastiera il peso del tempo si avverte nettamente, un tempo contorto e distorto in cui si fondono – senza criterio, alla rinfusa – il substrato classico così caro al pesarese, i continui rimandi al romanticismo (parodiato o meno ma sempre presente) e le prime avvisaglie di quel che sarà il futuro prossimo della letteratura pianistica, specialmente francese, presentando in nuce la leggerezza di Saint-Saëns e il surrealismo di Satie.
Un sunto efficace di questi connotati si può trovare nel Cd Riens, pubblicato dall’etichetta Illiria, in cui il pianista Richard Barker esegue la prima metà del dodicesimo album dei Péchés (Quelques riens pour album). Dopo i due lavori su Bellini e Rossini incisi con Maxim Mironov e realizzati ancora sotto l’egida di Illiria, Barker esce dal suo habitat naturale del suono legato alla parola per addentrarsi nel repertorio pianistico solista, fedelmente accompagnato anche in questa avventura da un pianoforte d’epoca del tutto simile a quello che poteva essere nella casa di Passy. In un caso come questo, l’esecuzione su un Pleyel del 1858 non è una preziosità sterile, ma significa restituire quella musica al contesto in cui è nata: il suono è leggero e pulito, i colori non giungono mai a tinte estreme, il timbro rimanda più alla vocalità che alla musica strumentale effettiva. È entro questi confini che il pianismo di Rossini acquista veramente senso e si comprende fino in fondo, perché gli stilemi a cui fa ricorso, inclusi quelli semplificati e arcaicizzati del romanticismo, o il sapore antico dell’ornamentazione e la melodia spiccatamente cantabile, trovano la propria voce nel suono morbido del pianoforte caro a Chopin.
Sotto la superficie Biedermeier dei dodici brani si agitano questi elementi, nascosti dietro a un Nulla che è solo un paravento, alle cui spalle si cela tutta l’intelligenza di Rossini, il suo gusto per la musica da camera (in questo caso sarebbe meglio parlare di una musica privata), per il divertimento sottile e per quell’ironia che alle volte è quasi puerile, altre volte ha quel pizzico di malignità che piace, altre ancora è nostalgia e ombra. L’universo dei Péchés è davvero complicato da decifrare, non sempre è chiaro dove finisca lo scherzo e dove inizi un risvolto amaro, certo è che l’etichetta riens – un po’ come le nugae di Catullo – serve solo a nascondere le intenzioni più che serie del compositore. Altrettanto serio e penetrante è l’approccio del pianista inglese che sa sempre come muoversi, quando sottolineare l’ironia e quando lasciare che sui grappoli di note cada un’ombra nostalgica: in breve, Richard Barker ha saputo leggere con rara maestria quel complesso codice che è il pianoforte di Rossini, in cui si passa nel giro di un rigo dal dolore alla quiete domestica. In questa interpretazione si avvertono il peso e la leggerezza di ogni singola nota.
Di certo la naturale affinità tra due musicisti che hanno dedicato la vita al teatro come Rossini e Barker ha la sua importanza, ma questo non sminuisce affatto le molte finezze del primo volume di Riens, come l’agogica accurata o la precisione del fraseggio; tuttavia, ciò che colpisce davvero è la naturalezza con cui il pianista riesce a rendere il carattere multiforme e le ibridazioni di queste pagine impegnative, facendo emergere quando la linea melodica occhieggia più lo stile vocale che quello strumentale, le continue reminiscenze del passato o del mondo teatrale (dagli omaggi bachiani alle autocitazioni), il tutto interpretato con gusto impeccabile.
La «musica riservata» di Rossini è ancora largamente ignorata tanto dal grande pubblico quanto dai programmi delle sale da concerto e, di solito, quando ci si approccia ai Péchés si va avanti a spizzichi e bocconi, concentrandosi sugli exploit più umoristici o grotteschi (Petit Caprice, Un petit train de plaisir). Un progetto discografico che punta a pubblicare l’incisione completa di un album dei Péchés, uno dei meno eseguiti per giunta, vanta un interesse che va oltre quello antiquario dei rossiniani irriducibili. Non resta che ringraziare Illiria e Richard Barker per questo splendido dono, in attesa della seconda parte.
Luca Fialdini