Quando lo frequentavo entravano tutti, ma proprio tutti. Il biglietto costava 500 lire, poi portate a 1000 con grande scandalo, ed il teatro era sempre gremito. Non esistevano appelli o numerazioni varie. Si doveva stare lì tutto il tempo fino all'apertura della biglietteria che era situata dove ora c'è l'ingresso del museo. L'unico vantaggio era che si potevano comprare due biglietti a testa e, quindi, ci si poteva dare il cambio con qualcuno. Era essenziale essere i primi per evitare quel lugubre effetto di schiacciamento che capitava ogni sera nelle ultime due ore.
Sto parlando di quel loggione della Scala che, per alcuni, era un autentico richiamo della foresta. Quante persone ho conosciuto in quel tempo infinito di attesa... di alcune sono amico ancora adesso come Luca Gorla, l'unico che abbia la mia stessa sensibilità musicale. A volte ci sentiamo solo per dire: hai sentito come è espressivo lo Spoletta di Caio o il Douphol di Tizio? Lo so: siamo surreali, come dice Camilla, la mia compagna. Ma la passione è questo ed anche il modo in cui facemmo amicizia è abbastanza curioso.
Era una recita pomeridiana del "Boris" del 1979, quello di Abbado e Ljubimov. Pieno dicembre, freddo intensissimo. Per essere tra i primi ero in coda dalle 4 del mattino (eh, sì) munito di Moon Boots. Le scarpe le avevo in macchina e sarei andato a cambiarmi prima di entrare in sala. In coda c'era una sola persona: Luca, appunto. Cominciammo a chiacchierare e Luca disse: "Per me il Boris è l'opera più bella di tutti i tempi". Risposi: "Anche per me" ed aggiunsi: "Io sono un Krausiano". Lui disse: "Anche io". La nostra amicizia nacque così e si consolidò in seguito con viaggi e vacanze rigorosamente operistiche ed interminabili ascolti comparativi tra i cantanti dell'età della pietra del disco di cui siamo tutt'oggi cultori.
Ma Luca non era l'unico: ben presto si aggregarono Giordano Formenti, il più vecchio che, portato da un padre melomane, già da qualche anno frequentava il loggione, Maria Grazia Travo, la mia ragazza dell'epoca, Ira Rubini, ora giornalista di Radio Popolare che ho reincontrato dopo oltre vent'anni lo scorso anno a San Vito de' Normanni dove cantavo in un'opera dal titolo wertmulleriano: "Dalla morte alla vita di Santa Maria Maddalena di Leonardo Leo". Si aggregarono in seguito Marco Ciappino afflitto da costante sfiga genovese, Giuseppe Dellapina che tentava strade baritonali e Stefano Bianchi, il Domenico Donzelli del Corriere della Grisi, rossiniano di ferro che ricordo a Zurigo per Les contes d'Hoffmann con Kraus trillare per strada la cavatina di Rosina davanti ad allibiti e malpensanti passanti svizzeri. Stefano non c'è più, purtroppo. Lo scorso anno fu stroncato da un attacco cardiaco in tribunale.
E poi tanti altri: la sciura Rina, tebaldiana di ferro, una dolcissima vecchiaccia baffuta che frequentava il teatro dagli anni venti e che aveva visto passare centinaia di soprani ed a tutte, tranne che alla Renata, con voce arrochita dal fumo aveva urlato "la vusa" (in italiano, "grida") in quel brevissimo crepuscolo tra la fine degli applausi di un aria e la ripresa dell'orchestra. Si raccontava che, negli anni 50, un callasiano inferocito l'avesse presa a pugni in testa...
