Altra splendida conferma dell’ottima “salute” attuale dell’Orchestra del Teatro La Fenice, ma anche dimostrazione che gli autori “problematici” del passato riescono spesso molto più convincenti se affidati a interpreti che li leggano come fossero contemporanei, ci è parso il concerto sinfonico veneziano della scorsa settimana diretto da Marco Angius, che abbiamo riascoltato con gioia e piacere dopo il fortunato Lenz bolognese di cinque anni fa. Diventato nel 2015 direttore musicale e artistico dell’Orchestra da camera di Padova e del Veneto, Angius sembra persona molto parca nel dare notizie di sé e lascia parlare i risultati musicali. Titolare d’una notevole fama anche come “specialista” della figura e delle musiche più recenti di Salvatore Sciarrino, domenica 5 il maestro s’è mostrato altrettanto a proprio agio nella “novità assoluta” che apriva il programma, nel pezzo del “Novecento storico” italiano e nella Prima sinfonia di Schumann (con l’orchestrazione originale), a cui ha saputo dare un risalto “rivoluzionario” che ne ha reso l’ascolto insolitamente vivo.
Il giovane musicista e matematico Carmine-Emanuele Cella dichiara d’avere costruito il suo pezzo Random forests (circa otto minuti di musica) con riferimento all’ambiguità probabilistica del concetto di distanza negli spazi a elevato numero di dimensioni. Il risultato è, a nostro parere, una piacevole sequenza di strutture musicali, in cui le vicende di combinazione e distensione dell’intensità sonora e dei timbri ci sono sembrate accompagnare situazioni realizzate con immagini in movimento. Angius ha diretto con piglio molto sicuro e domenica 5 marzo l’esecuzione è stata accolta con cordialità dal pubblico, purtroppo non molto folto, presente nella sala del Teatro Malibran.
Le Variazioni per pianoforte e orchestra di Camillo Togni furono presentate con la direzione di Bruno Maderna alla Biennale musica del 1946, quando la parte solistica fu eseguita da Enrica Cavallo. Il pezzo fu dedicato ad Arturo Benedetti Michelangeli, che di Togni era stato maestro, ma non risulta che il sommo pianista bresciano lo abbia mai eseguito in pubblico. Il numero d’opus assegnato dall’Autore alla composizione rimasta inedita ci sembra costituire un riferimento ad Anton Webern e alle sue Variationen per pianoforte solo, anch’esse Opus 27. La sintassi compositiva è rigorosamente “dodecafonica”, ma la serie “creata” da Togni contiene intervalli che possono consentire allusioni “tonali”, come a un mondo irrimediabilmente perduto (cosí ci spiegano le note a cura del pianista Aldo Orvieto, che ricorda come secondo Togni la tecnica di composizione definita propriamente “con dodici note solo in relazione reciproca l’una con l’altra” non implichi in sé la tonalità, e questo è certo, ma neppure la cosiddetta “atonalità”). Alla prima esecuzione del 1946 non ne seguirono altre, anzi la partitura, non presente nel lascito di Togni conservato alla Fondazione Cini, fu considerata perduta e quando si volle, nel 2000, eseguire di nuovo le Variazioni, se ne rese necessaria la riorchestrazione sulla base del Particell approntato dallo stesso Togni con abbondanza d’indicazioni strumentali, per la preparazione della prima assoluta. In anni molto recenti la partitura autografa fu però ritrovata, su iniziativa e per intuizione dello stesso Orvieto, nel lascito della pianista Lya De Barberiis e su di essa s’è basata questa ripresa.
Allievo del Conservatorio Veneziano e poi del grande Ciccolini, Aldo Orvieto ci è sembrato in possesso d’una straordinaria chiarezza d’articolazione e d’una notevole capacità di differenziare timbricamente le voci e di farle “cantare”. Non esiste, che si sappia, una registrazione della prima esecuzione assoluta, ma ricordando il caratteristico approccio, cantabile appunto, di Maderna alle musiche nuove, ci sembra lecito supporre che l’esito a cui hanno mirato e che hanno felicemente conseguito Orvieto e Angius debba essere stato molto vicino alle intenzioni originarie. Va sottolineata anche qui la notevole e felice partecipazione dell’orchestra. I venti di minuti del pezzo di Togni, articolato in esposizione e sei variazioni, ci hanno lasciato l’impressione d’un ritorno alla vita venato di tristezza e nostalgia dopo la catastrofe bellica: un altro (pensiamo in primo luogo a quello di Viktor Ullmann) sconosciuto “concerto” per pianoforte e orchestra che meriterebbe, a nostro avviso, l’attenzione degli esecutori e che domenica 5 è stato accolto con notevole calore, non rivolto solo alla notevolissima maestria degl’interpreti.
A fianco del Novecento italiano, l’altro filone principale che percorre la Stagione sinfonica 2016-17 della Fenice è il corpus delle sinfonie di Robert Schumann, le “dispari” nell’orchestrazione originale, le “pari” nella revisione di Gustav Mahler. Non possiamo dire d’essere usciti molto ammirati dalle esecuzioni della Terza e della Quarta ascoltate nei primi due mesi di quest’anno; sin dall’attacco iniziale ci ha invece colpito molto fortemente questa Prima. Angius è sembrato voler ricondurre il sinfonismo di Schumann a un serrato confronto strutturale con Beethoven e di nuovo ci è sembrato di risentire lo “sguardo sempre due pagine avanti” che caratterizzava le esecuzioni di Bruno Maderna. Chiarissima, nonostante la nostra posizione molto laterale sopra l’orchestra, la differenziazione dinamica delle diverse parti. Per oltre mezz’ora la continuità drammatica e lo sbalzo degli episodi non hanno conosciuto cedimenti; alla fine il pubblico ha premiato direttore e orchestra con lunghe ovazioni.
(La recensione si riferisce alla replica del concerto il 5 marzo 2017)
Vittorio Mascherpa