Don José | Arturo Chacòn-Cruz |
Escamillo | Marko Mimica |
Carmen | Varduhi Abrahamyan |
Micaela | Maria Katzarava |
Le Dancaire | Nicolò Ceriani |
Le Remendado | Cristiano Oliveri |
Moralès | Vittorio Albamonte |
Zuniga | Mariano Buccino |
Frasquita | Marina Bucciarelli |
Mercédès | Annunziata Vestri |
Lilas Pastia | Piero Arcidiacono |
Giovane torero | Alessandro Cascioli |
Direttore | Alejo Pérez |
Maestro del Coro | Piero Monti |
Maestro del Coro di voci bianche | Salvatore Punturo |
Regia | Calixto Bieito |
Ripresa da | Joan Antòn Rechi |
Scene | Alfons Flores |
Costumi | Mercè Paloma |
Luci | Alberto Rodriguez Vega |
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo di Palermo |
La Carmen secondo Calixto Bieito, violenta ed esplicita, regge ancora con grande perentorietà la scena, nonostante abbia debuttato nel 1999 al Festival di Peralada e poi girato in lungo e in largo per i principali teatri europei. In tempi di femminicidi dilaganti si dimostra pertanto di una attualità estrema, sganciata com’è da ogni didascalico cliché andaluso. Le note di regia menzionano un’ispirazione frutto di un viaggio a Ceuta, enclave spagnola al confine col Marocco, dominata dalla analogia frontiera=illegalità. L’idea dalla quale parte Bieito si sviluppa compiutamente grazie anche al contributo dello scenografo Alfonso Flores e delle luci efficaci di Alberto Rodriguez Vega, con il valido apporto dei costumi anni ’70 di Mercé Paloma.
Lo spazio scenico del teatro Massimo è delimitato da un essenziale fondale nero semicircolare, al centro del palco si erge il pennone dell’alzabandiera, simbolo della caserma, e sul fianco sinistro una cabina telefonica dalla quale uscirà Carmen prima dell’Habanera. Nel II e III atto vecchie Mercedes entreranno e usciranno, metaforicamente presentandoci la taverna di Lilas Pastia e poi l'accampamento dei contrabbandieri. Il bozzettismo della Spagna da cartolina, sarcasticamente , lo vediamo solo nei due abiti da ballerina di flamenco indossati da Mercédès e Frasquita per distrarre i doganieri dal trasporto di merce di contrabbando. Analogamente l’unico accenno alla Plaza de toros è una gigantesca sagoma del Toro di Osborne, abbattuta poco prima che la tragedia finale si compia, mentre la sfilata viene filtrata attraverso gli occhi del coro che si sporge alla ribalta, proteso verso la platea. L’opera di Bizet si affranca così dai soliti tableaux vivants folkloristici, e viene ricreata la crudezza di una vicenda che il compositore addolcì solo con la creazione del personaggio Micäela, non presente nella novella di Mérimée.
In questo spettacolo ripreso da Joan Antòn Rechi, Carmen resta comunque la donna libera, consapevole di poter contare solo sulla sua intelligenza animalesca per emanciparsi da una società maschile alla cui regole non vuole sottomettersi. Lucidamente va incontro alla sua fine e attira in un gorgo mortale Don José pur attratto dalla diversità di lei.
Per una lettura così forte e caratterizzata è dunque necessaria una visione chiara dell’opera, oltre ad occhi in grado di seguire contemporaneamente fossa, palcoscenico e fanfara fuori scena. La partitura è priva di esotismo di maniera o di folklore, ma è ricca di colori che vanno padroneggiati e dosati attraverso scelte musicali che siano chiare e ben precise per tutti i soggetti coinvolti. Amaramente constatiamo che questi presupposti sono mancati nella ripresa dello spettacolo coprodotto dal Massimo con il Liceu di Barcellona, il Regio di Torino e La Fenice di Venezia. La serata si è infatti aperta con una roboante ouverture che si è fatta notare per le intemperanze degli ottoni, mai tenuti a freno da Alejo Perez, il quale pur sbracciandosi per tutti i quattro atti non ha mai offerto alcun saldo punto di riferimento ai cantanti e allo stesso coro. Da ciò scaturivano attacchi timidi o imprecisi nonché scollamenti evidenti tra buca e palcoscenico come nel caso dell’ostinato degli archi bassi a sostegno dell’Habanera o nei couplets di Escamillo. Il terzetto delle carte è scivolato su un ritmo tombale che ne contraddiceva l'alta forza drammatica; unico momento di distensione di tutto lo spettacolo è stato il quintetto dell’atto II, portato a termine senza intoppi, mentre il teatralissimo finale IV è passato indolore verso gli applausi piuttosto distaccati del compassato pubblico palermitano delle prime.
