Gianni Schicchi | Sergio Vitale |
Lauretta | Ayse Sener |
Zita | Shay Bloch |
Rinuccio | Alfonso Zambuto |
Gherardo | Giovanni Castagliuolo |
Nella | Haruka Takahashi |
Gherardino | Emilio Pellegrino |
Betto | Felipe Correia Oliveira |
Simone | Massimiliano Catellani |
Marco | Francesco Solinas |
La Ciesca | Yue Fei |
Spinelloccio, Guccio | Alex Martini |
Messer Amantio | Lorenzo Malagola Barbieri |
Pinellino | Cihan Özmen |
Regia | Stefano Monti |
Scene | Rinaldo Rinaldi |
Luci | Andrea Ricci |
Costumi | Ditta Arrigo Costumi di Milano |
Direttore | Stefano Seghedoni |
Orchestra dell'Opera Italiana |
Cavalleria Rusticana e Pagliacci furono abbinati fin dal 1893 in un'unica serata teatrale, non voluta dai loro autori, ma dai teatri ansiosi di eccitare il pubblico con l’estetica del “coltello” vendicatore di onte coniugali. Le tre opere pucciniane in un atto conosciute col titolo di Trittico furono invece “attrinate” dall’autore stesso fin dalla loro prima esecuzione al Metropolitan di New York il 14 dicembre 1918 (seguita dalla prima italiana avvenuta a Roma l’11 gennaio 1919), onde teatralizzare al massimo la loro progressione drammaturgica: dal cupo triangolo coniugale che si svolge su una péniche cullata dalle onde della Senna all’atmosfera di un convento che si fa sempre più soffocante fino al “velenoso” suicidio della protagonista, per giungere all’acida commedia di un gruppo di “parenti serpenti” che lottano per l’eredità presso il letto di Buoso Donati testé defunto, beffati però dal furbo Gianni Schicchi.
Ormai i teatri usano spezzare questi bini e trini accoppiamenti, talvolta riabbinando le singole opere ad altre, che non hanno con esse attinenza né musicale né drammaturgica (attinenza talvolta inventata capziosamente dai registi), per completare la serata, tenuto conto che vanno dai 55 minuti pucciniani ai 75 mascagnanleoncavalleschi. Il Trittico pucciniano completo (titolo che non gli fu dato da Puccini, ma che è invalso nell’uso) è senza dubbio oneroso e solo teatri dalle robuste casse finanziarie possono affrontarlo; il teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena osò metterlo in scena, e con buoni risultati, nel 2007, con il soprano Amarilli Nizza che interpretò, con un bel tour de force, i tre personaggi femminili di così differenziata caratura musicale e psicologica. Ora si può tuttavia perdonare lo stesso teatro se ha optato per l’allestimento del solo Gianni Schicchi, visto che esso è nato per consentire a un gruppo di giovani cantanti di mettere alla prova le proprie capacità. Quasi tutti questi giovani hanno partecipato al progetto “Produzione lirica in teatro”, corso di alto perfezionamento, promosso dal teatro Comunale, all’interno del quale la docenza vocale è stata affidata a Mirella Freni, che incise i tre ruoli femminili nel 1991 sotto la direzione del maestro Bruno Bartoletti, ruoli che però non affrontò mai sul palcoscenico.
Gianni Schicchi è un’opera breve, senza dubbio non facile per dei giovani che devono muoversi con perizia scenica ed affrontare intrecci vocali complessi assai su un tessuto orchestrale che esprime le più svariate sfumature, dall’ironia sottile alla esasperazione grottesca. Quest’opera, che fin dalle prime rappresentazioni fu la più apprezzata a scapito del Tabarro e di Suor Angelica, le quali soltanto ultimamente hanno ottenuto critica favorevole da parte degli studiosi e applauso convinto da parte del pubblico, è intrisa di comicità cattiva, aspra e anche macabra, ancor più in evidenza dopo la commozione per il suicidio finale in Suor Angelica e dopo la violenza cupa e disperata del Tabarro. Il libretto di Giovacchino Forzano (autore anche di quello di Suor Angelica, mentre si rifiutò di scrivere quello del Tabarro poiché il soggetto non era suo originale, ma tratto dal dramma La Houppelande di Didier Gold) mette in scena un personaggio della Divina Commedia (Inferno, canto XXX, versi 42-45), che Dante pose fra i falsificatori di persona, poiché lo Schicchi si sostituì al defunto Donati “testando e dando al testamento norma”, ma testando più a proprio favore che a favore dei Donati, parenti avidi e cinici (eppure la moglie dell’Alighieri era una Donati!). Non si dimentichi però che certi spunti del libretto non sono di Forzano, ma derivano da un anonimo commento fiorentino del Quattrocento al poema dantesco, commento pubblicato nel 1866 da Pietro Fanfani: Gianni Sticchi, non ancora Schicchi, che si mette la cappellina, che si corica nel letto del morto imitandone la voce davanti al notaio, il misero lascito all’opera di santa Reparata, la mula che è la migliore di Toscana lasciata a se stesso dal finto testatore, “perché io so ciò che Gianni Sticchi vuole” (mula che Dante definisce “la donna della torma”)….. Si può leggere questo testo alle pagine 416-417 del libro dedicato a Giacomo Puccini da Michele Girardi.
