Attila, Re degli Unni | Carlo Colombara |
Ezio, generale romano | Vladimir Stoyanov |
Odabella, figlia del signore di Aquileja | Svetlana Kasyan |
Foresto, cavaliere aquilejese | Sergio Escobar |
Uldino, giovane bretone, schiavo di Attila | Roberto Carli |
Leone, vecchio romano | John Paul Huckle |
Regia e luci | Enrico Stinchelli |
Scene e costumi | Pier Paolo Bisleri |
Video Design | Mad About Video |
Direttore | Aldo Sisillo |
Maestro del Coro | Stefano Colò |
Maestri preparatori coro voci bianche | Paolo Gattolin, Melitta Lintner |
Orchestra dell'Opera Italiana | |
Coro della Fondazione del Teatro Comunale di Modena | |
Scuola voci bianche della Fondazione del Teatro Comunale di Modena | |
Produzione Fondazione Teatro Comunale di Modena | |
Allestimento del Teatro Lirico "Giuseppe Verdi" di Trieste |
Attila, nell’immaginario francese e italiano, è l’aggressore, il distruttore, il barbaro al cui passaggio l’erba non ricresceva più (si legga il verso 134, canto XII dell’Inferno dantesco: “quell’Attila che fu flagello in terra”). Egli fu definito il flagellum Dei, uno strumento di Dio per punire tutti coloro che hanno abbandonato la via della giustizia (immagine biblica di un dio che usa i nemici per punire il tradimento del suo popolo). Le saghe germaniche fecero invece di Attila una figura rispettosa e rispettata, un sovrano saggio e benevolo, come nel poema La Canzone dei Nibelunghi (composto attorno al 1200, cui attinse Wagner per la sua Tetralogia). Divenne addirittura l’eroe nazionale dei Magiari, i quali videro in lui il capostipite della dinastia fondata da re Arpad nel secolo IX, ritenendosi a torto i discendenti degli Unni.
Verdi fu attratto dalla tragedia in cinque atti Attila re degli Unni composta nel 1809 da Zacharias Werner, uno scrittore dall’indole poco equilibrata, che si convertì al cattolicesimo facendosi sacerdote e diventando un popolare predicatore. Il librettista Solera semplificò molto questa lunga tragedia, frutto di un romanticismo eccitato, tendendo a far appello al patriottismo italiano, eliminandone o riducendone il misticismo cristiano e le saghe nordiche riferentisi alle Norne, a Wodan, al Walhalla, che rimangono nel libretto solo come vaghi nomi. L’attenzione viene riservata al protagonista, che la musica di Verdi dipinge come prode guerriero e superba guida di eserciti, il quale si trasforma però in un uomo fragile nel finale del primo atto, quando conosce la paura al cospetto del papa Leone (nel libretto “un vecchio romano” per motivi di censura), che gli impone di non assalire Roma, città santa protetta da Dio. Di fronte alla figura ieratica del papa, Attila (due potenti voci di basso che si fronteggiano e che possono farci pensare al futuro, terribile scontro tra re Filippo e il Grande Inquisitore nel Don Carlo) si genuflette, fra lo stupore dei suoi soldati, che lo vedono increduli per la prima volta prostrato nella polvere in preda a un indicibile terrore. Attila giganteggia nei confronti degli altri personaggi: il generale Ezio che si considera l’ultimo romano su cui piangerà tutta l’Italia, ma che è pronto a dividere l’impero col re unno, tradendo il proprio sovrano; Foresto, cavaliere della distrutta Aquileia, che vaga qua e là per tutta l’opera senza decidersi ad una vera azione e che ha idee molto maschiliste, preferendo la sua fidanzata assunta in cielo fra gli angeli piuttosto che saperla schiava dell’odiato nemico; Odabella, delicato nome (nella tragedia era un più germanico Hildegunde, principessa burgunda e non fanciulla italica) per un’amazzone che vuol vendicare il padre morto in battaglia, ma indecisa anch’essa, forse attratta più dal prode e vittorioso re unno che dall’insignificante fidanzato.
L’opera ottenne un caloroso successo a Venezia nel 1846: piena di musica energica, di scattanti e numerose cabalette, di melodie accattivanti, di alcune scene di forte impatto teatrale, essa era anche molto vicina alla temperie dell’imminente Quarantotto fervido di moti rivoluzionari: alla frase del baritono “resti l’Italia a me”, sembra che il pubblico rispondesse entusiasta “A noi! L’Italia a noi!”. Inoltre i veneziani furono entusiasti e orgogliosi vedendo nel prologo i profughi di Aquileia giungere sulla laguna di Rialto, ove avrebbero fondato una nuova patria, “più superba, più bella, della terra e dell’onde stupor”.
I quattro personaggi richiedono interpreti di sicura vocalità e capacità di esprimere i più vari “affetti” con ricca fantasia, con vibrante fraseggio, declamando con vigore i recitativi, ma ricercando anche un canto morbido soprattutto nelle arie e nei tempi lenti dei duetti e martellando con impeto le cabalette.
