Nel presentare il suo spettacolo “Don Giovanni: l’incubo elegante”, la scrittrice Michela Murgia ha affidato ad una lunga intervista a Repubblica (link all'intervista) non solo le sue riflessioni di “melomane sfegatata” e ammaliata dalle attualizzazioni dei capolavori del melodramma come il Rigoletto messo in scena a Roma da Damiano Michieletto (ennesima levata di scudi da parte dei sostenitori di quell’orientamento culturale che, forse in ragione dell’incapacità di cogliere la profondità della musica di Verdi e delle scelte che la ispirano, ravvisa nella fantasia di un regista l’unico profilo di vitalità dell’opera lirica), ma anche la sua personalissima lettura del secondo capitolo della trilogia mozartiana di Da Ponte e dei personaggi che lo animano.
Una lettura in particolare diretta ad esaltare il ruolo di Don Ottavio («uomo moderno, empatico, e poi ha l’aria più bella, “Dalla sua pace la mia dipende”, che è un modo pieno di rispetto di stare accanto a una donna»), a riaffermare la centralità dell’universo femminile (dalle pene di Donna Elvira al trauma di Donna Anna, passando per una Zerlina «che sull’orlo del matrimonio pare cedere alle lusinghe di Don Giovanni, ma non viene mai fatta passare per puttana»), e a scagliare la classica invettiva contro il protagonista («non certo un seduttore come tante regìe contemporanee lo rappresentano, come se i molestatori e stupratori fossero seduttori»), pervenendo così alla conclusione secondo cui: «chi si nasconde dietro l’amore viene punito».
Una lettura strettamente personale, e come tale assolutamente rispettabile; una lettura che si presta però a molteplici rilievi critici, destinati a risolversi nell’eco di una semplice domanda: e se Michela Murgia, in verità, non avesse capito il Don Giovanni?
Al netto di ogni polemica sul patriarcato, l’opera è tutta focalizzata sulla figura di Don Giovanni, la quale non può essere liquidata alla stregua di una sorta di stalker in redingote: siamo infatti di fronte ad un gigante della partitura, capace di incarnare, senza schermi e senza ipocrisie, il desiderio di conquista che alberga nell’animo umano. Un desiderio da perseguire ora con la corruzione, ora con la seduzione, ora con l’inganno, ora con la violenza: cinico, amorale, mentitore, e per questo ancora più monumentale.
Un gigante, a cui non manca una certa dose di coraggio (si veda il finale del primo atto) e che affronta la morte quasi come un momento di sublimazione dalla propria negatività, secondo una dinamica non dissimile da quella che, un secolo dopo, renderà la Carmen bizetiana l’indiscussa e indiscutibile icona dell’emancipazione femminile. Così come Carmen (altro personaggio incostante, manipolatore e per questo dominante) non rinuncia al suo “essere libera” anche dinanzi al coltello di Don Josè, l’incombente minaccia della statua del Commendatore non basta a convincere il Dissoluto a cambiare vita: egli rifiuta il pentimento e va incontro alla morte piuttosto che subirla con il “Viva le femmine, viva il buon vino: sostegno e gloria d’umanità” che suona come uno sberleffo rivolto più all’incedere del Convitato di pietra che ai sospiri di Donna Elvira.
Un gigante, la cui personalità si staglia sulle azioni degli altri personaggi, dei quali Michela Murgia propone una ricostruzione quantomeno opinabile: su Donna Elvira, figura intrisa di un patetismo da commedia dell’arte, animata com’è da un sentimento cieco non scevro da una certa ossessione sessuale (“purché porti la gonnella…voi sapete quel che fa”); su Donna Anna, il cui “trauma irrisolto” si traduce in verità in un conflitto odio/amore, confermato dalla scelta di non sposare Don Ottavio dopo che fumo e fuoco hanno inghiottito il perfido; su Zerlina, vergine ingenua che non nasconde una certa, scafatissima malizia; e sull’insulso Don Ottavio, non “uomo moderno e empatico” ma damerino affettato e lezioso, capace di contrapporre solo un tenue “ahimé…respiro” alla narrazione del tentato stupro della promessa sposa.
Gli unici moti di ribellione alle trame del dissoluto provengono paradossalmente da Leporello, il cui spirito plebeo non cela una certa coscienza critica, ed al quale nell’intervista non viene fatto cenno.
Solo la visione dello spettacolo (qui i dettagli) potrà confermare se la lettura di Michela Murgia è in grado di reggere alla prova del pubblico, e se il palco saprà fugare i rilievi critici ispirati dalla lettura delle pagine di Repubblica: chiarendo se e quanto questi rilievi possano considerarsi fondati, consentendo di valutare in quale misura l’illustre scrittrice abbia effettivamente compreso la complessità del Don Giovanni.
Carlo Dore jr.