Massimiliano, conte di Moor | Giacomo Prestia |
Carlo di Moor | Andeka Gorrotxategui |
Francesco di Moor | Artur Rucinski |
Amalia | Maria Agresta |
Arminio | Cristiano Olivieri |
Moser | Cristian Saitta |
Rolla | Dionigi D'Ostuni |
direttore | Daniele Rustioni |
regia | Gabriele Lavia |
scene | Alessandro Camera |
costumi | Andrea Viotti |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
Fra le tragedie di Schiller, Die Räuber, insieme a Don Carlos, è forse quella nella quale il concetto di morale dell’autore trova l’espressione più concreta e completa: se si contravviene alle regole ed all’ordine costituito delle convenzioni sociali si viene inesorabilmente puniti, sia quale sia la ragione per la quale ci si pone contro di essi.
Verdi, nel corso della sua lunga vita artistica attinge più volte al teatro di Schiller, probabilmente non per il moralismo in esso contenuto, ma per la sua passione, incredibilmente moderna, di mettere in scena il diverso.
Se il Karl von Moor di Schiller è un bandito che ha scelto di essere tale in piena coscienza, al contrario di Kosinsky, suo alter ego positivo e vittima degli eventi, il Carlo verdiano racchiude in sé sia l’elemento positivo che quello negativo.
Carlo Moor è un eroe romantico a tutto tondo, contrapposto ad un fratello deforme e perfido, che sembra l’archetipo di Jago, cattivo per natura e per destino. Il libretto del Maffei, intellettuale e patriota è tra i più brutti nel novero di quelli posti in musica da Verdi, eppure, nella suo lessico volutamente ed esageratamente triviale risiede una ricerca a ricreare in qualche modo la lingua schilleriana.
Non è azzardato pensare che, come nel caso dei congiurati di Ernani, compositore e librettista abbiano inteso la masnada guidata da Carlo come un gruppo di mazziniani impegnati a liberare la loro terra dalla tirannide straniera.
Il grande pregio de I masnadieri risiede, al di là del libretto claudicante e di qualche intuizione musicale non felicissima, nella loro straordinaria compattezza drammaturgica: Verdi, anche quando è minore, non perde mai di vista il senso del teatro e la capacità di trascinare lo spettatore in un vortice di emozioni.
Poco o nulla di quanto detto sopra si ritrova nell’allestimento di Gabriele Lavia, nel quale l’unico elemento visibile è il vuoto di idee registiche, che si accompagna ad una sorta di velleità filologica a tratti disturbante. L’errore fondamentale di Lavia sta, secondo noi, nel voler mettere in scena Die Räuber e non I masnadieri: fra teatro di prosa e teatro in musica ce ne corre, e parecchio. L’idea di riambientare la vicenda in una sorta di periferia urbana, realizzata scenicamente da Alessandro Camera, fatta da muri di mattoni sui quali campeggiano graffiti punk nei quali si ritrova qualche eco della pittura di Basquiat, resta fine a se stessa, soprattutto se i protagonisti sono inchiodati a cantare al proscenio. Non c’è una singola idea drammaturgica sviluppata e l’azione si snoda secondo i dettami di una tradizione un po’becera e oggi francamente non più proponibile. Unico richiamo risorgimentale la scritta Libertà o Morte.
Censurabile l’idea di realizzare l’incendio di Praga sparando in faccia al pubblico una marea di accecatori rossi.
Del tutto anonimi ci sono parsi i costumi di Andrea Viotti, anch’essi ispirati agli anni Ottanta del secolo scorso ed integrati con richiami ottocenteschi.
Alla pochezza dell’allestimento si contrappone, per fortuna, un’esecuzione musicale di alto livello.
Daniele Rustioni, giovane direttore in costante crescita, affronta la partitura verdiana con perentoria baldanza alla quale unisce sensibilità e ricercatezza, assecondato da un’orchestra in ottima serata.
I tempi sono giustamente serrati, i volumi orchestrali gagliardi ma mai eccessivi, le dinamiche risultano stringenti, i colori variegati ed intriganti in un costante gioco chiaroscurale.
Complessivamente molto buona la compagnia di canto.
Andeka Gorrotxategui, dopo un inizio un poco teso, si rende protagonista di una prova in crescendo e tratteggia un Carlo di Moor disperatamente appassionato. La voce del tenore basco risulta morbida nell’ottava centrale e si dispiega sicura in quella acuta, grazie ad una linea di canto cristallina ed uniforme.
L’Amalia di Maria Agresta, volitiva e tenera ad un tempo, si distingue per la morbidezza del fraseggio, per la straordinaria capacità nel controllo dei fiati e per la solidità del mezzo vocale. Bravissima.
Molto buona ci parsa la prova di Artur Rucinski, autentico baritono verdiano, il quale dà voce e corpo ad Francesco torbidamente perverso, capace di assecondare anche scenicamente il dettato imposto dal regista, che lo vuole storpio, gobbo e con un braccio offeso.
Giacomo Prestia è un Massimiliano di Moor affranto ma non domo, ricco di nobiltà, la quale si estrinseca in un canto elegante nella linea e sicuro nell’intonazione.
Il Moser di Cristian Saitta, inopinatamente vestito da prete cattolico e non da pastore protestante, è possente nella voce ed autorevole negli accenti.
Cristiano Olivieri sostiene con eleganza il non facile ruolo di Arminio.
Bravo ci è sembrato anche Dionigi D’Ostuni, Rolla giovanilmente scanzonato e dalla bella voce chiara.
Il coro, preparato da Claudio Marino Moretti, lungamente impegnato in scena, soprattutto nel comparto maschile, fornisce una prestazione esemplare.
Numerosi applausi a scena aperta sono stati il prodromo di un successo finale pieno e prolungato, con ovazioni, meritatissime, per la Agresta e per Rustioni.
Alessandro Cammarano