O Cesare Galbiati: laureato in filosofia; pare fosse stato il precettore di Luisa, la povera figlia di Di Stefano morta giovanissima di un male incurabile e che la crisi profonda derivata da quel decesso l'avesse ridotto a quella larva che, purtroppo, era. Sempre ubriaco, anche a teatro ma capace di lucidissimi discorsi su Emmanuel Kant che ricordo ancor oggi. E poi Natale Galvani, di giorno impiegato della Alemagna e la notte travestito al parco Ravizza. Per vocazione, non per denaro, diceva lui. Fu uno dei primi loggionisti a morire di AIDS sul finire degli anni 80. Me ne diede notizia Pietro Bacchini che avevo conosciuto in treno tornando a Milano di notte dopo una recita di "Adriano in Siria" di Pergolesi a Firenze. Da quella notte bianca passata a parlare di musica diventammo amici. Ricordo tante trasferte con lui: in particolare un "Siegfried" a Torino in cui il protagonista con pancetta non proprio da eroe da saga norrena (il tenore Gerd Brenneis) saltellava qua e là stile Nino Castelnuovo nella pubblicità dell'olio Cuore. E poi Fabrizio Mazzoncini, pistoiese doc, che, conosciuto in Scala, immancabilmente incontravo talvolta a Pesaro, talaltra a Firenze o Genova.
O Lia Chiappano che ricordo piangere a dirotto già all'inizio del primo atto di Butterfly. "Ma che fai, piangi?" le chiesi. "Sì, perché penso a quello che accadrà dopo" fu la risposta. Ed Enrico e Roberto il rosso: erano sempre in coppia come Gianni e Pinotto e con loro si faceva tardi, a volte, nell'unico ristorante aperto a Milano dopo la mezzanotte. Era di fianco a palazzo Marino e, nel dopoteatro, ci si potevano incontrare tutti gli attori dell'epoca. Ricordo di aver visto Alberto Lionello ed Erika Blanc degustare con le dita un prosciutto toscano tagliato al coltello di cui avverto il profumo ancor oggi...
Ed ancora il Previtali, un bergamasco che ad ogni spettacolo discettava sulla morte del teatro...chissà cosa direbbe oggi. O quel loggionista ligure che imitava il Papa alla perfezione. Si diceva avesse fatto uno scherzo telefonico facendosi passare per Giovanni Paolo II alla badessa di un convento. O Gigi Franchini, grande appassionato e grandissimo attore comico nell'operetta. Oppure quell'omaccione grande e grosso (il nome non lo ricordo) che ogni volta, incrociandolo, mi raccontava di aver prenotato i biglietti per il "Rosen" a Salisburgo. Diceva proprio così: il Rosen, ovviamente il Cavaliere della rosa. Fu anche l'inventore della maratona wagneriana: l'ascolto del Ring tutto di seguito in disco . Quello di Knappertsbusch, ovviamente: oltre 19 ore di musica.
E poi Roberto Coviello, uno dei migliori baritoni da me ascoltati che pose fine alla carriera con un gesto significativo ed inaspettato perché deluso dall'ambiente. Gli insegnai la pronuncia francese esatta del Mercutio del "Roméo et Juliette" che fece a Parma con Kraus. Quando lo conobbi, anni prima, era una semplice maschera del loggione scaligero. Così come Luca Targetti, purtroppo deceduto per questo maledetto Covid qualche mese fa.
Pensate: il connubio tra loggionisti e maschere era talmente stretto che a capodanno ci si ritrovava tutti nei camerini di queste ultime a festeggiare l'arrivo del nuovo anno, mentre gli spettatori, ignari, continuavano a guardare il balletto. Appuntamento fisso all'inizio del secondo atto: panettone, vino rigorosamente Moscato/Passito e via con brindisi tra di noi, quelli che, per passione o per lavoro, erano lì tutte le sere.
Cari, cari amici quanta nostalgìa. Per quelli che non vedo da decenni, per quelli che non ci sono più, per quelli di cui non ricordo il nome. No, niente voli. A teatro oggi non vado.
Forse perché non è più il teatro che conoscevo io. Forse perché ci lavoro, chissà... o, forse, perché mancano quegli spettatori. Quelli che si sporgevano aggrappati al corrimano del loggione e che erano disposti a fare ore di coda e chilometri pur di vedere i loro beniamini. Il teatro eravate voi. Voi le colonne.
Mi mancate da morire.
Carlo Curami