In un siffatto contesto è inevitabile che il cast vocale abbia fornito una prova alquanto opaca, eccetto per il Don José di Arturo Chacòn-Cruz, sostituto dell’ultima ora dell’indisposto Roberto Aronica. Il tenore messicano ha timbro chiaro e voce di non grande tonnellaggio, di conseguenza il suo è stato un Don José molto lirico che, pur mancando un po’ di polpa, ma con una apprezzabile linea di canto, ha disegnato la psicologia instabile del personaggio. L’aria del fiore è stata portata a termine con buoni risultati (senza il pianissimo al Si bemolle previsto su et J'étais une chose à toi ). Nel terzo disperato atto la tessitura poco congeniale lo ha messo un po’ alle corde, ma nella scena finale dell’atto conclusivo il cantante ha mostrato ottime capacità attoriali nonché le necessarie doti di resistenza.
La Micäela di Maria Katzarava, molto più donna a caccia di marito che fanciulla ingenua secondo Bieito, nonostante il timbro caldo si è rifugiata in acuti aspri e ghermiti nell’aria, oltre ad aver messo in mostra un fraseggio poco consono al sognante lirismo belcantista del duetto con Don José.
Insufficiente sostegno dal podio riceve anche Marko Mimica nei couplets di Escamillo, orchestra indisciplinata e voce, pur sonora, quasi senza protezione a lottare contro una scrittura vocale ibrida dunque insidiosa. Il baritono si riscatta però nell’intimo Si tu m’aime Carmen.
Sonori e sufficientemente spocchiosi Vittorio Albamonte e Mariano Buccino, rispettivamente Moralès e Zuniga, e adeguati le Dancaïre di Nicolò Ceriani e le Remendado di Cristiano Olivieri. La Frasquita perennemente in preda all’alcool di Marina Bucciarelli è parsa invece inutilmente petulante, superata nettamente dalla Mercédès con figlia Lolita di Annunziata Vestri.
Discorso a parte va fatto per Carmen. Il ruolo eponimo non è infatti solo motore della vicenda, ma nella sua intransigenza e apparente durezza deve sempre muoversi con leggerezza tra ammiccamento e promessa esplicita di amore carnale, sensualità ed inflessibilità da femminista ante litteram. La difficoltà del ruolo sta proprio nel trovare il giusto equilibrio ed è quindi compito arduo per una giovane cantante come Varduhi Abrahamyan. La lascivia non può essere l’unica chiave interpretativa, pur se appropriata nel contesto Bieito. Manca la maliziosa carica seduttiva della seguidilla e lo scontro libertà-ordine precostituito della scena della taverna, ma il timbro scuro,contraltile, quasi viscerale non è privo di fascino. La sua Carmen è ancora un personaggio in divenire e necessitava nel caso specifico di un maggiore sostegno dal podio. Da perfezionare, inoltre, la dizione francese. Anche per lei, come per il suo partner Chacòn-Cruz, il momento migliore è il finale IV nel quale é apparsa finalmente liberata dall'ansia di apparire seduttiva.
Nella serata che probabilmente marca il punto più basso della ricca e variegata stagione 2016 del teatro Massimo, anche il coro, solitamente punto di forza delle masse artistiche palermitane grazie alle cure di Piero Monti, è parso poco a fuoco contrariamente all’ensamble di voci bianche preparato da Salvatore Punturo.
La recensione si riferisce alla "prima" del 26 Novembre
Caterina De Simone