Alla fine della sua originalissima autobiografia (Flor de soledad y silencio. Meditaciones de una cantante, Madrid, Real Musical, 1984, non tradotta in italiano), Teresa Berganza si congedava dal lettore dicendo di "guardare con serena umiltà al momento in cui il dio che l'aveva aggiogata al carro della gloria terrena avrebbe dato inizio all'oblio del suo nome e della sua voce". Ora che il grande mezzosoprano spagnolo ha cessato di vivere possiamo affermare che il tono di quelle parole fu dettato più da un'appassionata contemplazione della vanità delle cose - uno dei volti della cultura letteraria spagnola - che non dal presentimento della propria definitiva scomparsa dalla memoria del pubblico.
Unanime e commosso è infatti l'omaggio che il mondo della musica tributa in questi giorni all'interprete indimenticabile di Mozart e di Rossini. Dotata di un voce non particolarmente generosa per estensione e volume, né immediatamente riconoscibile per timbro; omogenea ed educata ma con un registro grave non particolarmente sonoro, la Berganza aveva puntato fin dai primissimi anni di carriera su qualità quali la purezza della linea, la precisione infallibile della coloratura, il legato eccezionale e soprattutto su una sensibilità musicale di primo rango (aveva studiato, oltre al canto, l'organo e il violoncello).
Da subito il suo repertorio in teatro fu limitato a pochi compositori, cui votò fedeltà assoluta almeno fino alla fine degli anni Settanta: i prediletti Mozart (Cherubino, Sesto della Clemenza di Tito, Zerlina, Dorabella) e Rossini (le protagoniste del Barbiere, della Cenerentola e dell'Italiana in Algeri), accompagnati da qualche incursione occasionale in epoche più tarde (Dulcinea del Don Chisciotte di Massenet, che la fece conoscere alla Rai di Milano al fianco di Boris Christoff, Mignon) o, retrocedendo, nel primo Barocco (Didone nell'opera di Purcell alla Rai di Torino nel 1957 e poi a Aix nel 1960, Ottavia nell'Incoronazione di Poppea sempre a Aix nel 1961).
Paragonata fin da subito a Conchita Supervia (con la quale condivideva anche un leggero vibrato nel settore acuto), la Berganza, famosa già a poco più di vent'anni, fu nell'amministrazione delle proprie scelte di repertorio una specie di Carlos Kleiber del canto. Non cedette alle sirene della Carmen (affrontata nel 1977 a Edimburgo) che dopo vent'anni di carriera e lungo studio. Da questo momento la sua carriera teatrale si diradò, limitandosi di fatto all'opera di Bizet, cui nel 1979 aggiunse la Charlotte del Werther (nel 1979 a Zurigo e poi a Aix), mentre si intensificò l'attività - peraltro mai interrotta - della concertista (durata fino al 2008), anch'essa limitata a una rosa di autori prediletti, ma aperta anche al lied.
Nel 2007 in una tournée che la portò anche in Svizzera, il mezzosoprano spagnolo eseguiva all'incirca lo stesso programma che aveva portato in giro per il mondo durante cinquant'anni di carriera (arie di Scarlatti, Haendel, Rossini, Fauré e le immancabili Siete canciones Populares Españolas di de Falla): testimonianza di una fedeltà quasi maniacale agli autori amatissimi del Settecento e a una modernità che non rompeva però con la melodia. Sebbene la maggior parte dei siti di informazione musicale e i giornali ricordino soprattutto la sua Carmen, non c'è dubbio che il secolo d'elezione della cantante madrilena sia stato soprattutto il Settecento e in generale il periodo che va dal tardo Barocco al classicismo (da Haendel a Rossini): quel mondo in cui la bellezza non può disgiungersi dalla Natura, dalla grazia, da un ideale di superiore e calma contemplazione anche nel mezzo dei conflitti più tempestosi dell'anima.
Nella musica di Vivaldi, di Händel, di Haydn e ovviamente di Mozart e di Rossini, la Berganza trovava un terreno ideale per dare espressione a un canto di proverbiale eleganza e aristocratica sprezzatura, in cui però palpitava una sensualità sempre pronta a dispiegarsi, se pur attraverso il velo di una misura classica che fu la cifra di tutto il suo lungo itinerario artistico. Nel 1997, quando la sua carriera teatrale era già ormai finita, il critico Joaquín Martín de Sagarmínaga concludeva la voce a lei dedicata nel suo Diccionario de cantantes líricos españoles (Madrid, Turina, 1997, p. 76) con queste parole: "In un momento particolarmente basso per la quotazione di questa artista, è necessario riportare all'attenzione la sua figura perché un giorno sarà destinata a giganteggiare; non potrà essere che così".
