Il Duca di Mantova | Enea Scala |
Rigoletto | Amartuvshin Enkhbat |
Gilda | Claudia Pavone |
Sparafucile | Simon Orfila |
Maddalena | Martina Belli |
Giovanna | Alessandra Della Croce |
Conte di Monterone | Seung-Gi Jung |
Marullo | Matteo Ferrara |
Matteo Borsa | Vasyl Solodkyy |
Conte di Ceprano | Cesare Kwon |
Contessa di Ceprano | Anastasia Pirogova |
Un paggio | Raffaele Palumbo |
Un usciere | Gianni Paci |
Direttore | Giampaolo Bisanti |
Regia | Federico Grazzini |
Scene | Andrea Belli |
Costumi | Valeria Donata Bettella |
Luci | Alessandro Verrazzi |
riprese da | Ludovico Gobbi |
Maestro del Coro | Martino Faggiani |
altro Maestro del coro | Masssimo Fiocchi Malaspina |
Orchestra Filarmonica Marchigiana | |
Coro Lirico Marchigiano "Bellini" | |
Complesso "Banda Salvadei" |
In occasione dell’Elisir d’amore allestito lo scorso anno sempre a Macerata, scrivevamo queste considerazioni a proposito dei titoli del repertorio più popolare programmati dai teatri con la speranza di “far cassa”:
E quindi vai con le trilogie popolari, i Barbieri, le Carmen, le Butterfly con la speranza che il pubblico possa accorrere in massa, non considerando che alla milionesima replica del titolo stranoto il pubblico potrebbe preferire di non spendere nemmeno i soldi per arrivare a teatro in tram. C’è del vero, ma a modesto parere di chi scrive è anche vero che ad un capolavoro non si può dare la colpa di essere tale rispetto ad altri titoli meno riusciti, e che il fattore discriminante per farne non una mera routine ma una vera proposta culturale deve essere il modo in cui viene rappresentato e gli artisti coinvolti. (…) Opera vista e stravista, interpretata dai più grandi artisti di ieri e di oggi come dai più scalcagnati cantanti della nera provincia, eppure è possibile sentirla come se fosse un’opera non dico inedita ma quasi, e scoprirne preziosi particolari anche all’ennesimo ascolto?
Fa davvero piacere che, ponendoci le stesse domande per il Rigoletto che è andato in scena come terza proposta di Macerata Opera 2019, la risposta sia ancora pienamente positiva, per una ripresa dell’allestimento già visto allo Sferisterio nel 2015 e che in questa occasione acquista un fascino ancora maggiore.
Queste le impressioni suscitate all’epoca della prima:
Allestimento per la regia di Federico Grazzini, le scene di Andrea Belli e i costumi di Valeria Donata Bettella con molti spunti interessanti, e che si può dire complessivamente riuscito. Posto che al giorno d’oggi la decontestualizzazione dei libretti sembra essere quasi una necessità ogni volta che si affronta il teatro operistico, soprattutto per il grande repertorio, va riconosciuto al regista il merito di aver rispettato la drammaturgia di fondo e di aver posto l’azione scenica sempre al servizio della musica (condizioni da rispettare più volte espresse, a modesto parere di chi scrive, per un legittimo progetto registico). Nel caso specifico, Rigoletto è sempre un buffone di corte, e sempre al servizio di un potente, ma di una corte di sbandati malavitosi che si riuniscono in un luna park in disuso, e il cui capo è un piccolo boss locale. Del protagonista, vecchio clown ormai in disarmo, si percepisce l’evoluzione psicologica e drammatica grazie a sapienti tocchi di regia: si veste e si trucca stancamente sotto il preludio, per andare a intrattenere il suo padrone passando dall’arcovolo centrale sormontato da un enorme mascherone consunto, e tenterà di riappropriarsi della sua dignità liberandosi progressivamente di quei panni. In questo senso il solo gesto di strapparsi la parrucca prima dell’invettiva ai cortigiani è teatralissimo, e parimenti il finale del secondo atto con la giacca colorata e le scarpe scagliati rabbiosamente. Ma il vero colpo di teatro si ha nel finale, quando Rigoletto scopre che nel sacco buttatogli da Sparafucile non c’è l’odiato Duca bensì Gilda : usando una controfigura nel sacco, Grazzini immagina la scena come un dialogo tra il padre distrutto dal dolore e lo spirito della figlia ormai morta, che aleggia sulla scena fino a scomparire progressivamente nel buio. Bellissimo momento molto ben realizzato, e in piena sintonia con la musica. Concorre in modo decisivo alla riuscita dell’allestimento l’uso sapientissimo del grande spazio dello Sferisterio, sfruttato con molta intelligenza nell’immaginare una grande piazza esterna all’ingresso del luna park, e soprattutto ben visibile da ogni settore dell’arena.
