Pomeriggio pisano di metà febbraio, sole e nubi, freddo e Piazza dei Miracoli splendente.
L’appuntamento con Didier Pieri è in un caffè vista Torre Pendente; ci conosciamo da tempo e non servono presentazioni.
Non ho una particolare scaletta di domande ma Didier, che prima di essere artista nasce come grande appassionato d’opera e del mondo culturale che gravita attorno a quest’arte, si rivelerà l’interlocutore ideale per una chiacchierata particolarmente interessante, densa di spunti significativi che vanno ben oltre il solo parlare di canto.
Inizierei con una domanda banale ma che ci apre tante porte: tu sei di Livorno, che ha dato tanto all'opera: come ti è venuta la passione? In famiglia c’era qualcuno che seguiva la lirica?
C’era mio nonno, appassionatissimo! Aveva visto dirigere Mascagni, aveva sentito cantare Gigli, Masini, la Olivero, Del Monaco, quando in città venivano fatte le stagioni gloriose, però non mi aveva mai portato con sé.
Nel dicembre del 2002 frequentavo le medie e andammo con la scuola a vedere Tosca al Teatro Goldoni.
Rimasi folgorato. Era un allestimento molto classico, tranquillo: evidentemente fu la musica di Puccini a colpirmi così tanto.
Non era la mia prima volta a teatro, c’era stata anche una Carmen l’anno prima ma non mi aveva fatto nessun effetto. Insomma, quando tornai a casa dopo quella Tosca dissi ai miei genitori: “Domani sera fanno un’altra recita e ci voglio tornare”.
E ci tornai. Da lì cominciai a comprare qualche CD; YouTube non c’era ancora e quello era l’unico modo per ascoltare le opere.
Ma che cosa ti affascinava di più: la storia raccontata, il canto, la musica, le scene?
Fu la parte puramente visiva a trascinarmi per prima: regia, scene, costumi, tanto che all’inizio avrei voluto fare il regista o lo scenografo. Infatti, ho avuto due esperienze come assistente volontario alla regia con Denis Krief e Fabio Ceresa: con Krief per un bellissimo Orfeo ed Euridice del Maggio Musicale, alla Pergola, con Ceresa per la Butterfly che hanno dato varie volte a Firenze nel 2014 e ‘15.
Verso il 2010 cominciai a studiare canto, ma il vero percorso ebbe inizio solo nel 2013 con la guida di Yva Barthélémy, che tanto mi ha dato e continua a darmi. Arrivai da lei con un po’ di confusione in testa e con nozioni sul canto che non sapevo ordinare e utilizzare a fini pratici.
Dopo il nostro primo incontro a Bergamo, nel 2013, non ci siamo mai lasciati e fino al gennaio 2020 sono andato a Parigi quasi ogni mese per una settimana di lezioni. Col Covid e post Covid ho dovuto diradare i miei viaggi, ma non li ho eliminati.
Madame Barthélémy adesso ha quasi novantaquattro anni, vive nella sua bella casetta triangolare dietro Place des Vosges (“come Maurice Ravel, abito in una casa triangolare…”, mi ha sempre detto) e non smette mai di riflettere sul mistero della voce. A lei devo la formazione scientifica nel canto, la consapevolezza acquisita di uno strumento musicale interno al corpo umano e l’insegnamento di una visione della vita che ha nello studio e nella curiosità i suoi punti di forza.
La tua famiglia ti ha sostenuto …
… sempre! Devo tutto alla mia famiglia, ai miei genitori.
Devo tutto a loro perché non mi è mai stato negato il poter assecondare la mia passione, andare in giro, anche all’estero, per vedere e ascoltare quanti più spettacoli e grandi cantanti mi fosse possibile; logicamente da ragazzino non avevo soldi miei per farlo. Tuttora, quando posso, giro per documentarmi.
Credo che per un ragazzo che studia canto, o uno strumento, sia importante andare a vedere e sentire dal vivo, conoscere i grandi artisti e non limitarsi al solo studio.
