

L’Opera di Firenze in questa prima tornata di spettacoli della stagione 2016 – 2017 torna ad essere il teatro delle scelte coraggiose e di rilevante importanza culturale delle quali è costellata la storia del Maggio Musicale Fiorentino. Impresa tanto più meritevole in quanto effettuata in un periodo di nera crisi come l’attuale, che vede le istituzioni musicali riproporre i titoli più abusati del repertorio al fine di fare cassetta. Dopo la sfida di Semiramide e prima dell’omaggio ad Andrea Nozzari da parte di Michael Spyres e David Parry, è la volta della riproposta in forma di concerto di una delle opere più sfortunate della maturità donizettiana, Rosmonda d’Inghilterra. Nata al Teatro della Pergola nel 1834 con esito deludente, pare (a detta dello stesso compositore) che il successo crescesse nel corso delle recite, ma questo non impedì che il lavoro non conoscesse che una sola ripresa, per quanto ne sappiamo, a Livorno nel 1845; mentre una nuova edizione che prevedeva alcune importanti modifiche col titolo di Eleonora di Guienna sembra non sia mai stata rappresentata. Riproposta a Londra nel 1975, protagonista Yvonne Kenny, ha conosciuto poi un’incisione discografica nel 1994 realizzata da Opera Rara con Renée Fleming, Bruce Ford, Nelly Miricioiu, guidati da David Parry.
Si trattò dell’ultima collaborazione tra Donizetti e Felice Romani. Quest’ultimo aveva già tratto il soggetto nel 1829 dalla tragedia in cinque atti Rosemonde di Emile de Bonnechose (1827) per l’opera di Carlo Coccia, Rosamunda, accolta alla Scala da un insuccesso che fece epoca. Il libretto, oggetto di sostanziali cambiamenti rispetto a quello scritto per Coccia, presenta cinque personaggi, tutte prime parti, anche se le principali sono Enrico II, re d’Inghilterra (tenore), Leonora, sua moglie (soprano), Rosmonda, sua amante (soprano). Completano il quadro, Clifford, padre di Rosmonda e consigliere del re (basso) e Arturo, paggio (mezzosoprano).
Il sipario si apre sul parco del castello di Woodstock, dove il re ha nascosto l’amata (che ignora però la vera identità di Enrico), approfittando dell’assenza del padre di lei. La regina viene a conoscenza del tradimento dello sposo e, tramite il paggio Arturo, innamorato di Rosmonda, scopre il rifugio della rivale. Enrico è stanco della moglie, gelosa ed autoritaria, e confida a Clifford, appena ritornato, il suo desiderio di ripudiarla per sposare la fanciulla di cui è innamorato. Il vecchio consigliere chiede di vedere la donna per convincerla a troncare il legame. Quando però scopre che si tratta di sua figlia, le rivela l’identità dell’amante e il suo matrimonio con Leonora. Questa, quando apprende i piani del marito, va su tutte le furie, mentre Rosmonda decide di lasciare l’Inghilterra insieme ad Arturo. Ma la regina, assetata di vendetta, la precede e la trafigge a morte.
Proprio il finale, così brusco, crudo, immediato, fu uno dei motivi di perplessità nel corso delle recite fiorentine del 1834. Donizetti aveva pensato, in fase di progetto, di terminare l’opera con un compianto del tenore sul cadavere della protagonista, ma non ne fece nulla e solo nella revisione come Eleonora di Guienna fu aggiunto un brano conclusivo per la regina, non indimenticabile, peraltro.
All’ascolto Rosmonda d’Inghilterra si presenta come un’opera senz’altro interessante dal punto di vista formale, di grande mestiere, ma povera dei grandi involi e della forza teatrale tipici del Donizetti più grande. Non mancano pagine gradevolissime e molto ricercate, come la famosa Perché non ho del vento, tanto gradita alla prima interprete e ad altre esecutrici della futura Lucia di Lammermoor, da inserirla in molte esecuzioni in luogo di Regnava nel silenzio, soluzione addirittura ratificata dal compositore, il quale la incluse nella versione francese dell’opera. Altro motivo di qualche perplessità riguarda con tutta probabilità la stessa figura della protagonista apparsa fin troppo chiusa nella sua specchiata virtù, capace anche di frasi di veemente intensità nel difendere la sua indiscutibile probità, ma fin troppo restia a trasmettere le ragioni del cuore.
