Soprano | Patricia Petibon |
Pianoforte | Susan Manoff |
Chi inizia con un buon programma è a metà dell’opera. Parafrasando il noto proverbio, si può certamente dire che la riflessione sull’importanza e sulla costruzione di un programma da concerto sia stato il pensiero ricorrente di chi ha assistito nell’ambito del Festival di Salisburgo alla serata di musica da camera con Patricia Petibon nella sala principale del Mozarteum.
Pur considerando la natura eccentrica ed eclettica della cantante, che proprio all’interno di questo festival è stata già apprezzata in passato sia nelle vesti di Despina che in quelle di Lulu, un primo sguardo alla scaletta proposta con la pianista Susan Manoff non poteva che suscitare un certo disorientamento. Per quanto gli autori dei testi di corredo si siano sforzati di far immaginare una “spedizione musicale negli interregni” tra Francia, Spagna e Americhe, accostare stili agli antipodi in una lunga catena di miniature ha richiesto agli spettatori una notevole capacità di adattamento,per quanto l’impegno è stato tuttavia premiato da alcune scelte inconsuete e ricercate.
La grande varietà ha bisogno di una narrazione riconoscibile, che in questo caso si è risolta piuttosto nel piacere delle due artiste di viaggiare in territori che hanno messo alla prova la loro versatilità. È stato diafano come l’immagine della Petibon l’inizio con Beau Soir di Debussy, seguito dalla scelta insolita di arie da camera dalle raccolte di Nicolas Bacri, compositore contemporaneo francese certamente non avanguardista. Si è trattato inizialmente di un viaggio per mare, nel quale la Petibon ha partecipato anche ai brani strumentali, coreografando navigazioni e naufragi: il mozzo che ascolta il richiamo della giovane nella torre della Canción del grumete di Joaquin Rodrigo, il paesaggio minimalista dell’isola bretone di Eusa (Quessant) in Porz Goret di Yann Tiersen.
Inizia poi l’altalena per mare e terra, tra la città e il limitare della foresta amazzonica, oscillando vertiginosamente tra Fauré, Collet e Obradors, De Falla e Satie. Stili e caratteri dei brani sono diversi, anche la loro difficoltà si estende su un ventaglio molto ampio; li unisce un approccio vocale che crea contrasti interni di caratteri e dinamiche, con mezze voci che esplodono senza preavviso in acuti aspri e fissi. L’ascolto non è agevole: da una parte c’è il colore di una voce poco assimilabile al calore latino della gioia, dell’amore e del lamento, dall’altra echi di retorica musicale antica che non trovano la giusta sintonia con questi repertori. La sintonia che permea l’intero concerto è invece quella data dalla consolidata collaborazione tra cantante e pianista: la Manoff sostiene la voce con la morbidezza di un accompagnamento affettuoso, confortevole grazie a un suono morbido, ma sempre robusto e denso.
L’intermezzo lirico-satirico tra i paesaggi spagnoli e brasiliani della prima parte del concerto è affidato alla Gnossienne nr.1 di Satie che la Manoff immerge nei riverberi del pedale, e agli aforismi di Sports et divertissements che evidenziano la coinvolgente vena umoristica della pianista, mentre il Voyage à Paris dalle per niente banali Banalités di Poulenc riporta la Petibon a casa, in una recitazione briosa e colorata, con la quale la voce trova una naturale, armoniosa sintonia nella freschezza della scena di festa paesana dalle Chansons villageoises.
Il pubblico tuttavia impiega l’intera prima parte della serata a capire quali siano le intenzioni del concerto. Abbandonarsi a questa libertà senza cercarvi una vera e propria storia necessita una spinta radicale sopra le righe ed ecco la Petibon emergere dall’attrezzeria allestita dietro e dentro il pianoforte con un gonnellino di foglie e un pappagallo giocattolo, nelle vesti della Dona Janaína del brasiliano (di origine italiana) Francisco Mignone, pronta a coinvolgere il pubblico in un florilegio di imitazioni ornitologiche. Cade, anche se un po' forzatamente, la barriera e il disorientamento della platea si trasforma in divertimento, conducendo a una conclusione trionfale della serata.
Nella seconda parte si continua con Henri Collet, compositore francese imbevuto di cultura spagnola, Turina, Granados e la sognante dolcezza de La rosa y el sauce dell’argentino Carlos Guastavino. C’è un legame forte tra pianoforte e cantante anche negli interludi strumentali, a volte così brevi da fare in modo che la cantante sparisca per un istante e riappaia da dietro la coda del pianoforte, a volte utili all’espressione pantomimica.
La selvaggia Danza ritual del fuego da El amor brujo è invece fondamentale per unire i brani quando gli accostamenti si fanno ancora più arditi e al dramma scomposto della zingara Salud da La vida breve di De Falla segue la scena comica costruita sulle Four recipes di Leonard Bernstein. Pianista e cantante rientrano in scena in grembiule e berretto da cuoco, armate di mestoli, un pentolone, una carota in tasca da sgranocchiare di tanto in tanto e una lunga serie di oggetti più o meno bizzarri per visualizzare le ricette da preparare. Tra una love story con il pollo e la soppressione del coniglio alla tastiera, utilizzando la coda del pianoforte come calderone e magico deposito, il gioco si estende da subito dal palco alla platea, presa di mira da lanci di ingredienti vari. Presentazione a parte, i quattro brani non sono uno scherzo per le interpreti, che superano con sapienza l’esame di cucina musicale. Ancora in grembiule, con orecchie e coda di coniglio, la Manoff fa emergere dalla tastiera un’ottima esecuzione del Preludio nr. 2 di George Gershwin, improntandolo alla capacità di dare al tocco e all’espressione l’ampiezza ariosa del respiro del canto e dei sospiri del blues.
Si conclude tra la leggendaria Granada di Augustin Lara, che avrebbe bisogno di corde più robuste, e una impalpabile intonazione di Isn’t she lovely. Proprio quest’ultima scelta fa immaginare la possibilità di abbinamenti eclettici più adatti alla cantante e nei quali l’espressione troverebbe una più felice sintonia con l’artificio (formula che la cantante padroneggia con personalissima naturalezza). L’esplorazione di territori inediti è una sfida stimolante, ma ancorarla a punti di forza avrebbe valorizzato maggiormente anche la cura del dettaglio, che la Petibon ha declinato in questo concerto tra l’attenzione alla pronuncia delle diverse lingue e lo studio scrupoloso di un repertorio dalle esigenze molto variegate.
La recensione si riferisce alla serata del 12 agosto 2019.
Rossana Paliaga