Sì. E la mancanza di questo è, secondo me, un problema che talora emerge nei conservatori.
Mi spiego: non ho studiato al conservatorio e a volte penso che sia stato meglio così, perché spesso ti trovi di fronte dei ragazzi che hanno una voce notevole, hanno capacità - credo che per uno strumento sia uguale -ma quando entrano in teatro non hanno idea di come funzioni quel mondo. Magari hanno fatto mille lezioni di arte scenica chiusi in una stanza, mille lezioni di tecnica vocale, senza però arrivare a fare un salto di qualità; e i ruoli, infatti, si imparano in teatro.
Chi studia privatamente può gestire meglio le acquisizioni di repertorio, nel modo più consono a lui. Inoltre, da quel che mi dicono, spesso le ore di canto non sono sufficienti per la formazione “vera” di uno che nella vita, per mestiere, dovrà fare il cantante.
Fortunatamente, nel passato recente, hanno iniziato ad insegnare in conservatorio colleghi cantanti con esperienza di decenni sui palcoscenici internazionali e questo è un valore aggiunto enorme! Credo che chi vuole iscriversi in un conservatorio dovrebbe scegliere anche in base a questo, sempre che abbia modo di spostarsi, perché, a mio avviso, solo chi sta in palco sa veramente cosa insegnare ai fini dell’avvio di una carriera professionale.
A proposito di arte scenica: come ti prepari per affrontare un ruolo?
Innanzi tutto, per me tra piccoli e grandi personaggi non c’è alcuna differenza. Parto sempre da un’idea iniziale per un determinato ruolo e cerco di farla mia approfondendola il più possibile. Quindi mi affido al regista cercando di entrare nel “suo spettacolo”, nella “sua idea” portandoci la mia: fare esattamente quello che ci viene chiesto, senza metterci del nostro, alla fine diventa sterile.
Questo presuppone tante letture e tanto studio. Trovo che sia fondamentale leggere i drammi preesistenti o i saggi sull’opera che si sta per affrontare; prima di interpretare l’Abate di Chazeuil dell’Adriana Lecouvreur e Don Basilio de Le nozze di Figaro ho avuto il tempo di documentarmi sui loro ipotesti, andando a scoprire come entrambi i personaggi gestivano l’equilibrio di un loro piccolo mondo variegatissimo che nelle opere, per economia di tempo, a volte traspare a malapena.
Nel preparare un ruolo è, logicamente, essenziale l’aspetto musicale, che va oltre la correttezza delle note o la loro giusta emissione vocale e proprio per questo esiste la figura del maestro preparatore o vocal coach, che è altro dal maestro di canto tout court. Il maestro preparatore deve suggerire, attraverso la musica e le sue dinamiche e colori, il superamento dei momenti più ostici, i punti dove c’è possibilità di recupero per lo strumento, quelli dove dare di più, quelli dove accentare in un certo modo per garantire risultati interpretativi più soddisfacenti, quelli dove la nostra voce può dare il meglio di sé.
Trovo che il canto, o meglio l’arte del canto che comprende anche l’aspetto scenico-interpretativo, sia frutto di un’alchimia e di una ricerca di equilibrio che non si esaurisce mai.
Come ti poni nei confronti del collega più esperto, famoso?
Di solito quando mi trovo davanti a un artista famoso mi metto lì e guardo, ascolto, cerco di imparare: questa per me è l’unica cosa da fare.
Recentemente ho fatto Tosca a Roma e c’era Kunde che debuttava come Cavaradossi; quando l’ho incontrato alla prima prova, dopo averlo sempre sentito in teatro e in mille registrazioni, l’ho salutato con non poca e malcelata emozione e mi sono messo lì a guardarlo e ascoltarlo, come ho appena detto. Facevo Spoletta, quindi non c’erano molte interazioni con lui, però nella scena della tortura mi arrivava un grande messaggio dal suo modo di entrare, di dire quelle frasi, di muoversi.
