Giunto alla terza edizione il festival “Purtimiro” di Lugo è ormai divenuto un punto di riferimento di eccellenza per lo sterminato repertorio dell’opera barocca, soprattutto italiana. La qualità della rassegna è garantita dalla direzione artistica di Rinaldo Alessandrini, interprete in grado di assicurarne il rigore musicologico. Nella sua varietà di appuntamenti, tra Settembre e Ottobre, “Purtimiro” punta ogni anno ad una riscoperta. Dopo Caldara lo scorso anno (con il recupero dell’oratorio “La morte di Abel”) quest’anno è stata la volta dell’esecuzione, in forma di concerto, dell’“Arminio” di Antonio Maria Bononcini. Azioni di repêchage quindi, ma non solo.Oltre all’autentica chicca dell’“Arminio”, l’edizione del festival che si chiuderà il prossimo 14 Ottobre ha in programma la serenata “Aci, Galateo e Polifemo” di Haendel (risalente agli anni italiani del compositore), l’oratorio “Ester, liberatrice del popolo ebreo” di Stradella e un interessante serie di concerti volti ad illustrare l’evoluzione musicale della danza di stile francese.
A conti fatti, dopo aver assistito all’ “Arminio”, ci siamo resi conto che è assolutamente doveroso fare un po’ di luce sull’opera e la figura di Antonio Maria Bononcini. Nella metà del Seicento quella dei Bononcini era una stimata e attiva famiglia di musicisti del modenese. Il padre, Giovanni Maria, era violinista alla corte estense e aveva raggiunto una certa celebrità, come teorico, con la pubblicazione di un trattato dedicato al contrappunto (precisamente il “Musico prattico”). Le carriere artistiche dei due figli Giovanni e Antonio, nati rispettivamente nel 1670 e nel 1677 ed entrambi oltre che compositori ottimi violoncellisti, si intrecciano in un percorso che da Modena li portò a Roma, a Berlino e Vienna. In seguito, a partire dal 1720, le loro strade si divisero e Giovanni soggiornò a lungo a Londra (sotto la protezione del duca di Marlborough) dove divenne un agguerrito rivale di Händel.
Persona forse di indole maggiormente schiva rispetto al fratello, Antonio ha lasciato tracce frammentarie della propria esistenza terrena. La sua formazione musicale avvenne a Bologna con Giovanni Colonna mentre la pratica si svolse a Roma, al seguito di Giovanni, alle dipendenze del cardinale Pamphilj. Successivamente il nostro Antonio fece fortuna a Vienna dove ricoprì, alle dipendenze dell’imperatore Giovanni I, la carica di maestro di cappella e compositore di corte. I prestigiosi incarichi nella capitale asburgica segnarono un periodo particolarmente proficuo per il compositore. Nel giro di sei anni Antonio dedicò all’augusto sovrano cantate, oratori, serenate e opere. Le cose mutarono improvvisamente alla morte dell’imperatore: il nuovo sovrano Carlo VI non rinnovò l’incarico al musicista che, privo di un impiego, ma non di notorietà, decise di tornare nel nostro Paese. Rientrato nella sua Modena, Antonio si sposò con una cantante (dalla quale ebbe cinque figli) e prestò servizio, sino alla morte avvenuta nel 1726, opera come responsabile della cappella ducale di Modena. Un incarico certamente più modesto rispetto all’impiego alla Hofburg ma forse, supponiamo, più sicuro e in un contesto meno carico di veleni rispetto a quelli cortigiani.
L’“Arminio” che abbiamo potuto ascoltare al Teatro Rossini, nella sua prima esecuzione in tempi moderni, è una “festa musicale” in due atti, su libretto di Pietro Antonio Bernardoni, da ascrivere ai lavori di corte. La composizione fu rappresentata per la prima volta all’aperto, nell’estate del 1706, nel “Parco della Favorita” (l’attuale Augarten) in occasione del ventottesimo compleanno di Giovanni I d’Asburgo. La vicenda, narrata da numerosi storici di epoca classica, rielabora la figura storica di Arminio, l’impavido condottiero dei Germani sopraffatto dall’esercito romano guidato da Germanico nella campagna del 14/16 dopo Cristo.
Come era consuetudine, il libretto inserisce nella vicenda storica ideali morali incentrati su un’idea di guerra virtuosa, sulla lealtà dei protagonisti e sulla loro caratura morale. Ecco quindi il Bernardoni inserire il contrasto di affetti tra la “barbara” Tusnelda, sposa di Arminio, dilaniata tra i legittimi sentimenti coniugali e il naturale amore filiale per un padre traditore (Segesto passato al servizio dei Romani). Sentimenti laceranti condivisi anche da Segimondo, fratello di Tusnelda e amante della principessa germanica Ismenia. Il lieto fine, che vede Germanico riconoscere la lealtà dei propri nemici, si chiude con la profezia della futura nascita, in terra germanica, di un sovrano che supererà in gloria e valore gli imperatori romani. Si tratta chiaramente di un encomio per colui che allora sedeva sul trono del Sacro Romano Impero ovvero, in quel 1706, lo stesso Giovanni I d’Asburgo.
La composizione di Bononcini, calorosamente accolta dal numeroso pubblico del Rossini, rappresenta un saggio esemplare delle qualità del suo stile. Pregevolezze che abbiamo potuto scorgere in una frizzante vivacità ritmica, nell’estrema raffinatezza della scrittura (anche come attenzione all’aderenza con il testo), nell’utilizzo della tecnica sempre in chiave molto espressiva e, cosa non da poco a quell’epoca, in una certa sobrietà nell’uso degli abbellimenti. Tutti elementi che, nonostante i versi un po’ ingessati di Bernardoni, hanno giovato nel dare una particolare forza drammatica all’articolata vicenda e, allo stesso tempo, hanno conferito sincerità ai sentimenti dei personaggi.
Le pregevolezze della partitura sono state magnificamente interpretate da Rinaldo Alessandrini che, sedendo al clavicembalo, ha diretto con la consueta bravura e la ferrea disciplina il Concerto Italiano qui in una formazione a parti reali. I musicisti, da parte loro, si sono mostrati ancora una volta all’altezza della loro rinomanza ormai internazionale con una fresca resa dei colori timbrici e un abile gioco di squadra (da citare tra tutti la bravura di Ludovico Minasi al violoncello).
Nel complesso ci sono parse soddisfacenti le voci sul palcoscenico. I cantanti erano, per lo più giovani (alcuni molto) e ai primi passi delle loro future carriere. A chi scrive è sono particolarmente piaciute la Tusnelda del soprano Giulia Bolcato (vibrante, incisiva e dotata di un’ottima musicalità) e il Segimondo del contralto Valeria Girardello animata da un’energica protervia ben diluita nelle arie di bravura affrontate con impeto e forza. Molto positiva la prova di Enrico Torre nel ruolo di Arminio: il controtenore ha mostrato di possedere un’emissione fluida, sempre ben definita nel suono e un’ottima agilità nelle colorature. Ben caratterizzati e precisi anche il Segesto del basso Alessandro Ravasio e il Germanico del tenore Raffaele Giordani (quest’ultimo appena un po’ rigido nei virtuosismi). Toccante per una partecipazione emotiva segnata da giovanili ardori il soprano Benedetta Corti (Ismenia). Al termine calorosi consensi da parte del pubblico con la speranza che il festival, grazie alla visibilità conseguita, trovi il necessario sostegno, soprattutto economico, per presentare opere in veste scenica.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 30 Settembre 2018.
Lodovico Buscatti