Raoul de Nangis | John Osborn |
Marcel / Un archer | John Relyea |
Marguerite de Valois | Venera Gimadieva |
Valentine | Jennifer Rowley |
Le Comte de Saint-Bris / Thoré | Tilmann Rönnebeck |
Le Comte de Nevers | Christoph Pohl |
Urbain | Štěpánka Pučálková |
Catherine de Médicis | Sabine Brohm |
Cossé | Simeon Esper |
Tavannes | Aaron Pegram |
De Retz | Chao Deng |
Méru | Magnus Piontek |
Maurevert | Mateusz Hoedt |
Bois-Rosé | Jürgen Müller |
Valet | Gerald Hupach |
Deux dames d'honneur | Michal Doron |
Grace Durham | |
Deux jeunes filles | Maria König |
Brynne McLeod | |
Trois moines | Jun-Seok Bang |
Norbert Klesse | |
Markus Brühl | |
Direttore | Stefan Soltész |
Regia | Peter Konwitschny |
Scene e costumi | Johannes Leiacker |
Luci | Fabio Antoci |
Drammaturgia | Bettina Bartz |
Kai Weßler | |
Maestro del Coro | Jörn Hinnerk Andresen |
Sächsische Statskapelle Dresden | |
Sächsischer Staatsopernchor Dresden | |
Knaben des Kinderchors der Sächsischen Staatsoper Dresden |
Una rappresentazione di Les Huguenots, opera mitica di enorme difficoltà esecutiva e amatissima dal pubblico del XIX secolo, è sempre un avvenimento, nonostante qualche sporadica ripresa, soprattutto nei teatri tedeschi; tanto da valere una trasferta a Dresda, città ricca di storia e d’arte, con un fascino tutto suo, adagiata com’è sul letto dell’Elba e immersa nel verde dei viali e dei parchi. Ma la città sassone colpisce soprattutto per la severità delle linee, dai colori cupi, qua e là interrotte da improvvise fastosità barocche. Il contrasto tra luci e ombre si attaglia singolarmente al capolavoro meyerbeeriano che oscilla tra le frivolezze dei nobili cattolici e la loro spietata ferocia, il rigore dei canti ugonotti e i quadri di genere del terzo atto, le venature grottesche colorate di fanatismo e la forza morale di Marcel, i languori di Chenonceaux e gli empiti appassionati dei due amanti. Un’opera estremamente complessa, monstre per dimensioni, spiegamento di forze, complessità di realizzazione.
La produzione presentata dalla Semperoper doveva essere coprodotta con l’Opéra National de Paris. Sembra che Michele Mariotti, direttore della produzione parigina, abbia negato il placet e se ne possono capire le ragioni. Peter Konwitschny è un regista non certo privo di meriti; sa dare un’impronta forte ai suoi spettacoli, sa far muovere le masse, sa creare atmosfere anche con un uso delle luci di grande impatto (realizzatore l’ottimo Fabio Antoci). Insomma riesce a dar vita a spettacoli che spesso lasciano il segno. Non è raro però che la sua forte personalità possa sovrapporsi al testo talvolta snaturandolo. Nel 1999 la sua Csárdásfürstin alla Semperoper creò uno scandalo tale da avere ripercussioni legali. Vent’anni dopo a Dresda la curiosità per questi Huguenots era tanta e ci si aspettava una lettura altrettanto scioccante; ma il regista tedesco spiazza tutti presentando i personaggi in costumi cinquecenteschi come previsto dal libretto (molto belli, a cura di Johannes Leiacker, come anche le scene). Ci sono, è vero, eccessi nella recitazione (i fin troppo insistiti atti di bullismo nei confronti di Marcel al primo atto) e qualche trovata magari anche divertente ma che mal si colloca nel quadro generale e nello spirito dell’opera (Marguerite che passa buona parte del secondo atto in una vasca da bagno e mentre esprime apprezzamenti nei riguardi di Raoul passa dai pensieri ai fatti iniziando a spogliarlo e portandoselo dentro la tinozza). Però ci sono pure momenti forti, conturbanti, come la scatenata ferocia dei cattolici (compresi i bambini) al momento della benedizione dei pugnali e l’aura livida, attraversata da bagliori rossastri, che avvolge la preparazione e poi lo sviluppo della strage. Filo conduttore della vicenda è l’immagine della leonardesca Ultima cena, presente all’inizio di ogni atto, ma ogni volta più piccola e meno visibile, sempre più cupa, inquietante, come inquietante è la religiosità che si perde nel fanatismo, pretesto per il raggiungimento di fini assai lontani da quanto predicato dal cristianesimo.