Credo che i grandi, di ieri e di oggi, possano insegnarci che la maggiore dote per un artista lirico sia la consapevolezza: del proprio strumento e delle sue potenzialità, della propria statura artistica, del ruolo di divulgatori di bellezza che hanno e che abbiamo tutti, piccoli e grandi.
C’è qualche cantante a cui sei particolarmente legato?
Ho avuto l'onore di conoscere bene Daniela Dessì e di poterla ascoltare ed ammirare molte volte.
La prima volta che la incontrai, in occasione di una Tosca al Teatro degli Arcimboldi, avevo appena compiuto quattordici anni. L'amore per questa grande artista fu istantaneo e la sua sconfinata umanità la rese per me speciale fin dal primo momento. In Daniela non era solo la statura della cantante a colpire - aveva una tecnica di "vecchia scuola" che le rese possibile esplorare i più svariati repertori con risultati sempre eccellenti - ma quella della donna, della persona che si celava dietro all'artista. Ho amato profondamente il suo modo di fare arte, quella sicurezza che sembrava avere in tutto ciò che faceva e che era il frutto di uno studio continuo e, non per ultimo, la dolce malinconia che le brillava negli occhi sulla scena e fuori. Quando stava sul palco, lo sguardo sempre fisso in un punto indefinito davanti a sé, il suo spirito era “oltre” e lanciava messaggi artistici involontari di grande impatto emotivo.
Ho viaggiato tanto per lei, fino a quel 23 agosto 2016 quando partii con i miei amici più veri per portarle l’ultima rosa rossa, dopo le tante di cui l’avevo omaggiata nei teatri. Da dove si trova ora so che segue il mio cammino nella Musica e dentro di me le parlo spesso.
Su un palcoscenico, come tenore, sei salito per la prima volta nel 2016. Non è moltissimo tempo fa, ma di strada ne hai fatta tanta: quali pensi che possano essere oggi i tuoi margini di miglioramento?
Non è una domanda facile … i margini di miglioramento sono sempre all’orizzonte. Ci sono tanti margini da raggiungere, che forse uno non raggiungerà mai perché poi cambiano forma, cambiano aspetto e quindi diventano altro, ma sono sempre figli del margine di miglioramento che era quello di arrivare a cantare un’aria intera.
Ho sempre sostenuto che bisogna avere ambizione, ma deve essere commisurata a ciò che noi in quel momento, fisicamente e quindi vocalmente, possiamo fare.
L’importante per un artista è cercare di dare sempre del suo meglio , ma il nostro meglio di ora, forse, non è il meglio che potremmo dare domani. Lo studio è l’unica cosa che può portarci a raggiungere quel margine che ci prefiggiamo; poi il riascoltarsi sempre dopo una recita, magari mentre ceniamo da soli a casa, quando l’adrenalina fatica a scendere e a lasciarci rilassare, è uno dei tanti modi per migliorarsi. Riascoltarsi e scrivere per noi stessi ciò che va e ciò che non va.
Tu hai un modello? Trai ispirazione da qualche grande cantante?
Da tutti coloro che ci hanno preceduti. Sono diventato adulto cibandomi di opera a colazione, pranzo e cena, quasi ogni giorno; per qualcuno può sembrare eccessivo, ma è stato naturale così. Possiedo centinaia di registrazioni live che costituiscono per me un vero tesoro.
Su un certo tipo di ruoli non posso prescindere dal citare come modello assoluto Piero De Palma che è l’archetipo di ciò che un artista di parti di carattere (non uso mai il termine comprimario) dovrebbe essere: emissione vocale cristallina, dizione impeccabile, suono uniforme a tutte le altezze. Accanto a lui metto, per gli stessi ruoli, Florindo Andreolli.
