Emma | Annette Fritsch |
Florinda | Dorothea Röschmann |
Maragond | Marie-Claude Chappuis |
Fierrabras | Bernard Richter |
König Karl | Tomasz Konieczny |
Roland | Markus Werba |
Eginhard | Peter Sonn |
Boland | Lauri Vasar |
Ogler | Martin Pikorski |
Brutamento | Gustavo Castillo* |
Una damigella | Alla Samokhotova |
Direttore | Daniel Harding |
Regia | Peter Stein |
ripresa da | Bettina Geyer e Marco Monzini |
Scene | Ferdinand Wögerbauer |
Costumi | Anna Maria Heinreich |
Luci | Joachim Barth |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Produzione Salzburger Festspiele | |
* Allievo dell'Accademia Teatro alla Scala |
Se dovessimo dare retta ad Alfred Einstein che nella sua monografia bollò l'opera come “sciocchezza sciagurata e allo stesso tempo piena di pretese....la più indifferente, la più vuota e la più convenzionale fra le opere di Schubert” dovremmo condannarla all'oblio sempiterno. Irrispettosi della tormentata e disperata vocazione teatrale dell'Autore mirata ad una affermazione che non giunse mai a concretizzarsi seriamente, nonostante avesse composto undici lavori teatrali, lasciandone incompiuti altri sette. Di fatto Fierrabras non fu mai rappresentata durante la vita di Schubert.
L’opera, intessuta di ideali cavallereschi e profondi valori etici raccontati sullo sfondo della spedizione di Carlo Magno in Spagna contro i Mori per la riconquista delle sacre reliquie, sottratte dal principe Boland, padre di Fierrabras, è un'opera ricca di contrasti e di sbalzi violenti, pieni di ardore e di tensioni ma anche di ripiegamenti, di abbandoni e mezze tinte di evidente natura liederistica.
La vicenda - il cui libretto di Kupelwieser definisce “eroico-romantica” - risulta qua e là un bel guazzabuglio, complicato, tra molteplici peripezie, da una doppia storia amorosa e dal perenne cozzare di spade tra Mori e Cristiani, corre il rischio purtroppo di essere rappresentata come un'opera di pupi. La musica di Schubert però, più ancora che un dramma teatrale, ne fa un'opera dalla dimensione fiabesca, simbolica, psicologicamente onirica in continua oscillazione tra speranza e paura, tra volontà e dovere, tra realtà e sogno. A nostro avviso un vero gioiello! Il lieto fine, che esalta il sacrificio di Fierrabras: rinuncia virile all'amore terreno e conversione al cristianesimo, suggella il trionfo del bene sul male, come del resto rivela ogni favola che si rispetti.
La concertazione di Daniel Harding si posiziona sulla linea interpretativa abbadiana. Questa e quella smaglianti di bellezza.
Pure, allorquando l'opera fu rappresentata a Vienna nel 1988 (anche edita discograficamente), non era stata accolta benissimo da qualche musicologo che vi ravvisava una interpretazione troppo ricca di entusiasmo, con sonorità e contorni che apparivano afflitti da forzature, come se Abbado volesse convincere i dubbiosi che questo Schubert operistico avesse una brada tenuta drammatica oltre che musicale. La musica quindi si faceva impetuosa, accendendo di fiamme brucianti ogni momento, ogni giuntura, ogni relazione ma distogliendo l'attenzione dall'abbandono e dalla distensione soprattutto nelle pagine di più scoperta natura liederistica. Abbado ci presentava cioè uno Schubert inedito, più corposo e moderno, intenso e pressante, tutto vibrazioni ed emozioni (per fortuna). Al di là del fatto che a noi ciò detto pare un dato altamente positivo e non negativo - fondamentale nel teatro musicale da cui non bisognerebbe derogare - queste qualità, dicevamo, le ritroviamo in pieno anche nella concertazione di questa sera. Ci pare logico ed evidente che là dove la musica lo richiede ci si rifà all'atmosfera dolce (non sdolcinata), rilassata, morbida, intima, ingenua, tenera e bucolica (vedi il duetto Fierrabras-Roland del primo atto; il coro della fanciulle che apre il terzo atto delicato nel suo ritmo di danza tra tristezza e gioia contenuta, con le flautate puntature all’acuto di Emma), liederistica (l'introduzione del coro delle fanciulle al primo atto; il