Voce solista | Gerrie de Vries |
Pianoforte | Csaba Király |
Direttore | Sylvain Cambreling |
Ensemble Vocale Il Canto di Orfeo | |
Direttore dell'ensemble | Gianluca Capuano |
Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi | |
(Coproduzione con Milano Musica) | |
*** | |
Franz Schubert | Sinfonia n.5 in si bemolle maggiore D485 |
György Kurtág | New Messages op.34a |
Samuel Beckett: What is the Word op.30b | |
Franz Schubert | Sinfonia n.8 in si minore "Incompiuta" |
Sebbene l’edizione 2018 di Milano Musica, lo storico festival di musica contemporanea ideato dalla compianta Luciana Pestalozza, sia espressamente dedicato a György Kurtág e a Samuel Beckett, si può dire che sia il dialogo il vero protagonista della rassegna. Dialogo tra Kurtág e i grandi maestri del passato che hanno avuto un ruolo importante nella sua formazione (Stravinskij, Bartók, Schubert, Nono); dialogo tra Kurtág e lo stesso premio Nobel irlandese; e infine dialogo tra quest’ultimo e i compositori odierni (Marcello Filotei, Carmine Cella, Daniele Ghisi, Paolo Perezzani). Insomma Kurtág e Beckett appaiono come paletti di un recinto mobile dentro il quale lande di senso (della musica, della letteratura, della vita) da esplorare sempre più si allargano e sempre più sembrano perdere di definizione.
Frutto della collaborazione con il festival meneghino, l’ultimo appuntamento della stagione musicale dell’Orchestra Verdi rientra nelle prime due categorie: a due composizioni di Kurtág, di cui una ripresa proprio da una poesia di Beckett, si associa così lo Schubert della Quinta e Ottava sinfonia (l’ascolto di quest’ultima per l’ungherese costituì una sorta di epifania, come dichiarò).
È la bacchetta di Sylvain Cambreling a guidare l’orchestra con una fedeltà adamantina, a partire dall’apertura del concerto con la Quinta sinfonia. Composta nel 1816 dal diciannovenne Schubert è una partitura dal sapore un po’ rétro per via della evidente influenza mozartiana (soprattutto se si pensa che segue di pochi mesi la Quarta, in cui spicca l’affinità con Beethoven). Cambreling ne dà una lettura molto tradizionale e attenta alla forma: un nitore, anche timbrico, ben efficace nell’illustrare le chiarezza e la concisione tematica dell’opera.
Una scelta esecutiva analoga per quanto riguarda l’Ottava, ma forse non altrettanto felice. Trattasi di due sinfonie quasi agli antipodi: così classicista nella sua limpidezza espositiva l’una, così pervasa da un afflato tragico l’altra, al punto da essere considerata la prima sinfonia compiutamente romantica. E «compiutamente» è la parola-chiave: visti gli ideali, le tematiche e gli aneliti che hanno contraddistinto l’epoca romantica si direbbe la sua incompletezza renderla perfetta così com’è, un po’ come faceva notare anche Alfred Einstein. Più prosaicamente l’ “Incompiuta” è tale perché il compositore sarebbe stato sopraffatto da altri più pressanti e remunerativi impegni; resta un anelito romantico che per la prima volta appare in viva presenza e permea tutta l’opera dall’inizio alla fine (certo, anelito presente anche in molto Beethoven, sebbene non sempre in maniera così programmatica). La conduzione di Cambreling sembra smussarne gli estremi più spigolosi, costruendo un crescendo lineare del primo movimento che tocca il suo culmine nello sviluppo, per poi ridiscendere in maniera altrettanto lineare fino alla conclusione. Analogo il secondo movimento in cui una forse eccessiva attenzione alla pulizia sonora e alla chiarezza espositiva ha reso l’esecuzione un po’ troppo algida.
Le sinfonie schubertiane hanno fatto da cornice alle due composizioni di Kurtág: New messages, op. 34a è una serie di sei brevi pezzi per orchestra dedicati ad amici e colleghi. Kurtág gioca con l’orchestrazione con grande maestria, utilizzando la massima varietà agogica e timbrica possibile: c’è un’atmosfera quasi bandistica nel primo Merran’s Dream, a cui fa da contraltare il cupo e terroso suono di contrabbassi e fagotti protagonisti del secondo breve epigramma Schatten (“Ombre”), fino ad un omaggio a Janáček di cui il compositore evidenzia le comuni radici mitteleuropee.
Samuel Beckett: What is the Word, op.30b (1991) è la prima – forse la più emblematica – composizione che Kurtág dedicò a Beckett, tratta dall’ultima poesia da lui scritta nel 1989 pochi mesi prima della morte. L’orchestra dislocata attorno a tutta la sala circonda l’uditorio mentre sul palcoscenico la cantante olandese Gerrie de Vries declama in una sorta di sprechgesang il testo in ungherese, accompagnata da Csaba Király al pianino verticale e dal coro che dalla platea intona le parole in inglese. È una pagina di musica molto significativa: proprio come gli scienziati del CERN che studiano lo scontro fra due atomi alla ricerca del minimo comun denominatore dell’universo, Beckett sminuzzava la parole nei suoi elementi più piccoli e analogamente Kurtág frantuma la musica nelle minime particelle elementari di cui è composta. Il brano è anche un omaggio a un’amica cantante (Ildikó Monyók) la quale in seguito ad una grave afasia riprese la capacità di cantare prima di ricominciare a parlare; Kurtág trasforma questa esperienza in una riflessione sulla parola e il suo suono e la conclusione “strozzata” rimanda proprio a questo rapporto: what is the word, si è chiesto Beckett per tutta la vita. What is the sound, sembra chiedersi Kurtág.
Nella poetica di entrambi soggiace una riflessione profonda sul significato intrinseco degli elementi costitutivi della loro arte; Beckett e Kurtág si incontreranno ancora in futuro, a dimostrazione anche dell’ammirazione del compositore per lo scrittore. E il prossimo, inedito incontro, avverrà proprio grazie a Milano Musica. A 92 anni Kurtág non aveva mai composto un’opera: a partire dal 15 novembre (in cartellone fino al 25) il suo debutto alla Scala con Fin de Partie, uno dei capolavori del drammaturgo.
La recensione si riferisce al concerto del 9 novembre 2018.
Emiliano Michelon