Affacciatasi a eseguire la Cenerentola e L'Italiana in Algeri alla fine degli anni cinquanta, quando a difendere con qualche credibilità quel repertorio c'era praticamente solo la Simionato, alla fine degli anni Novanta la Berganza interprete rossiniana poteva sembrare, dopo i prodigi della Horne, della Valentini Terrani, della Powdles, un po' troppo poco belcantista e persino démodée. Il mezzosoprano madrileno, più interessata ai rapporti tra poesia e musica o alla mistica spagnola (come testimonia la citata autobiografia) che alla prassi esecutiva, parve insomma a qualcuno come un San Giovanni Battista che aveva solo annunciato il nuovo verbo dell'alleanza vincente tra Apollo e Minerva, tra il canto e la musicologia. Quanto al Mozart italiano, gli anni Ottanta avevano consacrato (salvo qualche eccezione) uno stile da statuina di porcellana, compassato e decoroso, ma quanto diverso dagli accenti teneri e affettuosi del suo Cherubino! Anche in quel campo, poi, stava per giungere l'ora dei direttori d'orchestra armati di metronomo, pronti a bandire la naturalezza e certo brio d'antan con una foga e una drammaticità più epidermiche che profonde, ostili a qualsiasi indugio sensuale o a quel languore che è l'anima di tante pagine (e lettere) mozartiane.
Il critico spagnolo esprimeva dunque, a metà degli anni Novanta, una giusta diagnosi, giusta anche nel profetizzare un riconoscimento futuro della statura della cantante spagnola. La carriera è documentata come poche altre da numerosissime registrazioni in studio e dal vivo che coprono oltre un trentennio di carriera e ci permettono di ascoltare quasi tutti le parti cantate in teatro. Accanto al repertorio operistico, non sono inoltre da dimenticare quelle incisioni che testimoniano la lunga frequentazione dell'artista con l'atmosfera più intima, a lei particolarmente congeniale, della musica da camera (dalle arie settecentesche agli irrinunciabili De Falla e Villa-Lobos), delle arie da concerto (una scelta di quelle mozartiane sotto la direzione di Fischer nel 1980 e soprattutto la meravigliosa K 505 Ch'io mi scordi di te incisa nel 1962 sotto la direzione di Pritchard) e persino del lied (Frauenliebe und Leben di Schumann, nel 1982). In campo operistico, se alcune pur celebrate incursioni nel repertorio otto e novecentesco suscitano oggi forse più ammirazione che entusiasmo (la sua Carmen, elegantissima e stilizzata, non dà certo i brividi come quelle di una Verrett o di una Bumbry) e se indubbiamente a contatto con pagine ad alta tensione (penso alla sua Didone di Purcell, consegnata al disco un po' tardi sotto la guida di Michel Corboz nel 1987, alla Charlotte del Werther) la voce sceglie una calma rasserenante, ma che rischia di trasformarsi talvolta in un riserbo un po' eccessivo, il suo Mozart (il sublime Sesto della Clemenza di Tito, anche più del suo pur indimenticabile Cherubino) e il suo Rossini (in particolare la Cenerentola) esprimono un equilibrio tra ragione e passione, tra maestà e dolcezza che è stato colto da pochissime interpreti con altrettanta felicità.
Nella musica di Rossini, specialmente, più che nelle pagine spericolate e virtuosistiche, pur sempre inappuntabilmente eseguite, l'artista dà il meglio della propria arte nel canto spianato ed elegiaco (la canzone di Cenerentola, "Un soave non so che", "Per lui che adoro") anche in virtù di un legato superbo e di un accento che sapeva valorizzare il testo senza manierismi. Tra le registrazioni più riuscite e più in sintonia col suo temperamento da ricordare è l'aria di Neris dalla Medea (affrontata una sola volta in teatro al fianco della Callas a Dallas nel 1959 e affidata a un recital in studio l'anno dopo), in cui la sublime pagina di Cherubini acquista una bellissima effusione di giovanile tenerezza. Tra tutte le numerose e ragguardevoli incisioni spicca però, a mio avviso, l'Alcina di Haendel, affrontata in teatro solo nel 1978 (a Aix-en-Provence), ma fortunatamente consegnata al disco nella memorabile regstrazione diretta nel 1962 da Bonynge con Joan Sutherland e Mirella Freni. L'addio "Verdi prati", l'aria "Mi lusinga il dolce affetto" nella sua interpretazione ci permettono di capire, meglio forse di qualsiasi lettura che si autolegittimi a priori come "autentica" e fedele alla storia, quanto l'arte dei Carestini e dei Farinelli non consistesse solo nelle prove spettacolari di pirotecnia vocale, ma anche nella capacità di esprimere gli affetti attraverso un equilibrio armonioso di pathos e di semplicità, «una grazia, un certo incanto» di cui Teresa Berganza è stata esempio tra i massimi nel canto del Novecento.
Gabriele Bucchi
Teresa Berganza canta l'aria di Ruggiero "Verdi prati" dall'opera Alcina di Georg Friedrich Händel
Aix-en-Provence 1978
Gabriele Bucchi