Rispetto al 2015, inoltre, sono stati meglio calibrati alcuni elementi che avevano suscitato qualche perplessità (tipo il gesto dell’ombrello con il quale il coro chiude il balletto stile Pulp Fiction sotto Scorrendo uniti remota via), rendendo questo allestimento ancora più compiuto e visivamente affascinante.
Alla guida di una Filarmonica Marchigiana in buonissima forma Giampaolo Bisanti dà della partitura una lettura originale ma allo stesso tempo rispettosa del dettato verdiano, cosa che ogni direttore sembrerebbe volere ma che poi quasi mai si realizza: ci vogliono perizia tecnica e controllo assoluto del braccio per realizzare a modo la difficilissima scena iniziale con la banda e l’interazione fra il Duca e Borsa, che qui infatti si sente nitida e scandita. E allo stesso tempo una sensibilità innata per rendere gli accompagnamenti alle pagine più melodrammaticamente insidiose, come Veglia o donna o Piangi fanciulla, non una lagna di sottofondo ma l’espressione in musica dei sentimenti dei protagonisti, e anche questo qui accade. Non posso inoltre non citare l’espressione massima del popolarismo verdiano, La donna è mobile: brano che fra opere complete e recital rischia quasi di venire a nausea, e che in questa occasione ha suscitato un originale interesse nell’ascolto di un attacco in piano, con un allegretto leggero che poi sfocia nel pianissimo dell’ingresso del tenore e che va in forte solo a conclusione dei beffardi “muta d’accento e di pensier”. Con centinaia di ascolti alle spalle si penserebbe di assistere a qualche bella ma arbitraria scelta direttoriale, salvo poi verificare che (ma pensa un po’!!) sullo spartito verdiano è scritta proprio così.
Ammirevole anche il fatto che il direttore abbia mantenuto tutte le puntature di tradizione ma in una lettura integrale, con tutti i tagli riaperti e i daccapo puntualmente eseguiti, cosa che conferisce alla “tradizione” una valenza drammaturgica. Certo per fare ciò c’è bisogno di un cast di valore, che anche in questa occasione, come nel citato Elisir dello scorso anno, si è presentato all’appello.
La rivelazione verdiana degli ultimi due anni Amartuvshin Enkhbat non tradisce le attese e fa ascoltare un Rigoletto in cui l’attenzione alla parola scenica sorprende ancora di più data la provenienza e lo studio del canto esclusivamente nella natìa Mongolia. Impressionante il Pari siamo, nella moltitudine di colori alla quale piega una voce ampia e brunita perfettamente appoggiata sul fiato, che sul Fa ch’io rida buffone trova accenti di disperazione raccolti dall’orchestra in modo mirabile, e commovente negli accenti di sincera partecipazione del Piangi fanciulla. Enea Scala è un Duca baldanzoso e insolente nella voce e nel fraseggio, dalla dizione scandita e dalla tecnica sicurissima che gli consente di emettere quasi con insolenza i sopracuti di tradizione, e di tenere lungo (come scritto) il fa che porta alla cadenza de La donna è mobile in un fiato solo, cosa rara all’ascolto dal vivo. A volte tuttavia sembra caricare un pò troppo l’accento, col risultato che nel Parmi veder le lagrime si insinua più del dovuto l’Addio alla madre della Cavalleria Rusticana, arrivando anche a creare qualche scompenso timbrico. Valore aggiunto, la ragguardevole presenza scenica, praticamente perfetta per il ruolo. Bravissima Claudia Pavone nel disegnare una Gilda scenicamente a metà strada fra adolescente e donna, non più l’una ma non compiutamente l’altra, che si esprime con la rigogliosità di un registro centrale capace però di salire ad acuti e sopracuti senza perdere di sostanza, e in grado di piegarsi a mezzevoci e pianissimi di bell’effetto drammatico. Decisamente non in serata Simon Orfila: oltre a ciccare clamorosamente il fa basso di Sparafucil fa ascoltare un voce affetta da problemi di vibrato largo, difetti solo in parte compensati dall’interpretazione. Sensualissima come presenza scenica e di vocalità sicura la Maddalena di Martina Belli.
Fra le parti di fianco si sono distinti gli ottimi Alessandra Della Croce come Giovanna, Matteo Ferrara come Marullo, Anastasia Pirogova come Contessa di Ceprano e Vasyl Solodkyy come notevole Borsa, mentre il Monterone di Seung-Gi Jung ha mostrato voce potente ma emissione diseguale. Bene anche Cesare Kwon come Conte di Ceprano e Gianni Paci come usciere. Completava il cast il Paggio di Raffaella Palumbo. Coro che dalla Carmen inaugurale è andato in deciso crescendo, mostrando in questa produzione la conosciuta e apprezzata bravura.
Successo finale pieno per tutti gli interpreti.
La recensione si riferisce alla prima del 21 luglio 2019.
Domenico Ciccone