Henry Higgins | Robert Hands |
Eliza Doolittle | Nancy Sullivan |
Colonnello Pickering | John Conroy |
Alfred P. Doolittle | Martyn Ellis |
Freddy Eynsford-Hill | Dominic Tighe |
Mrs. Higgins | Julie Legrand |
Mrs. Eynsford-Hill | Gillian Bevan |
Mrs. Pearce | Rachel Izen |
Jamie | Harry Morrison |
Harry | Lee Ormsby |
Ensemble | Jenna Boyd, Helen Colby, Olivia Holland-Rose, Matt Harrop, Liam Wrate, Nicholas Duncan, Michael Cotton |
Direttore | Donato Renzetti |
Regia | Paul Curran |
Scene | Gary Mc Cann |
Costumi | Giusi Giustino |
Coreografie | Kyle Lang |
Luci | David Martin Jacques |
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo | |
Nuova Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo |
Ci si è messo anche il tempo meteorologico a creare il clima giusto per My Fair Lady: una storia tanto londinese, accolta per la sua prima da una Napoli grigia e piovosa come non mai.
Il San Carlo ha vinto a pieni voti la piccola sfida di produrre un musical, assieme al teatro Massimo di Palermo, e pare giusto che la scelta sia caduta sul celebre titolo di Frederick Loewe su testo di Alan Jay Lerner (gli autori anche di Gigi o Brigadoon e Camelot) che è fra quelli dalla scrittura più "classica". Perciò è stato ingiustificato lo scetticismo di qualche appassionato (una signora davanti a noi, dialogando con la figlia nell'intervallo, insisteva a dire che lo spettacolo fosse "bellissimo, ma il San Carlo non dovrebbe fare certe cose"), anche pensando che nello stesso teatro in passato si sono messe in scena operette (e non solo La vedova allegra) alle quali la commedia musicale anglosassone non è certamente seconda per pregio di scrittura e valori melodici. Se poi ricordiamo che la versione italiana delle parti musicali, nell'edizione teatrale del 1964 fu curata da Fedele D'Amico, la coscienza dei puristi dovrebbe essere a posto. Aggiungiamo che pochi anni fa in cartellone ci fu West Side Story ma era una produzione in tournée, mentre ben altro è il valore quando come stavolta, l'allestimento è realizzato con le forze di casa, dal Coro, all'Orchestra, al Corpo di ballo e poi dal laboratorio costumi, a siglare la riuscita di uno spettacolo in cui si ammirano la precisione e la professionalità.
Qualche perplessità rimane circa l'idea di rappresentare My Fair Lady filologicamente in lingua originale. Chiunque ricordi la storia, che discende direttamente dal Pigmalione di G.B. Shaw, saprà che si parla di come Eliza Doolittle, povera e sgraziata fioraia, venga plasmata dal glottologo Higgins fino a farla diventare una vera dama a suo agio nella società più nobile. Se si vuole andare fuori di metafora, si racconta di come una persona prenda coscienza del proprio valore e della propria dignità. Tema portante della metamorfosi è la lingua, il dialetto cockney parlato da Eliza, che, a costo di sforzi enormi, diventa un inglese perfetto. Ora tutto questo (insieme con i vari dialetti parlati dai personaggi "del popolo" che Higgins si diverte a decifrare) viene perso in gran parte, perchè quanto i sopratitoli possono rendere in materia di differenze linguistiche è poca cosa. E ironia della sorte essi stessi non sono sempre precisi se si pensa che Regina di Saba viene reso con Regina di Sheba. Così il vero divertimento resta solo per i fortunati che hanno piena dimestichezza con l'inglese e si gustano anche la parlata plebea di Eliza, ma tant'è: alla fine ci si abitua e il pubblico è rimasto comunque conquistato dalla vicenda.
La memoria di My Fair Lady nel nostro paese è il film di George Cukor, dove Audrey Hepburn sfoggiava una bella voce di soprano leggero grazie al doppiaggio da parte di Marni Nixon, mentre a noi italiani è quasi ignota l'interpretazione originale di Julie Andrews (prima interprete del ruolo) e la Delia Scala del 1964 è conservata solo nella memoria dei pochi che l'hanno vista e sono ancora in vita.
Non crediamo che Paul Curran si sia fatto intimidire da tali confronti: d'altra parte ebbe a che fare con My Fair Lady già in gioventù, come assistente alla regia. Chi ricorda i suoi precedenti esiti al San Carlo (Königskinder, Cenerentola, Sogno di una notte d'estate di Britten, fra gli altri) ha riconosciuto come tutto suo il gusto nel tratteggio elegante ma incisivo (a volte molto british) dei vari personaggi. Va da sè riferire quindi dell'accurateezza con cui è stata studiata la recitazione dei singoli fino alle minime espressioni, ma la mano di Curran si distingue anche nell'ottima gestione dei movimenti di massa. Esemplare è la scena all'ippodromo di Ascot ad esempio, quando la pista dei cavalli a cui guardano gli attori al proscenio sembra veramente trovarsi oltre la platea, dove loro fissano i binocoli. In più, anche i personaggi più marginali vengono sempre qualificati con un gesto o un atteggiamento ben studiato senza nessuna approssimazione. Restano così nella memoria il piccolo esercito di domestici di casa Higgins e soprattutto i venditori del mercato nella grigia alba londinese, quando una smarrita Eliza dal fondo scena si avvicina lentamente verso il proscenio e non viene più riconosciuta dai suoi vecchi colleghi.