Ma quando interpreto ruoli principali non mi rifaccio a modelli preesistenti perché l’individualità è fondamentale per la tecnica e l’interpretazione. Cito però i nomi di Franco Corelli, Nicolai Gedda, Franco Bonisolli (soprattutto quello degli anni ’60,’70) e Luciano Pavarotti come modelli unici cui rimandare la memoria e da cui prendere ispirazione sulle soluzioni. Chiaramente ispirarsi a dei fuoriclasse non porta ad esserlo noi stessi, ma ci rende ancor più studiosi del nostro strumento.
Ho cercato di trarre molto anche dai soprani: Rosa Ponselle e Leyla Gencer tra tutte; devo a loro la comprensione di quella “vocale mista” che credo essere fondamentale in qualunque registro di voce per garantire la massima ampiezza dell’articolazione unita all’apertura della gola, senza la quale si tira letteralmente il freno alla fonazione.
Oggi in attività ci sono tanti straordinari artisti, ma una cui ho sempre guardato come a un esempio per quell'aspetto di ricerca, curiosità e rispetto del proprio strumento è indubbiamente Anna Caterina Antonacci. Un percorso eclettico, il suo, però sempre mirato a concedere alla sua vocalità la migliore espressione: credo sia ciò ogni artista dovrebbe perseguire.
Hai cominciato la carriera in punta di piedi, con oculatezza, non hai mai affrontato un ruolo in modo azzardato e sei partito dai “ruoli piccoli” per arrivare a cantare l’Abate di Chazeuil, Almaviva nel Barbiere, Don Ottavio e altri che tanto “piccoli” non sono. Come ti vedi nel futuro?
Spero sempre di avere la possibilità di assecondare la mia vocalità e di poter scegliere, quando possibile.
Adoro interpretare ruoli che chiamo volentieri “di mezzo carattere” come il poeta Prunier della Rondine, fatto la scorsa estate dopo averlo sognato da tempo, o come appunto l’Abate dell’Adriana. Mi piacerebbe molto cantare l’Arlecchino dei Pagliacci e ho appena fatto l’Arlecchino delle Maschere di Mascagni che è, a tutti gli effetti, un “primo ruolo”. Accanto a questi, tra le parti più amate, c’è sicuramente Nick de La fanciulla del West che quando riflette sulla vita e sull’amore, nel brumoso e gelido inizio del terzo atto, mi rende fiero di essere un artista e potergli dare vita.
Nei ruoli principali mi sono lasciato sempre guidare dalla prudenza, rifiutando nei primi anni cose che adesso potrei fare serenamente: amo profondamente Don Ottavio e il suo mondo incrinato fatto di tenerezza e signorilità. Ho affrontato il coloratissimo e stralunato Gonzalve de L’heure espagnole che riprenderei immediatamente per la grande soddisfazione che mi dette. Accanto a loro ho aggiunto l’Almaviva rossiniano e l’ansioso Orphée di Offenbach.
Mi trovo bene in un repertorio che esula dalla grande tradizione italiana: amerei fare molto Mozart (sogno Idomeneo e Tito), qualche Gluck (magari Admeto in Alceste o Pylade nell’Iphigénie en Tauride) o Cherubini, che hanno scritto molti ruoli adatti alla mia vocalità; poi Poulenc, Britten … e magari affrontare qualcosa del Barocco, che mi ha conquistato quando ho cantato la parte tenorile del Messia di Haendel nella revisione mozartiana. Ma il sogno più grande è poter interpretare un giorno Jean de Le jongleur de Notre-Dame di Jules Massenet, compositore geniale che andrebbe riscoperto anche in Italia.
Qualche tuo collega racconta di non avere avuto una giovinezza spensierata, sempre intento allo studio e alle attenzioni che richiede “la voce”: il “ragazzo Didier” ha dei rimpianti?