Ė ormai prassi comune ambientare la vicenda del Gianni Schicchi non più in epoca dantesca, ma attuale o riferita al tempo della prima rappresentazione dell’opera, opzione quest’ultima scelta dai responsabili della parte scenica del Gianni Schicchi modenese. Il libretto, con il clan di parenti avidi e litigiosi, lo permette, a parte l’accenno al falsificatore di testamenti che, scoperto dalla legge, dovrà andarsene in esilio con la mano tranciata e “randagio come un ghibellino”. Ecco dunque scena di Rinaldo Rinaldi, costumi della ditta Arrigo Costumi di Milano e trucco che evocano, secondo le parole del regista Stefano Monti “le tinte marcate di un certo cinema di quel periodo, da Metropolis a L’Angelo azzurro”. La scena era composta da una pedana in notevole (e pericolosa) pendenza, con il letto per il morto Buoso, racchiusa da alte mura verdognole incombenti e sghembe come la deficitaria morale dei personaggi. Forse, a marcare di più questa immoralità e il riferimento al cinema dell’epoca, un “bianco e nero” sarebbe stato più adeguato e incisivo. La regia è stata rimarchevole nel bel gioco di squadra cui i giovani cantanti hanno partecipato con divertita adesione, anche se un maggior cinismo avrebbe ancor più sottolineato il carattere spietato della vicenda e dei personaggi, dai parenti al protagonista, che è risultato più un buon papà, teso a procurare una ricca dote alla figlia, che uno scaltro manipolatore che conosce “ogni malizia di leggi e codici”.
Il maestro Stefano Seghedoni ha fatto innanzi tutto un ottimo lavoro di concertazione e ha diretto con mano sicura l’orchestra dell’Opera Italiana: ritmi implacabili, i temi che si intrecciano in tutta la partitura bene in evidenza, lo slancio delle melodie, soprattutto quelle relative alla coppia degli innamorati, le quali mai si arrendono a superficiale “puccinismo”, ma che danno un po’ di luce serena alla nera vicenda, dimostrando quanto Puccini fosse moderno e conoscesse l’evoluzione e le innovazioni della musica europea novecentesca.
I cantanti, allievi del corso sopra citato, si sono mossi con scioltezza in scena e hanno dimostrato compattezza musicale, frutto evidente di lunghe e accurate prove: Alfonso Zambuto, Rinuccio di voce tenorile dal timbro chiaro e gradevole, che sale con sicurezza all’acuto, benché necessiti di maggior volume, o forse il suo inno a Firenze andava cantato in posizione più avanzata sul palcoscenico e non sul fondo della pedana; Ayse Sener, Lauretta dal canto corretto, anche se di modesto volume, più innocente che maliziosa; Shay Bloch, una Zita forse non troppo contraltile, ma sicura; Giovanni Castagliuolo (Gherardo); Haruka Takahashi (Nella); Francesco Solinas (Marco); Yue Fei (la Ciesca); Alex Martini (nel doppio ruolo di Spinnelloccio e Guccio, dal bel timbro); Cihan Özmen (Pinellino).
Non appartenevano al gruppo degli allievi Felipe Correira Oliviero, Betto, Lorenzo Malagola Barbieri, uno spigliato messer Amantio,, Massimiliano Catellani, basso di timbro morbido e di notevole volume, un Simone energico nel suo desiderio di ereditare malgrado gli acciacchi dell’età che lo fanno claudicante e curvo. Il protagonista Sergio Vitale, giovane ma già esperto, è un baritono dalla voce ampia e sicura in tutta la gamma; una maggiore carica di acida ironia e di superba sicurezza di chi proviene dal contado, ma sapendo che quel contado, che farà “ricca e splendida Firenze”, può stare alla pari con le vecchie famiglie fiorentine, ne farà un Gianni Schicchi di ancor più alto livello.
Enrico Pellegrino era il simpatico Gherardino, che entra in scena con un grosso cono di zucchero filato, come premio per essere andato a chiamare Gianni.
Il pubblico ha applaudito con calore, anche quella parte che non conosceva il capolavoro di Puccini: “Prendi il programma di sala, che vediamo cosa succede”, ho sentito una spettatrice rivolta ad un’amica, coinvolti forse più dalla trama comica e dagli interpreti che dal valore moderno della musica.
La recensione si riferisce alla recita del 15 Gennaio 2017.
Ugo Bedeschi