Lord Arturo Talbo | Javier Camarena |
Elvira | Zuzana Markovà |
Sir Giorgio | Michele Pertusi |
Sir Riccardo Forth | George Petean |
Lord Gualtiero Valton | Stanislav Vorobyov |
Sir Bruno Robertson | Otar Jorjikia |
Enrichetta di Francia | Diana Haller |
Direttore | Enrique Mazzola |
Maesstro del coro | Ernst Raffelsberger |
Regia | Andreas Homoki |
Scene | Henrik Ahr |
Luci | Franck Evin |
Costumi | Barbara Drosihn |
Drammaturgia | Claus Spahn |
Philarmonia Zurich | |
Chor der Oper Zurich |
I Puritani, ultimo melodramma del catalogo belliniano, ritorna sul palcoscenico dell’Opernhaus di Zurigo nella versione corrente di Parigi, andata in scena al Théatre Italien nel gennaio del 1835 solo pochi mesi prima della morte del compositore. Allora il cigno di Catania aveva potuto contare su artisti del calibro di Giulia Grisi, Giovan Battista Rubini, Antonio Tamburini e Luigi Lablache. Oggi reperire un quartetto di cantanti di tale maestria è impresa improba ed è quindi questo il motivo principale per il quale il capolavoro del musicista siciliano è poco rappresentato. In una atmosfera prettamente natalizia viene riproposto il nuovo allestimento firmato da Andreas Homoki, attuale sovrintendente del teatro zurighese, già presentato nel corso del Festspiele Zurich, festival estivo a cadenza biennale che coinvolge tutte le principali istituzioni culturali della città.
La produzione è intrisa di un certo qual crudo realismo che esula dalle atmosfere prettamente romantiche della scrittura belliniana. La vicenda ambientata sullo sfondo della Guerra Civile inglese vede lo scontro tra i puritani seguaci di Cromwell e i realisti fedeli al re, all’interno del quadro storico campeggia però la vicenda sentimentale con l’abituale triangolo amoroso formato dai due innamorati divisi dall’opposta appartenenza e dal pretendente respinto di lei. Homoki concepisce uno spazio circolare costituito da un cilindro rotante aperto su un fronte, elemento primordiale fondante delle scene di Henrik Ahr, illuminato all’interno dalle luci abbaglianti di Franck Evin. Tutto lo spettacolo si regge sul contrasto tra i toni chiari e scuri sottolineati anche dai costumi d’epoca di Barbara Drosihn, color crema per gli abiti femminili, mentre gli uomini vestono rigorosamente di nero. Visivamente il risultato comunica una sensazione di costrizione, in quanto la scenografia è invasiva tanto da occupare i due terzi del palcoscenico, il che costringe coro e solisti a spostarsi all’interno o all’esterno in una sorta di coreografia estremamente curata ma al tempo stesso fastidiosa. Elvira si prepara festante al matrimonio attorniata dai coristi, saltellando tra una sedia e l’altra all’interno del cilindro. La scena della follia si sviluppa nello stesso spazio circolare tra cadaveri femminili penzolanti da forche e poi su una catasta di corpi a ricordarci le vittime della guerra civile.
Già nell’introduzione avevamo assistito alla fuga di Enrichetta e alla decapitazione del marito Carlo I durante il coro dei soldati, gli stessi che vedremo impegnati nello stupro della regina in fuga. L’incubo della decollazione lo rivivremo, come se la vicenda fosse articolata in una struttura circolare, con Arturo che sarà giustiziato allo stesso modo, contrariamente allo happy ending prescritto dal libretto.
In siffatta produzione a tinte forti si afferma con autorevolezza Javier Camarena in un ruolo fatto di pirotecniche abilità su una tessitura quasi impossibile. Il suo Arturo può contare su acuti sfolgoranti e su un passaggio solido con una proiezione invidiabile, sia pure in uno spazio non precisamente immenso come la sala dell’Opernhaus. Il suo A te o cara di sortita è forte di un fraseggio elegante e di un controllo ideale delle dinamiche, l’intero terzo atto è poi risolto con grande sicurezza dal nostalgico Vieni fra queste braccia all’accorato Credeasi misera. Il tenore messicano si conferma così fra i migliori esponenti del belcanto. Il suo antagonista George Petean, al contrario, ha voce di robusto tonnellaggio da vero villain ma non in linea con il gusto belliniano. Gli accenti veristi profusi sin dall’aria iniziale sono quindi poco pertinenti alla linea eminentemente lirica di Riccardo. La sua diventa quindi una prova muscolare e di forza. Il duetto Suoni la tromba cantato con gusto estremo da Michele Pertusi, un Giorgio di rara nobiltà, si risolve così con una supremazia definita del basso parmense, altro punto di forza del cast. Non a caso la scena con Elvira del primo atto ne conferma l’ autorevolezza nel repertorio belcantista per misura e aderenza alla linea interpretativa.
Di Zuzana Markovà, giovane vergin vezzosa, colpisce in primo luogo la sua capacità di immedesimazione grazie anche al physique du role. Esile, donna angelicata ed eterea, è una credibile Elvira che passa con disinvoltura dalla estatica e scherzosa attesa dell’amato nel primo atto alla delirante angoscia del cantabile Qui la voce sua soave fino alla cabaletta Vien, diletto, è in ciel la luna. L’emissione è omogenea su tutta la tessitura e la coloratura affrontata con attenzione. Per una cantante così giovane e al debutto nel ruolo difficile pretendere di più.
Omogeneo il resto del cast con una bella prova di Diana Haller, Enrichetta di Francia dal timbro vellutato, e con il Gualtiero di Stanislav Vorobyov e con il Bruno di Otar Jorjikia.
Compatto e molto mobile, viste le richieste della regia, il coro perfettamente preparato da Ernst Raffelsberger.
Enrique Mazzola in buca dimostra tutta la sua affinità con la scrittura belliniana qui sospesa fra la sensualità nascosta e la sensibilità romantica. In più conferma la rara capacità di accompagnare i cantanti in un costante equilibrio con il palcoscenico, prova ne sia il riuscito concertato della terza parte. La marcia arrembante di Suoni la tromba non copre le voci ma al tempo stesso fa emergere la compattezza degli ottoni così come, dove richiesto, la fanfara fuori scena è governata con sicurezza. Merito inoltre va al direttore per aver esaltato la purezza della linea melodica della partitura curando ogni richiamo tematico senza mai allentare la tensione drammatica peraltro sottolineata dall’allestimento.
Il compassato pubblico svizzero di questa anomala prima programmata in matinée tributa alle chiamate finali scroscianti applausi all’intero cast. L’orchestra lascia la buca per un breve intervallo e il teatro è pronto a riempirsi nel giro di un paio d’ore: quella sera stessa il palcoscenico dell’Opernhaus sarà calcato dalla compagnia di danza impegnata in Petruschka e Le Sacre du Printemps.
La recensione si riferisce alla prima dell'11 Dicembre 2016
Caterina De Simone