Mah! Io non sono mai stato un “festaiolo”, amante della discoteca, delle uscite o degli aperitivi. Quando ho finito il liceo sono andato a Firenze, all’università; abitavo lì e passavo il mio tempo libero andando a teatro il più possibile, avevo la Maggio Card per gli studenti e per sei, sette anni ho visto tutte le recite di tutte le opere di tutte le stagioni. Non ho mai smesso e mi è piaciuto così, non ho rimpianti … forse a volte, sì, mi è mancata un po’ di spensieratezza, quella di non dovere stare attento a non prendere freddo, di non dover mangiare sempre ammodo … ma questo dura tuttora, fa parte del mio mestiere.
Nelle Maschere mi ha colpito vederti cantare in una posizione innaturale, su un fianco e con le gambe a squadra, lateralmente. Una posizione che penso preveda degli addominali di ferro. Mi pare che sempre di più i registi chiedano anche una buona prestanza fisica…
Cerco di andare in palestra, e questo aiuta, ma se riesci a metterti in un modo in cui il diaframma possa muoversi bene non c’è problema.
Il regista, comunque, di solito chiede se ce la sentiamo di cantare in una posa strana; per esempio nelle Maschere è stato bello sperimentarsi fisicamente e non posso che ringraziare quest’esperienza perché è servita a sciogliermi: ho fatto cose, come ballare, che nella vita di tutti i giorni non farei mai. Arlecchino è un personaggio che solo con una fisicità spiccata può essere reso appieno e i registi sono stati bravi a lasciarci parecchio liberi di costruire “i nostri” personaggi.
Quando trovo registi così, che lasciano libertà, chiedo sempre di darmi del tempo perché a me occorre una settimana, dieci giorni, se è possibile averli, per prendere le misure: il ruolo lo puoi saper bene quanto vuoi ma finché non lo provi in scena non capisci se gli altri reagiscono o meno. Non è detto che i tuoi messaggi arrivino in maniera diretta al collega che in quel momento è vicino a te e può non avere lo spirito per coglierli, o li coglie in maniera diversa da come glieli porgi e non risponde come ti aspetteresti. Quindi invece che “giocare da solo” io misuro le mie distanze, mentali, spirituali e cerco di inserirmi in una situazione di scambio continuo.
E lì, nelle Maschere, ci voleva “il fisico”, non si poteva fare altrimenti. Comunque, bisogna cercare di essere sempre in forma perché ci si sposta ogni mese, si cambiano case, si cambiano letti e quindi posture…
Spesso tu parli, con entusiasmo, del repertorio italiano tra fine Ottocento e Novecento: è una cosa che ha che fare con i tuoi studi o nasce per ammirazione?
Come ho già detto non ho fatto il conservatorio, che nel novantanove per cento dei casi è la laurea per un cantante lirico, ma ho studiato canto privatamente dopo il liceo classico con indirizzo musicale e durante la frequentazione dell'Università a Firenze. Mi sono laureato nel 2013 in quello che era il DAMS e nel 2022 ho conseguito la magistrale in Scienze dello Spettacolo con la tesi "Moderna ma fedelissima - La fanciulla del West di Giacomo Puccini: dal dramma di David Belasco a due allestimenti storici fiorentini (1954-1974)".
È la mia opera preferita, quella che mi fa viaggiare con la fantasia e mi porta in territori che sogno di visitare fin da bambino, quando già ero un grandissimo consumatore di film western. Aprire gli occhi su un titolo così importante e analizzarlo dalla genesi per approdare a due concezioni come quelle di Curzio Malaparte e Sylvano Bussotti, realizzate al Maggio Musicale Fiorentino nel 1954 e 1974, mi ha concesso di viaggiare in ambiti teatrali che non conoscevo. Il primo punto di enorme interesse è stato documentarmi su David Belasco e sul suo teatro di stampo naturalista, scoprendo così una varietà nell'offerta americana di quegli anni che non credevo possibile.
Il processo creativo di Puccini, dal rapporto coi librettisti alle lettere con l'amica Sybil Seligman circa la nascente Fanciulla, ha instillato in me curiosità ancora maggiore sulla motivazione di certe soluzioni, confermandomi che Puccini era sì musicista ma, prima di tutto, uomo di teatro avanti anni luce rispetto a tanti suoi contemporanei.