Di grande effetto le scene di Gary McCann: magnifica la ricostruzione di una Wimpole Street vista di sbieco con la facciata di casa Higgins, stilizzate ma efficaci le ricostruzioni del mercato del Covent Garden (con una percepibile nostalgia per una Londra che non c'è più) o dell'ippodromo di Ascot, ironicamente floreale il giardino della signora Higgins e favolistica l'enorme luna su cui si chiude I could have danced all night, mentre il soggiorno con enorme biblioteca di casa Higgins segue la tradizione. Benissimo congegnato il disegno luci di David Martin Jacques essenziale soprattutto per la suggestione delle scene notturne, dell'alba al mercato o del bagliore di Ascot.
Molto belli i costumi di Giusi Giustino che ha affrontato la sfida di confrontarsi con quelli iconici che Cecil Beaton creò per il film del 1964. Colorati e ben caratterizzati, questi: basta l'immagine della misera stola di piume di struzzo che Eliza indossa per la sua prima sortita a casa Higgins, con il patetico tentativo di darsi un tono a dare la misura di come la costumista abbia "cucito" gli abiti addosso ai vari caratteri.
L'esecuzione è stata purtroppo amplificata. È vero che questa è l'usanza nei musical, ma trattandosi del San Carlo si sarebbero dovute trovare voci idonee per evitare l'espediente. Di sicuro tutta la performance ne avrebbe guadagnato in qualità.
Nancy Sullivan recita con grinta e determinazione. Vocalmente non si avvicina ai toni sopranili di altre interpreti di Eliza, ma ha una voce leggera e acuta, pur dotata di un certo corpo. Non è estesissima e qualche sforzo di troppo lo si avverte alla fine di I could have danced all night, ma è tanto energico lo slancio che mette nella parte, e basta citare l'irresistibile Show me, che alla fine vince la sfida da autentica protagonista e la "sua" Eliza resta nel cuore degli spettatori.
Attore esperto, Robert Hands è perfetto nel dare l'idea dello studioso trasandato e poco coi piedi per terra. Segue un po' la tradizione del recitar cantando dei vari Higgins e se è tagliente nei numeri musicali più mordaci, si è dimostrato capace di assecondare il romanticismo della celebre I've grown accustomed to her face.
Gli tiene testa il Colonnello Pickering di John Conroy, ironicamente (quasi) imperturbabile, mentre a Martyn Ellis sono affidati due dei numeri musicali più sfrenati di tutto lo spettacolo, An ordinary man e Get me to the church on time. L'attore rende bene del suo Alfred P. Doolittle sia i tratti più da simpatico filibustiere che quelli un po' più oscuri (si tratta sempre di un padre che si disinteressa della figlia).
Brava Rachel Izen, ineffabile signora Pearce che non polemizza col suo padrone, ma lancia sguardi ben eloquenti durante You did it o Hymn to him.
Dominic Tighe mostra buone doti vocali nei panni dello spasimante Freddy nella sua On the street where you live, mentre Julie Legrand ha buon gioco nel valorizzare le fulminanti battute riservate alla signora Higgins.
Il Coro del San Carlo diretto da Marco Faelli ha trasmesso una bella carica di energia e divertimento: ce l'ha messa tutta ed è stato di grande efficacia in un repertorio a lui non familiare.
Un plauso anche per l'Ensemble di dieci caratteristi che danno vita con simpatia alle figure secondarie, dai domestici del Professore, ai venditori del mercato, agli scapestrati amici di Alfred Doolittle.
Più di una parola va spesa per il Corpo di ballo del San Carlo, uno dei pochi rimasti attivi in un ente lirico. La sua presenza dà un valore aggiunto alle coreografie di Kyle Lang, ora scatenate, ora atte a creare un clima di calore e simpatia.
Donato Renzetti ha diretto con un occhio allo scintillio della partitura fino dalla ouverture che come tradizione è un compendio dei principali temi dei song presenti nel lavoro. Efficace nei ripiegamenti melodici, ottimo nell'accompagnamento alle voci, asseconda la cantabilità dei vari temi. Solo nei momenti più ritmici e vivaci le sonorità degli ottoni sono parse un po' prevaricanti, ma nel complesso la prova dell'Orchestra di casa è stata ottima.
Applausi più che calorosi a scena aperta dopo ogni numero musicale, pubblico attento anche durante le parti in prosa (nonostante la lunghezza dei sopratitoli) e alla fine ovazioni prolungate per tutto il cast, con punte di maggiore intensità all'apparire in scena del regista Paul Curran e del resto dello staff della parte visiva.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 6 febbraio 2018.
Bruno Tredicine