A questa sensazione non era forse estranea l’interpretazione pulitissima, di un virtuosismo spesso fuori dell’ordinario, anche con qualche bella frase ascendente intensa e autorevole, ma troppo spesso volta più a stupire che a commuovere, di Jessica Pratt. Eppure questa artista avrebbe le caratteristiche per essere interprete pressoché ideale di un ruolo come questo, scritto per Fanny Tacchinardi Persiani, virtuosa di rango e dalle qualità forse non troppo dissimili da quelle dal soprano anglo-australiano. La Pratt primeggia nella cavatina di entrata per eleganza e precisione esecutiva nel dipanare i tutt’altro che semplici arabeschi, mentre il nutrito registro acuto le permette slanci anche di una certa energia in vari passi dell’opera. Quando la tessitura gravita nel registro centrale e nel grave il canto è tuttavia meno personale, manca di consistenza, originalità e abbandono (vera cartina di tornasole è, in questo senso, il cantabile Non io non io dimentica che viene immediatamente dopo l’esecuzione commossa dello stesso tema musicale da parte di Michael Spyres). Ho trovato inoltre discutibile il sovraccarico di variazioni acute e sopracute, non sempre gradevoli dal punto di vista musicale e, in rari casi, nemmeno riuscitissime vocalmente, vedi Senza pace, senza speme, infarcita di mi5 e addirittura da un fa diesis5, che ha provocato un paio di contestazioni, comunque del tutto spropositate e ingiuste, nell’ambito di un’accoglienza entusiastica, va detto. Se Jessica Pratt si concentrasse più sull’espressività, magari cercando di arrotondare maggiormente il registro centrale e rinunciando a qualche inutile effetto fine a se stesso (presente anche nella recente Semiramide), ne guadagnerebbe sicuramente l’artista, in grado, comunque, di consegnare al canto lirico pagine di assoluto rilievo.
Michael Spyres, invece, in un ruolo come questo si esprime al meglio. Non può sfoggiare le sue straordinarie doti di spericolato virtuoso, in quanto Enrico, scritto per Duprez, che notoriamente non amava troppo gli ottovolanti vocali, richiede forza di accento, autorità e capacità di cantare “di grazia” inteso in senso ottocentesco. Nessun problema per il tenore americano che supera tutte le insidie, accolto con grande calore dal pubblico.
Curiosità destava la scelta di Eva Mei, soprano chiaro e acuto, per il ruolo di Leonora, la cui prima interprete, Anna Del Sere, avrebbe dato vita, di lì a poco, ad Elisabetta nella Maria Stuarda. Entrambi i ruoli presentano un’estensione che oggi diremmo di mezzosoprano acuto, con fraseggi arroventati, autorevoli, vocalizzazione non vorticosa ma scomoda, soprattutto nel suo insistere nel registro grave. Nel primo atto sono rimasto piuttosto sorpreso da un vigore di accento favorito anche da un’espansione vocale che non conoscevo alla Mei. Poi, o che sia subentrata un po’ di stanchezza, o che l’impegno dei brani del secondo atto la mettesse maggiormente in difficoltà, la voce è parsa meno spavalda, specialmente in basso, con qualche agilità non fluidissima, sempre però in grado di garantire lo spessore carismatico del ruolo.
Note liete per gli altri due interpreti. Raffaella Lupinacci ha confermato l’impressione positiva che avevo riportato nell’ascolto della sua Rosina bolognese della primavera scorsa, nonostante Arturo sia il personaggio peggio servito da Donizetti, pur se gratificato da un momento solistico che ha molto dell’aria di sorbetto. Donizetti infatti in un primo momento avrebbe desiderato eliminare il ruolo, ritornando poi sul suo proposito probabilmente a causa del legame con Giuseppina Merola, scritturata dal teatro fiorentino. Comunque la giovane Lupinacci ha esibito emissione salda e morbida, bel timbro, canto corretto e un registro acuto luminoso che le hanno regalato un vivo successo personale.
Nicola Ulivieri (Clifford) sfoggiava ottima dizione, timbro gradevole, competenza stilistica e ottima musicalità.
Guidava il tutto con ottimo piglio narrativo, belle capacità di concertatore e competenza nel dare il giusto respiro ai solisti, Sebastiano Rolli, che otteneva dall’orchestra una risposta pregevole, mentre il coro, guidato da Lorenzo Fratini, collaborava con la consueta perizia.
Ci si avvaleva della nuova edizione critica a cura di Alberto Sonzogni che sarà utilizzata anche a Bergamo nel novembre prossimo per un’esecuzione in forma scenica.
Successo molto caloroso; particolarmente nutrito dopo i singoli brani e un poco più sbrigativo alla fine.
La recensione si riferisce alla serata del 09 ottobre 2016.
Silvano Capecchi