Quello che invece lascia quantomeno perplessi è la disinvoltura (condivisa col direttore e i responsabili della drammaturgia, Bettina Bartz e Kai Weßler) con cui viene tagliato il testo (scompare circa un’ora e un quarto di musica) e vengono effettuati spostamenti di brani che provocano effetti distruttivi sulla coerenza drammatica. Non starò ad elencare tutto ciò che è stato sforbiciato, limitandomi a segnalare gli interventi più discutibili. Scompaiono la ripresa di Plus blanche que la blanche hermine, la parte centrale della grande scena di Marguerite all’inizio del secondo atto, buona parte di quello che sta tra la cabaletta della regina e l’arrivo di Raoul; anche il terzo atto presenta tagli consistenti e perfino il duettone del quarto atto subisce un’amputazione (si passa da Reste! Je t’aime di Valentine a Tu l'a dit! di Raoul), un intervento mai sentito, nemmeno nelle versioni iper abbreviate di Gavazzeni e di Serafin. Stranissima poi la decisione di spostare dall’inizio del quarto atto alla conclusione dello stesso la romanza di Valentine Parmi les pleurs mon rêve se ranime, brano in cui la donna è combattuta tra amore e dovere, mentre l’immagine di Raoul riaffiora prepotentemente. Si tratta di un andante cantabile con le indicazioni dolce con espressione, dolce ma marcato, dolce. Insomma un’assurdità dal punto di vista drammatico, data la tragicità della scena immediatamente precedente (Valentine sviene guardando dalla finestra l’inizio della strage di San Bartolomeo mentre l’amante si slancia in difesa dei compagni) e un calo di tensione imperdonabile. Della prima scena del quinto atto sopravvive solo la musica di danza (ma non l’introduzione) condita da colpi di mitraglia, mentre sul palcoscenico scorrazzano soldati in abiti moderni. Si arriva quindi al finale con l’ultimo e più incongruo spostamento. Dopo che i tre protagonisti sono colpiti a morte e dopo che Saint-Bris ha riconosciuto la figlia, vengono sforbiciati l’intervento di Valentine e quel che segue; così l’opera, anziché terminare col breve coro di soldati, si spegne (è proprio il caso di dirlo) con l’assolo del clarinetto basso, previsto come introduzione al terzetto Savez-vous qu’en joignant vos mains dans ces ténèbres. Tutto questo perché i responsabili di questa produzione non credono fino in fondo in quest’opera e cercano a loro modo di “migliorarla”. Ma l’operazione si rivolge contro di loro perché lo spettacolo, nonostante i tagli impietosi e gli aggiustamenti, sembra più lungo dello spettacolo parigino dello scorso ottobre (vedi recensione), il quale, molto più ricco di musica ma soprattutto rispettoso della drammaturgia, filava che era una meraviglia, nonostante un tenore inadeguato.
Interessante invece è l’introduzione di una scena pressoché inedita (stando alle affermazioni di Konwitschny sul programma di sala) e presentata, prima di questa occasione, solo a Lipsia nel 1974 da Joachim Herz. Si tratta dell’incontro tra Nevers e Valentine al primo atto, eliminato dallo stesso Meyerbeer “prima della prima” non si sa se per scelta dell’autore o per imposizione del teatro a causa della lunghezza dell’opera. Si tratta di un brano della durata di poco meno di cinque minuti che consiste in pratica in un arioso del soprano, di tessitura piuttosto bassa, in cui la donna chiede al fidanzato di liberarla dal vincolo che li lega, mentre il baritono ha solo qualche frase di recitativo. Altro momento inedito è l’ingresso di Caterina de’ Medici nella scena della congiura del quarto atto, i cui interventi vennero, pare per motivi di censura, assegnati a Saint-Bris. Poi il conte si riappropria del suo ruolo a partire da Pour cette cause sainte.
La parziale non riuscita dello spettacolo va addebitata soprattutto al direttore Stefan Soltész, responsabile, oltre che delle cervellotiche scelte condivise col regista, di una lettura greve, povera di colori, nonostante avesse a disposizione un’orchestra di alto livello come la Sächsische Statskapelle di Dresda. Al maestro ungherese va tuttavia riconosciuta una indubbia professionalità nella gestione degli equilibri col palcoscenico e nel non soverchiare mai i cantanti. Nella replica alla quale ho assistito, non essendo presente Konwitschny, si è riversato su di lui il malcontento di una parte del pubblico alle uscite singole finali. Resta ancora da segnalare l’ottima prova della flautista Kana Takenouchi, nell’introduzione al secondo atto, ma degni di lode sono anche l’arpista Aline Khouri, Billy Schmidt al clarinetto basso e l’ignoto (perché non nominato sul programma di sala) solista alla viola d’amore che accompagna Raoul al primo atto. Assai rilevante la prestazione del Coro del Teatro e del Coro di voci bianche diretti da Jörn Hinnerk Andresen.