duetto Eginhard-Emma somigliante ad uno jodel; la serenata di Eginhard; il lied “Im jungen morgenstrahle”; il coro “a cappella” “O teures vaterland”; il duetto con il coro “Selbst an des grabes rande” che questa sera risulta assai luminoso nel suo aprire l’animo alla speranza). Ma dove la vicenda passa all'azione la vibratilità dinamica, la frenesia delle emozioni (basti pensare agli articolatissimi e drammatici “melodrammi”; al terzetto del secondo atto in cui esplode il furore di Boland a cui rispondono fieramente Florinda, Roland e i cavalieri franchi); le marce (solenni e marziali); i richiami a corali luterani (il quintetto del secondo atto) e i tanti cori eroici, romantici e comunque grandiosi ma anche brillanti, come del resto i finali d'atto, debbono avere una teatralissima sottolineatura. E’ quello che abbiamo ascoltato questa sera con graditissima soddisfazione, e al proposito ci preme anche mettere in rilievo altri momenti per noi particolarmente emozionanti. Sin dalla ouverture l’orchestra evidenzia il clima di mistero in un notturno il cui andante si dipana come un lamento e una invocazione di disperata solitudine, con i corni romantici che precedono l’intervento di intenso lirismo degli archi nell’allegro ma non troppo seguente. Il duetto Florinda-Maragond del secondo atto, dove sembra che Schubert si faccia cullare dalla dolce e mesta melodia di Florinda che si intreccia in maniera paradisiaca con il controcanto di Maragond e i leggeri e teneri arabeschi del clarinetto solo. L’allegro furioso che accompagna la breve aria di Florinda, di grande violenza espressiva nel descrivere l’inquietudine e lo sgomento ma anche la determinazione di un cuore oppresso. Il contrasto di atmosfera creato con efficacia da Harding subito dopo, nell’andante sostenuto del coro “a cappella”, in cui la desolazione e la staticità dolorosa spazzano via con delicatezza i fumi della precedente travolgente cavalcata di Florinda.
Le voci ahimè non sono tutte allo stesso livello della direzione.
Si staglia sugli altri Dorothea Röschmann, una Florinda che ha solo perso un po' di smalto e che negli acuti pare abbastanza prudente, ma ha ancora gravi risonanti e centri che corrono con una certa scioltezza. L'interprete è espressiva, tanto nel dolcissimo duetto con Maragond quanto nella “aria di furia” che l'apparenta alla Elettra dell'Idomeneo mozartiano: “Die Brust gebeugt von Sorgen”, dove oppressa dal dolore sfoggia una risolutezza furiosa. Il melodramma che caratterizza tutto il finale secondo è declamato con indubbia partecipazione drammatica. Nell'aria del terzo atto: “Des Jammes herbe Qualen” è delicata e tenera al contempo, immersa com'é nel rimpianto di una felicità tanto agognata e che sembra invece sfumare.
Anche il protagonista Fierrabras è ben rappresentato da Bernard Richter, dal timbro brunito, dall'accento fiero, dall'emissione generosa e una certa qual attenzione ai segni di espressione, anche se gli acuti sono stiracchiati. Si lascia andare ad un gioioso canto popolare nel duetto con Roland, poi nell'aria “In tiefbewegter Brust” sa esprimere una sommessa infelicità mista ad accenti eroici con cui evita di piangersi troppo addosso. É nobile nel finale d'opera nella rinuncia all'amore per Emma pur ritrovando quello di figlio che ha abiurato alla propria fede e si riconcilia con il padre Boland.
Peter Sonn è un Eginhard dal timbro un po' grossolano e acuti emessi allo stato brado, tuttavia ci evita l'ascolto di suoni sbiancati declinando invece le mezze voci, i piani e i pianissimi, viziati però da vibrato, con buona diligenza. Come interprete mostra più la dolcezza dell'innamorato che il piglio del guerriero, perché è sempre minato dai sensi di colpa per aver lasciato credere che Fierrabras avesse attentato alla purezza di Emma.
Gli acuti di Anett Fritsch nel ruolo di Emma sono invece degli strillozzi imbarazzanti e minano il resto dell'interpretazione, che qua e là potrebbe anche intenerirci per l'ansia ingenua con cui freme d'amore per Eginhard.