I miei studi e i miei approfondimenti mi portano a credere che in un momento in cui viene ripreso tutto un repertorio “antico”, dal Barocco in poi, andando fino alle edizioni critiche di Verdi, Bellini o Donizetti, anche per il repertorio italiano di fine Ottocento-inizio Novecento dovrebbe esserci un approccio critico e uno studio sulla prassi esecutiva che ripulisca tanti lavori o capolavori del nostro teatro musicale da quel timbro dispregiativo chiamato “verismo”.
Mi viene in mente, su tutti, Ruggero Leoncavallo, un uomo che aveva molta ambizione, forse troppa. Fu oscurato, ed era naturale così, da Puccini che è certamente un fuoriclasse; però mi affascina pensare a un compositore che si imbarca nell’impresa di scrivere un’opera come Der Roland von Berlin su libretto proprio, in tedesco! E sempre lui pensa a una trilogia di opere su grandi personalità storiche italiane: I Medici, che scrisse subito dopo Pagliacci, e le abortite Gerolamo Savonarola e Cesare Borgia. In tal senso il Festival di Wexford, prendendosi cura di questo repertorio, è un faro: trovo che sia bellissimo riuscire ad ascoltare lavori come Guglielmo Ratcliff, Siberia o il “guilty pleasure” de L’oracolo di Franco Leoni.
Non credi che questo repertorio, per noi italiani, sia penalizzato da libretti che a volte paiono assurdi?
Io tendo sempre a inquadrare tutto nell’epoca in cui venne concepito e non posso vederlo al di fuori di quel periodo. Se ci soffermassimo sul valore dei testi sarebbero poche le opere da salvare dal 1600 a oggi! Il libretto delle stesse Maschere, tornando a un titolo cantato di recente, può non piacere, ma lo si deve vedere nel 1901 e non con la testa di oggi.
Darei voce a questi lavori, contestualizzandoli nel loro tempo, pensarli come si pensano le grandi opere verdiane: delle storie che raccontiamo cantando, suonando; servendole con una regia e un allestimento dal respiro giovane e nuovo, senza scene di cartapesta che le rendano vecchie.
È vero, per esempio, che da certi punti di vista il libretto di Forzano per il Marat mascagnano non è bello, ma è funzionale all’ambiente descritto e ai caratteri dell’opera, alcuni indovinati, altri meno. Ricordiamoci, per esempio, che da una costola del popolare teatro di boulevard parigino vennero poi André Antoine e il naturalismo: insomma, da cosa nasce cosa e senza l’opera cosiddetta “verista” non si sarebbero avute le risposte italiane datele da Pizzetti, Respighi e, più tardi, Dallapiccola, Berio e altri.
Il gioco di affermazione e negazione nella storia del teatro ne ha garantito la vita fino a oggi e questa dicotomia tra stili ed esperienze sarebbe bello vederla ancora accesa come un tempo, anche con molte più commissioni ai compositori contemporanei.
Una domanda canonica per chiudere: i tuoi prossimi impegni?
Il Tinca, che debutto a Roma nella prossima nuova produzione del Tabarro, abbinato al Barbablù e primo pannello del Trittico ricomposto; la direzione è di Michele Mariotti e la regia di Johannes Erath. Sarà il mio decimo ruolo pucciniano: di quelli che posso fare mi manca solo Pong, avendo già cantato due produzioni come Pang.
Poi a giugno ci sarà il debutto tanto atteso all'Arena di Verona come Remendado nella storica Carmen allestita da Zeffirelli.
Ci salutiamo con un “In bocca al lupo, per tutto!” “Crepi il lupo! ... e grazie a Operaclick per avermi dato quest'occasione!”.
Il sole sta calando e la piazza lentamente si svuota...
Pisa, 14 febbraio 2023
Marilisa Lazzari