Ma Les Huguenots è anche un’opera per grandi cantanti e la Semperoper ha assemblato un cast se non ideale certo di prestigio. Intanto tutti i ruoli minori, ma tutt’altro che da semplici comprimari per la maggior parte, erano sostenuti con grande perizia. Spiccava il Tavannes di Aaron Pegram, ma va elogiata tutta la schiera dei nobili cattolici, spesso impegnatissimi in brani d’assieme: Simeon Esper (Cossé), Chao Deng (De Retz), Magnus Piontek (Méru), Mateusz Hoedt (Maurevert). Forte personalità ma mezzi vocali non più freschissimi per la Caterina de’ Medici di Sabine Brohn, buono il Bois-Rosé di Jürgen Müller e di alto livello anche tutti gli altri: Gerald Hupach (Léonard, valletto di Nevers), Michal Doron e Grace Durham (Due dame d’onore), Maria König e Brynne McLeod (Due fanciulle), Jun-Seok Bang, Norbert Klesse e Markus Brühl (Tre monaci).
John Osborn inizia un po’ cauto e la proiezione della voce appare meno incisiva di altre volte. Ma fin da subito emerge la classe e il dominio assoluto della linea di canto. Il tenore americano non teme nessuna delle insidie del ruolo. Romantico e ispirato in Plus blanche que la blanche hermine, languido e fatuo nel duetto con Marguerite, amoroso, appassionato e disperato nel duetto del quarto atto. Usa molto, a ragione, un’emissione mista di testa (usata con rara maestria nelle ascese, fino al re bemolle 4, quando la frase richiede soavità o abbandono), ma nel quarto e quinto atto si fa valere anche nelle frasi più drammatiche.
Valentine pone i soliti enormi problemi tipici dei cosiddetti ruoli Falcon, di tessitura spesso mezzosopranile ma con frequenti fiondate in alto fino al do 5. Jennifer Rowley (che pure è stata molto applaudita) ha un registro grave piuttosto flebile, che talvolta la cantante tende ad aprire per cercare spessore; poi, salendo, la voce acquista consistenza, ma gli estremi acuti, pur se sonori, a volte risultano un po’ forzati. Il personaggio di conseguenza risente di queste disuguaglianze vocali e, a fronte di buoni momenti negli abbandoni più lirici, manifesta una certa tendenza a calcare la mano quando la linea musicale si fa più arroventata.
Marcel, grande ruolo di basso scritto per il famoso Nicolas Levasseur, richiede un registro grave consistente, incisività di accento, ma anche ampiezza e nobiltà di fraseggio. John Relyea è un po’ debole in basso ma ha centro e alto medium sonori. Rende bene l’aspetto rude e guerriero del personaggio, meno il fervore religioso e la levatura morale. Si appropria con buon risultato anche delle frasi dell’arciere che intima il coprifuoco al terzo atto.
Venera Gimadieva non potrà competere con l’eleganza, il virtuosismo, la coquetterie della recente Marguerite parigina, Lisette Oropesa, ma dalla sua ha una voce più corposa, sonora, più consona alla regina di Navarra; e poi la vocalizzazione è comunque d’alta scuola, mentre la presenza e il portamento sono prestigiosi. Le si può addebitare solo un sopracuto non del tutto centrato, ma si tratta di un’inezia di fronte a una prestazione di grande rilievo.
Una gradita sorpresa si è rivela il giovane mezzosoprano Štěpánka Pučálková (Urbain), una voce capace di riempire il teatro e passare coro e orchestra nel concertato finale del primo atto, percorrendo tutta l’estensione del ruolo con una facilità disarmante, fino a un do 5 veramente luminoso. Si disimpegna bene nella coloratura, in scena è spigliata, elegante ed è pure una bella ragazza, alta e slanciata. Peccato che il ruolo, come del resto anche quello di Marguerite de Valois, sia stato falcidiato.
Elegante e all’occorrenza incisivo il Nevers di Christoph Pohl, mentre meno significativo appare il Saint-Bris di Tilmann Rönnebeck, che si fa pure carico, onorevolmente, della parte di Thoré.
Alla fine successo caldo per tutti con (come già accennato) qualche contestazione al direttore Stefan Soltesz.
La recensione si riferisce alla recita del 2 luglio 2019.
Silvano Capecchi