Non direi che il cast di questo Attila abbia saputo, nel suo complesso, essere all’altezza delle richieste dello spartito. Il più applaudito è stato il baritono Vladimir Stoyanov (Ezio), dalla voce chiara, sicura e ben proiettata, benché nel salire agli acuti essa sembri acquisire un timbro quasi tenorile; sufficientemente audace nel duetto con Attila, ha intonato con fiero rimpianto l’aria “Dagli immortali vertici” sulla decadenza di Roma, che necessitava tuttavia di maggiori sfumature. Il tenore Sergio Escobar (Foresto) possiede un bel timbro, buon volume, acuti sicuri che sono però sembrati staccati dal resto della tessitura; ha mostrato buone intenzioni nel fraseggio e, unico nel cast, ha variato con garbo la ripresa della cabaletta nel prologo, ma ha anche dimostrato disomogeneità vocali che talora inficiavano la sua prestazione. Problematica è stata la prova del soprano Svetlana Kasyan (Odabella), cui il terribile ruolo della fanciulla guerriera desiderosa di vendetta, ma anche innamorata e malinconica nel ricordo del padre morto, sta senza dubbio largo: timbro aspro e metallico, vuote le note basse, acuti più gridati che sfolgoranti, fraseggio monotono, incapacità di realizzare la diversità degli “affetti”, per cui è venuta a mancare l’intimità dell’aria “Oh nel fuggente nuvolo”. Positive le prestazioni del basso John Paul Huckle (il papa Leone) e del tenore Roberto Carli, la cui voce aguzza ha ben reso il carattere dell’infido scudiero Uldino. Protagonista era il basso Carlo Colombara, il quale mancava di morbidezza nel timbro e palesava evidenti difficoltà che gli hanno fatto fallire l’acuto finale nella cabaletta “Oltre quel limite” e che l’hanno affaticato al punto da dover ricorrere a frasi quasi parlate e poco regali nel quartetto finale; anche la grande aria del primo atto non è stata cantata differenziando con cura i sentimenti espressi nelle quattro strofe.
La direzione di Aldo Sisillo è stata precisa, attenta nell’accompagnare i cantanti nei loro momenti solistici, scattante nelle cabalette, talvolta un po’ eccessiva nei volumi (il teatro di Modena ha una buonissima acustica e non è necessario “calcare la mano”): insomma un Attila accattivante e mai noioso. La partitura è stata eseguita nella sua interezza, ma il direttore avrebbe dovuto suggerire una maggiore varietà espressiva nella ripresa delle cabalette.
Giudicate positive le prove dell’orchestra e del coro (diretto dal maestro Stefano Colò), resta da scrivere dell’allestimento. Risolto con pochi elementi scenici, esso si affidava a proiezioni ben curate ed anche suggestive, che ricreavano le varie situazioni sceniche e permettevano cambi senza soluzione di continuità: Aquileia in fiamme, il bosco ove si incontrano Odabella e Foresto, una basilica romana all’arrivo del papa, una soffocante caverna per il sogno di Attila. Una colonna romana sormontata da una lupa allattante i gemelli si innalzava in scena per l’aria di Ezio e per il finale a simboleggiare l’impero romano vincitore su Attila (morto nel 453), ma che pochi anni dopo (476) soccomberà a Odoacre re degli Eruli, che depone l’ultimo imperatore Romolo Augustolo. La celerità dei cambiamenti faceva posto a questo punto a tempi morti nelle ultime scene, più costruite, facendo perdere alla vicenda il ritmo che aveva caratterizzato la prima parte. Un po’ cartolina turistica sembrava la visione della futura Venezia (le cupole della basilica di san Marco, il campanile), cantata da Foresto nella cabaletta che chiude il prologo. Qualcuno ha visto in questo allestimento un Medioevo fantasy, quasi “trono di spade” (e un trono barbarico su cui sedeva il re unno era trascinato in scena nell’incendiata Aquileia): ma allora avrebbe necessitato di un regista (Enrico Stinchelli) che con perizia guidasse i movimenti dei cantanti, i loro scontri e le loro interazioni, che evitasse ai mimi (o li facesse meglio agire) movenze talora ridicole quando non inutili, da sceneggiato televisivo d'altri tempi: si sarebbero evitate scene come quella dei tre stupratori unni all’inizio del prologo o quella delle fanciulle in corto gonnellino e reggiseno poco medievale che allietavano la barbarica festa del secondo atto. A questo allestimento si adeguavano i costumi non particolarmente fantasiosi di Pier Paolo Bisleri, autore anche delle scene, il quale avrebbe fatto meglio a rivestire completamente Attila e ad evitare lo spacco laterale fino alla coscia dell’abito di Odabella, che sembrava evocare una certa “farfallina” sanremese di qualche anno fa. Erano del regista stesso le luci, ben curate nell’intento riuscito di valorizzare le proiezione.
La recensione si riferisce alla recita del 7 febbraio, ultima delle tre programmate con lo stesso cast. Il teatro ha inaspettatamente applaudito senza riserve, più alla fine dello spettacolo che nei momenti canonici.
Ugo Bedeschi