Markus Werba è un Roland dall'emissione morbida, rotonda, sempre a fuoco come interprete: fiero paladino del suo Re, nobile d'animo che riconosce il valore del nemico Fierrabras e non demorde di fronte alle avversità. Molto bello è il duetto con Florinda: “ Selbst an des Grabes Rande” in cui esibisce un canto disteso e amoroso che si apre alla speranza futura.
Tomasz Konieczny, è un pessimo König Karl, e Lauri Vasar, un vociferante Boland, vorrebbero convincerci di possedere l'autorevolezza dei rispettivi ruoli, il paternalismo misto alla magnanimità, combattuti tra il perdono e l'irosità dei giudici severi, ma ahi loro non convincono per nulla.
Marie-Claude Chappuis, Maragond, affianca Florinda nel duetto del secondo atto con musicalità.
Martin Piskorski, è Ogier, e contribuisce con correttezza ai concertati.
Gustavo Castillo, è Brutamonte, per quel che può fa la voce grossa contro i cristiani detestati.
Alla Samokhotova è una delicata damigella.
Il coro diretto da Bruno Casoni, chiamato in quest'opera agli straordinari, merita tanti applausi. Quello femminile gioca con le dinamiche (tra il piano e il pianissimo) con raffinata morbidezza e leggerezza. Quello maschile - mori o cristiani fa lo stesso, anche se nel secondo atto provano a pacificarsi in un festoso benvenuto reciproco - esibisce un piglio virile, marziale e solenne. In fin dei conti sono cavalieri pronti ad ogni scontro per la vittoria, ma non dimenticano che la prigionia è triste e desolante con un coro “a cappella” (“O teures Vaterland!”) in cui mezzevoci, pianissimi e mezzoforte, arricchiscono di espressività un dolore decisamente sconsolato.
Peter Stein è un grande regista, ma l’artista che si occupa di opere liriche, ultimamente, si è un po' rintanato nel porto sicuro delle regie didascaliche, un po' stereotipate e prive di qualsivoglia fantasia. Questa sera lo spettacolo è ripreso da Bettina Geyer e Marco Monzini e ci pare di tornare indietro di cinquanta anni. La qual cosa farà contenti gli spettatori tradizionalisti, che pretendono la fedeltà al testo e all'ambientazione storica, a noi però questa messa in scena non suscita particolari entusiasmi, diremmo anzi che annoia alquanto. Come la scenografia, di Ferdinand Wögerbauer, che sembra più un abbozzo su carta che una realizzazione compiuta, con quelle quinte disegnate in un bianco e nero stilizzato, tra un portale di ingresso alla dimora di re Carlo e grossi massi desertici, archi a tutto sesto (per gli ambienti cristiani) e quelli a ferro di cavallo (per gli ambienti arabi) che lasciano intravedere, come era ovvio, cupole di moschee e minareti. I costumi, poi, di Anne Marie Heinreich, riproducono rigorosamente l'iconografia dell'epoca di Carlo Magno con i franchi, in bianco, con corazze d'argento scintillanti (colore della purezza e della verità) e i mori in nero (colore del male e della colpa). Si poteva trovare qualcosa di meno banale? Le luci di Joachim Barth sono comunque funzionali e decorative. La regia dicevamo, facendo qualche esempio, tiene fermi i cori, con qualche accenno di movimento che pare più una trovata da teatro parrocchiale. Il re Carlo irrompe in scena accusando Emma di essere al braccio del seduttore Fierrabras, ma i due sono separati agli estremi del palcoscenico. La scena della torre, che tiene prigionieri i paladini, ricorda un interno da Presepe, con una finestrella che serve ai franchi e a Florinda a sporgersi per descrivere i tumulti sottostanti. Ma il finale è quanto di più kitsch si possa immaginare: sul fondale appare disegnato un grosso cuore, rosso vivo, intrecciato dalle palme della pace (tante volte non si fosse capito che tutti i protagonisti, “buoni e cattivi”, di riappacificano) e il cuore si illumina mentre il resto del palcoscenico resta al buio. Schubert meritava di meglio.
Alla conclusione applausi per tutti ma se dobbiamo descrivere rigorosamente l’accoglienza diciamo che erano più intensi per Harding e il coro diretto da Bruno Casoni e più tiepidi per i responsabili della messa in scena.
La recensione si riferisce alla "prima" del 5 giugno 2018.
Ugo Malasoma